“Nel corso dei dieci e rotti anni in cui aveva esercitato come psicologa clinica, Ellen Rovner aveva sviluppato una concezione negativa del comportamento degli esseri umani in generale, e tale concezione tendeva a comprendere anche i figli e il marito. Gli esseri umani erano dei bugiardi sessualmente frustrati e illusi: erano gelosi, competitivi, meschini, ingenerosi, sospettosi e di rado meritevoli di compassione, dal momento che agivano spesso in modo deplorevole. Ma nello studio che si era aperta nel 1971 dentro l’edificio medico del centro commerciale Old Orchard, a Skoksie, tale opinione le aveva conquistato un seguito di devoti, soprattutto donne, che trovavano le sue opinioni schiette, oneste e stimolanti, persino quando erano molto ostili. Per quanto riguardava i suoi figli, Ellen considerava Larry un ragazzo di alto rendimento e scarso potenziale. (…) Secondo il giudizio di Ellen, Lana era infinitamente più subdola del fratello. Anche se non era mai stata brava a scuola come Larry, Lana – Ellen non aveva dubbi – era destinata al successo. (…) Il problema principale di Michael Rovner (ndr., il marito di Ellen) Ellen non aveva dubbi, era la sua omosessualità. E non solo era gay, pensava Ellen, ma non l’avrebbe mai ammesso né con se stesso né con nessun altro, cosa che lo rendeva inutile per qualsiasi esponente dell’uno e dell’altro sesso”.
Chicago, 444 giorni tra il 1979 e il 1981. Quasi due anni di storie personali, di storia locale, di storia di uno Stato, di una federazione, del mondo, a partire da un’arteria, California Avenue, che taglia in due West Rogers Park. Da un lato, i condomini proletari, dall’altro le villette eleganti, quelle con il prato sintetico e il barbecue sempre pronto. A fare da collante, un collante che non unisce ma tiene solo unite in modo forzoso due zone separate, una religione intesa non come fede ma come ‘luogo comune’.
A West Rogers Park, chi al di qua e chi al di là di California Avenue, vivono tre famiglie. Madri, padri e figli, quasi tutti adolescenti o lì per lì. Adam Langer ci porta a fare un viaggio intensivo dentro le case, dentro i cuori vagabondi, dentro la falsità. Falsità degli adulti che vivono vite immature per scelta o necessità, falsità degli adolescenti che vivono vite adulte per fare il verso ai modelli che non hanno. Ecco allora coppie di genitori improponibili come Ellen e Michael: psicanalista lei, piena di odio verso i suoi pazienti (odia la loro resa all’infelicità, il coraggio ultimo e primitivo di chi vuole tentare un riscatto), ferma sostenitrice della necessità di lasciare che i figli crescano lontani da qualunque ombra genitoriale, da qualunque carezza; lui, marito e padre, uomo che fugge da un’identità sessuale sfogando la sua mascolinità su tutte le donne che incontra senza mai trovare sazietà di cuore. Charlie, c’è lui e il suo lutto d’amore, una moglie amatissima persa troppo presto, e le due figlie, Michelle e Jill. C’è Muley, un piccolo genio, innamorato di Jill. C’è, no, non vi dico altro, mi fermo qui.
Adam Langer è un boccone che ha un po’ il sapore di Roth con richiami aromatici a Salinger e il peso specifico della narrazione abbondante di Franzen. Una storia generazionale nella quale non è difficile ritrovare il ritmo emotivo, una sinusoide, anche di questi nostri tempi. Bella lettura. Di quelle che ridi; e piangi anche, un po’.
Adam Langer, I giorni felici di California Avenue, Einaudi
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