I colori delle note

Cuore
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La storia più apprezzata del n. 38

 

Sono musicista ma per un brutto incidente alla mano devo star fermo per un po’. Maya è la mia fisioterapista, una ragazza giovane e carina che mi piace un sacco, peccato che abbiamo sogni diversi. Ma sono sicuro che sia così?

STORIA VERA DI DAVIDE L. RACCOLTA DA SIMONA MARIA CORVESE

 

«Vede la sua mano, Davide?» mi dice il dottore al Pronto soccorso, indicando la lastra della radiografia, «ha fratturato il polso e anche l’anulare. Detto così sembra una brutta cosa ma vedrà che guarirà perfettamente».

Mi crolla il mondo addosso: io vivo della mia musica. Sono un chitarrista classico e ho una mia ensemble con la quale suoniamo musica barocca. Sono caduto in- ciampando in un tappeto in chiesa proprio alla fine di un concerto. «Potrò ancora suonare?» gli chiedo con il panico negli occhi.

«Certamente» risponde lui con un sorriso ottimista e incoraggiante, «ora deve stare a riposo per sei settimane. Si prenda una bella vacanza, poi ci rivediamo». Con il morale a terra torno dai miei genitori in Alto Adige per la festa della vendemmia. Loro lavorano alle dipendenze di un’azienda vinicola e vivono in un maso all’interno della proprietà. Mi affaccio alla finestra della mia camera e vedo campi di viti a foglia verde legati a fili e pali, terra marrone compattata in una pista tra i filari, lavoratori con cappelli a tesa larga che ispezionano l’uva, tra i quali riconosco mia sorella. La vedo che si avvia lungo il viale alberato che, attraverso i campi, conduce all’edificio principale della cantina. So dove sta andando e decido di raggiungerla. «Ben arrivato, Davide. Mi dispiace tanto per quello che ti è accaduto. Vedrai che passerà anche questo brutto momento» mi dice mentre confeziona regali con il logo dell’azienda per alcuni clienti.

«Senti, durante queste settimane vorrei fare qualcosa. Non posso aiutare a vendemmiare e neppure a confezionare regali qui al negozio, ma potrei essere utile nell’area delle dimostrazioni e degustazioni, illustrando ai clienti gli ingredienti dei vini e il processo di distillazione».

Gabriella mi sorride: «Credo che questo si possa fare». Le mia convalescenza trascorre così, tra le mie dimostrazioni mentre il ragazzo al bancone in legno lucido riempie i bicchieri dei clienti e l’accoglienza alla reception, dove indico la lavagna nera sulla quale sono stati scritti i marchi della casa e gli orari di degustazione dei vini. Quando poi torno dal dottore per la visita di controllo, lui mi manda da un fisioterapista per recuperare la funzionalità della mano.

«Dottore, lei pensa che tornerò a suonare come prima dell’incidente?» gli domando, ancora seduto sul lettino dove mi ha visitato dopo che mi è stato tolto il gesso. «Non si preoccupi» mi risponde. «Quello di cui lei ha ora bisogno è un fisioterapista. Vedrà che recupererà al cento per cento». Si va a sedere alla scrivania e mi scrive l’indirizzo del terapista cui posso rivolgermi. Lo saluto, ringraziandolo per la speranza che mi ha dato.

A casa voglio provare subito a riprendere in mano la chitarra. Pessima idea: suono in modo terrificante. Avverto anche dolore al dito infortunato, al punto che devo interrompermi. Affranto, lascio la chitarra sul mio letto in camera e vado da mia sorella: ho bisogno di parlare con qualcuno. So dove trovarla a quest’ora, è nel capanno ai margini della proprietà. Le hanno permesso di prenderlo in affitto e di avviare un’attività di liutaio come secondo lavoro. È stato il nostro sogno per molto tempo quello di diventare liutai a tempo pieno. Non abbiamo abbandonato l’idea anche se per il momento a portarla avanti è solamente lei. Mentre avanzo verso il capanno, attraverso i campi, una fresca brezza serale scivola gentilmente tra le vigne e gli alberi. Come pensavo, Gabriella è al lavoro. Alcune chitarre finite sono appese alle pareti di legno. Altre, ancora incompiute, adagiate su un tavolo da lavoro mentre per terra il pavimento è cosparso di trucioli di legno. Sento nell’aria l’odore della colla che usa per lavorare, mentre fasci di luce dorata dell’ultimo sole filtrano attraverso i vetri delle finestre.

«Com’è andata, Davide?» mi chiede appena mi vede. «Il dottore mi ha detto che posso recuperare al cento per cento la flessibilità della mia mano» le rispondo mentre prendo in mano la sua chitarra in costruzione. «Bello strumento, sai? Promette bene».

Lei ignora la mia affermazione «Un’ottima notizia, perché allora hai quell’espressione angosciata?».
La guardo dritto negli occhi: «Se non recupero cosa farò, Gabriella?».

Lei mi sorride incoraggiante: «Abbi fiducia, si risolverà tutto».
Il giorno dopo conosco Maya, la mia fisioterapista, nel suo studio nel retro della sua villetta. È giovanissima e, con quegli occhi azzurri e i capelli biondi, sembra un angelo. Sono consapevole della sua bellezza ma rimango affascinato dalla sua gentilezza. «Stai tranquillo» mi dice mentre io mi siedo sul lettino, «tornerai in forma perfetta per suonare la tua chitarra». Comincia a muovermi delicatamente le dita per fare i primi esercizi, ma io faccio una smorfia di dolore. Maya mi rassicura con un sorriso. «Ci vediamo dopodomani» mi dice nel fissarmi l’appuntamento successivo, «domani accompagno mio nonno a una visita in ospedale. È stato lui a crescermi quando da bambina ho perso i miei genitori. Ora mi occupo io di lui: ha il morbo di Parkinson».

«Mi dispiace, Maya». Provo tenerezza per lei, così giovane e con così tante responsabilità già sulle spalle: la malattia di suo nonno andrà sempre più degenerando con il tempo. Mi soffermo a guardare il suo bel volto e i battiti del cuore mi accelerano. Anche lei sembra incapace di distogliere il suo sguardo limpido da me e per qualche istante prima di salutarci ammutoliamo. Tornato a casa provo a suonare la chitarra e sento ancora male, oltre a notare che non ho più il controllo del dito medio. So cos’è: è distonia focale e non ha nulla a che vedere con le fratture che ho avuto. Questa disgrazia mi ha colpito nel cuore ed è stata devastante per la mia autostima: la musica è il mio lavoro, ma se non guarisco non potrò più suonare. Speravo che sarebbe sparita con un periodo di riposo e questo aumenta il mio sconforto. Mi guardo allo specchio e scorgo un bagliore di rabbia nei miei occhi verde chiaro.

Maya mi piace molto, così alla fine della seconda seduta mi faccio avanti: «Hai piani per il week end?». «Non proprio, a parte fare un giro alla festa di fine vendemmia» mi dice sotto il portico della villetta. «Posso accompagnarti?».
«Va bene. Mi sembra un’idea carina» mi risponde sorpresa, ma con gli occhi che le brillano.
Vediamo così la sfilata dei figuranti in costume d’epoca e la sera andiamo in una taverna. Sediamo sulle panche di legno, con colorati cuscini imbottiti di un tavolo appartato. Arriva una cameriera in grembiule tirolese. Appoggia sulla tovaglia rossa un tagliere con il pane di segale poi estrae dalla tasca il blocchetto e la penna per prendere l’ordine. C’è odore di birra, ma sento anche profumo di vino robusto che proviene dai bicchieri del tavolo vicino al nostro.
«C’è qualcuno di speciale nella tua vita?» mi chiede Maya mentre io prendo il coltello dal tagliere.
«Be’, c’è la mia ensemble che mi appaga. Non ho molto tempo per la vita sociale».
«Ho capito, ed è questo che vuoi?» mi chiede lei con tatto. Maya riesce a leggermi nell’anima e quando incontro il suo sguardo diretto, un fremito di piacere mi corre lungo la schiena. La guardo con intensità un po’ più del dovuto e lei distoglie lo sguardo imbarazzata. Le sue guance si sono arrossate ma non per il caldo che fa qui dentro.
Rido imbarazzato poi mi faccio serio: «Desidero il matrimonio, i figli, una famiglia».
«Sì?» dice lei sorpresa.
Intanto le verso un po’ d’acqua nel bicchiere. «Certo, desidero questo, ma con chi ama la musica come me». Maya mi guarda attentamente poi mi dice: «Questa è stata una settimana strana».
«In che senso?» le chiedo.
«Non avrei mai pensato di uscire dal mio guscio. Con mio nonno e la sua malattia ho anch’io poco tempo per la vita sociale».
«Forse non è necessario uscirne. Magari basta allargare il guscio» le rispondo, guardandola con dolcezza.

Intanto ritorna la cameriera che ci porta un altro tagliere con speck, uva e formaggi tipici e iniziamo a mangiare. Quando torno a casa quella sera racconto tutto a mia sorella. «Conosco Maya» mi dice, «è mia amica e una persona splendida, ma se ti piace così tanto come sembra, dovresti farti avanti».

«Non è così semplice, Gabriella» rispondo secco. Non sono ancora pronto ad affrontare l’argomento.
Le mie terapie con Maya proseguono bene e ormai ho recuperato quasi del tutto la piena motilità della mano. La distonia focale persiste ma non ne ho parlato a Maya. Lei non potrebbe comunque fare nulla per me. Un pomeriggio, mentre l’aiuto a raccogliere alcune mele nel suo frutteto, avviamo una conversazione. «E tu, vuoi bene a qualcuno?» le chiedo mentre prendo in mano il secchio di legno per le mele.

«No, non c’è nessuno di importante» risponde lei staccando delle mele dall’albero e mettendole nel secchio. «Veramente?».
«Perché sei così sorpreso?».

«Non so, sei una bella ragazza, avevo supposto che tu fossi impegnata».
Il terreno sotto i miei piedi è ancora riscaldato dal sole che sta tramontando. «Il mio lavoro e mio nonno occupano gran parte del mio tempo, ma immagino che tu lo capisca» mi dice mentre la brezza scivola tra gli alberi. Forse le sto facendo domande troppo personali, perché è ancora arrossita. Maya mi offre la sua totale attenzione e io, avvertendo la connessione emotiva che ci unisce, rimango senza respiro.

«Certo ma si trova sempre tempo per la persona giusta» le rispondo mentre entriamo in casa e iniziamo a pre- parare una torta di mele.
«Si vede che finora ho trovato tempo per le persone sbagliate». A quel punto lei mi rivela di aver avuto un fidanzato. «È finita tra noi due perché lui è andato a lavorare all’estero come fisioterapista per un’organizzazione umanitaria. Io non me la sentivo ancora di fare quel passo, anche se è stato sempre il mio sogno. Cosa accadrebbe a mio nonno?» mi dice.

«Sei una persona di grande talento, Maya. Devi solamente fidarti del tuo intuito» la incoraggio.
«Io ho grandi aspettative su come dovrebbe essere una relazione e mi baso su ciò che hanno avuto i miei nonni: c’è stato così tanto amore e fiducia tra loro». Annuisco, intuendo che vuole dirmi qualcos’altro. Maya stende l’impasto della torta nella teglia circolare e vi adagia il composto di mele. Lo copre con un altro disco di pasta e poi lo inforna. «Qualche mese fa ho presentato anch’io domanda a una ong per lavorare all’estero ed è stata accolta».

Ho il cuore che mi martella in gola. «E hai già accettato?» chiedo con la voce soffocata dall’emozione, che controllo a stento.
«No» risponde lei pulendosi le mani in un canovaccio. «Non ho ancora preso una decisione».

Avrei voluto dichiarare i miei sentimenti a Maya quel pomeriggio ma ho rinunciato. Mi sento demoralizzato. È chiaro che le nostre vite si divideranno. Anche lei fa fatica a continuare la conversazione, come se rispondere comportasse un grande sforzo. Nel suo sguardo colgo però un velo di delusione. Forse si aspettava che io le esternassi i miei sentimenti?

Le mie terapie nei giorni successivi finiscono e recupero la motilità della mano, distonia focale a parte. È giunto il momento di tornare a Milano. Sento però il bisogno di parlare con mia sorella e la raggiungo al capanno. «Che meraviglia!» dico vedendola con una stupenda chitarra barocca in mano.

Lei annuisce: «L’ho finita da poco. Mi è stata commissionata per un regalo».
«Chi è il fortunato che la riceverà?», chiedo avvicinandomi a osservarla.

«Sei tu».

Alzo lo sguardo meravigliato. «È un regalo di Maya». Rimango senza parole.
«Maya faceva affidamento sui miei sentimenti, ma io l’ho delusa» confesso.

«Questo è sciocco, Davide».
«Cosa vuoi dire?» chiedo, prendendo la chitarra.
«Tu le piaci e lei piace a te» mi sorride complice. «Maya accetterà il nuovo lavoro all’estero. Io torno a Milano. Che differenza fa se ci piacciamo?».
«Penso che faccia molta differenza, ma almeno devi dirle addio». Annuisco. Gabriella se ne va e io la seguo con lo sguardo, riflettendo sulle sue parole e ricordando anche i tempi in cui tutti e due sognavamo di diventare liutai qui in Tirolo.

Il pomeriggio seguente, quando raggiungo Maya, scopro che anche lei sta partendo. «Ho cercato qualcosa che giustificasse ancora la mia presenza qui ma non ho motivi per restare, giusto?» dico sperando che lei mi trattenga.
Maya annuisce lievemente: «Non dopo le decisioni che abbiamo preso. Sto andando a Milano a firmare il contratto e mio nonno andrà in una casa di riposo. Non ho motivo per restare neppure io, giusto?». Anche lei spera che sia io a fermarla.
Annuisco mestamente: «Addio, Maya».
«Ciao, Davide» mi sorride lei, poi si volta e se ne va. Un mese dopo torno indietro e trovo Maya.
«Credevo fossi partita» le dico. È così bella che mi lascia senza respiro.
«E tu cosa ci fai qui?».
«Ho capito che voglio fare il liutaio qui, insieme a mia sorella e, ora che ci sei anche tu, voglio vivere con te. Ti amo, Maya».
«Ho rinunciato al mio sogno perché non è più impor- tante» mi dice commossa. «Mi sono innamorata di te dal primo momento che ti ho visto e ho capito che per aiutare le persone posso stare anche qui».
Mi avvicino e le faccio scivolare le braccia intorno alla schiena, baciandola teneramente. «D’ora in poi suonerò tutti i colori delle note solo per te». ●

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