Aspettando te

Cuore
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Stasera, mentre osservo i fiocchi di neve che si fanno sempre più fitti e stanno imbiancando la strada, voglio ricordare quel Natale. Quello in cui una bambina dalle trecce bionde aspettava il suo papà…

Storia vera di Daniela Granieri

Già si vedono le prime vetrine addobbate a festa. Eppure manca ancora un mese, o forse solo un mese. Dipende dai punti di vista. Dalla mia terrazza vedo alcune luci che si inseguono impazzite e mi augurano buone feste, buon Natale, buon anno. Come se davvero l’anno che se ne sta andando portasse via con sé ogni problema, ogni dolore, ogni tristezza. Ho sempre detestato questo periodo dell’anno, le cene con i parenti, quelli che fino al Natale successivo non vedrai più, la corsa al regalo più chic, più esagerato, più originale. In tutta la mia vita, ricordo un solo Natale con una tenera nostalgia. Un Natale da bambina, con le trecce lunghe e il cappotto rosso, ad aspettare che un treno mi portasse il regale più bello. Mio padre.

Appoggio i gomiti sul davanzale freddo e guardo in alto. Illuminati dalla luce dei lampioni, piccoli fiocchi bianchi stanno cadendo. «Ve l’avevo detto io che avrebbe nevicato». Mi sembra di sentire di nuovo la sua voce, mi sembra quasi che affacciato alla finestra ci sia lui e non io. E torno a essere quella bambina con i capelli troppo lunghi e il cappotto rosso.
«Mamma, mamma! Lo facciamo l’albero?». Mia madre sembra non avere mai abbastanza tempo o abbastanza voglia per soddisfare questa richiesta, ma non vuole nemmeno che lo facciamo da soli. Che sia mai che rompiamo qualche palla che a noi sembra vecchia, e a lei bellissima. Alla fine ci accontenta, tiriamo fuori il vecchio abete ecologico, la scatola con le luci (che chissà perché si fulminano sempre al momento meno opportuno) la carta rossa e i nastri dorati. Quella palla più in alto, l’altra più a destra, il filo più in basso. Sono piccola, ma abbastanza grande da riconoscere questo strano rituale che non capisco ma do per scontato che se la mamma dice di fare così, vuol dire che è giusto. Sul tavolino che regge l’abete, sistemiamo con enorme cura un torrone, un panettone e un pandoro sapendo bene che avremmo dovuto aspettare il 25 sera per mangiarli. I regali, se mai ci fossero stati, sarebbero apparsi come d’incanto alla Vigilia.

Ma quest’anno non mi importa se avrò quella bambola che cammina, mia sorella il mangiadischi e mio fratello il giubbotto di pelle che brama tanto. Quest’anno avremo tutti il regalo più grande. Nostro padre riuscirà a passare il Natale con noi. Lui naviga, è un ufficiale di marina. Marconista. Lui è più importante del Comandante perché senza marconista la nave non parte. È il collegamento tra il mare e la terraferma. Sono molto orgogliosa di questo padre, anche se lo conosco molto poco. Però mi sento importante quando mi illustra le carte nautiche e mi spiega come si leggono le coordinate in modo che io possa poi fare altrettanto con i miei compagni di classe, e al settimo cielo quando mi prende per mano e andiamo a comprare la cioccolata bianca di nascosto dalla mamma.
Molto di rado purtroppo. Però questa volta ci sarà e io voglio pensare solo a questo. Voglio fargli un regalo, qualcosa che possa portare con sé e gli ricordi sempre questa bambina con gli occhi azzurri e le gambe troppo lunghe. Non ho soldi, in casa mia non ne girano molti, quindi devo usare la fantasia e quella non mi manca. Un paio di fogli colorati, dei pennarelli, qualche ritaglio di giornale. Così nasce il mio regalo, un piccolo collage di me, di noi, della nostra poca vita insieme.

Lo ripiego con immensa cura e lo chiudo in una busta ricoperta di cuori e “ti voglio bene”. Non vedo l’ora di darglielo, di vedere che faccia farà. Non vedo l’ora che mi stringa le braccia e mi dica: ma quanto sei cresciuta. E gli mostrerò orgogliosa la finestra del dentino caduto, e la cicatrice che mi sono procurata cadendo. E no. Non ho pianto nemmeno un po’. La mamma invece è quasi svenuta. Così lui riderà con quegli occhi neri, e mi dirà che sono la sua piccola donnina coraggiosa. E io sarò felice. Così felice che il tempo sembra non passare mai.
«Mamma… ma a che ora arriva babbo?». La mamma sbuffa, me lo avrà detto mille volte che il treno, se in orario, arriverà alle 18 e 20 , quindi noi dovremo partire almeno un’ora e mezzo prima per andare a prenderlo alla stazione. È una sorpresa. La mamma ha anche risparmiato del denaro per poter pagare un taxi. E questa è la seconda sorpresa.

È arrivato il 23 dicembre. Sono le 14 e sono già in bagno a tentare di farmi le trecce da sola, le voglio alte e ordinate e con i nastri rossi come il cappotto che la mamma tiene da parte per la domenica e le grandi occasioni. Non vedo occasione migliore, ma le trecce sono un disastro totale.
«Vieni qui, pampuia, ci penso io». Le mani della mamma tremano un po’, e ha l’aria sognante. È felice. Io sono felice, i miei fratelli sono felici. I lunghi capelli sono domati, il vestito piegato sul letto, le scarpe tirate a lucido. Finalmente possiamo prepararci e aspettare il taxi che ci porti da lui. Fuori nevica, piccoli candidi fiocchi volteggiano. Sembrano festosi anche loro.
Sono 40 km, ma a me sembrano un viaggio lunghissimo ed eccitante. Poche volte mi è capitato di salire in macchina, dato che i miei non hanno nemmeno la patente, e mi affascina anche il rumore del motore. Arriviamo alla stazione in anticipo. Anche la stazione mi affascina, il viavai dei treni, le persone con le valigie, quelle che partono e quelle che tornano, l’odore di ferro. Se la mamma non mi tenesse stretta per mano, io mi sarei persa non so quante volte. Me la stringe così forte che mi fa quasi male. Però non dico nulla.
«Il treno numero… proveniente da Genova è in arrivo sul binario 4».
Mia madre sobbalza. Eccolo. È il treno che porta il mio babbo. Trema quasi mentre si comincia a vedere in lontananza la luce della locomotiva. Si avvicina lento, troppo lento, sembra non volersi fermare mai. Infine con uno stridere fastidioso arresta la sua corsa. Una dopo l’altra le porte dei vagoni si aprono e i passeggeri cominciano a riversarsi sulle banchine. Uomini, donne, bambini. Una marea umana che mi impedisce di vederlo. Anche i fratelli lo stanno cercando con lo sguardo tra la folla.
La prima a incrociare il suo sguardo sono proprio io, la piccolina. È sceso dal penultimo vagone e sta venendo verso di noi trascinando le valigie. Non indossa la divisa come mi aspettavo, ma un cappotto di loden verde e un cappello a tesa larga che non nasconde il suo sguardo ansioso. Mi vede. Si ferma. Lascia la valigia e mi corre incontro allargando le braccia. Mi libero fulminea dalla stretta di mia madre e volo verso di lui, incurante delle persone che mi sbarrano il passo, del freddo pungente sul viso, delle lacrime che mi scendono incontrollate. Volo… e lui mi accoglie e mi stringe forte forte, molto più forte di quanto avessi mai immaginato, e mi bacia le guancie rigate di lacrime.
Mi allontana un attimo, mi guarda: «Pampuia, come sei cresciuta! ». Lo sapevo che lo avrebbe detto! Poi mi fa scendere per abbracciare i miei fratelli, forte forte anche loro, e infine mia madre che è rimasta un passo indietro per lasciare il posto a noi. Nel loro abbraccio c’è un mondo d’amore, nelle loro lacrime c’è solo gioia…
«Quanto tempo…» dice mio padre. Quanto tempo.
Oggi non c’è spazio per la tristezza, che arriverà presto, con la prossima partenza. Oggi è festa per tutti noi.
Il tassista si premura di recuperare le valigie e ci avviamo verso casa. Non mi stanco di guardarlo, di ascoltarlo. Sono quasi soffocante lo so, ma capitemi. Sono solo una bambina. E lui parla, e parla, e racconta e ci chiede. Di noi. Che abbiamo fatto in tutti questi mesi, della scuola, degli amici. Ha fame di sapere, abbiamo fame di sapere.
Il cane comincia ad abbaiare ben prima che scendiamo dalla macchina, mia madre apre la porta e lui si lancia verso mio padre, lo lecca, abbaia, piagnucola, poi lo lecca ancora e ancora, e aspetta la caramella di menta che il babbo tiene sempre in tasca.

La casa è fredda, ma non importa. Mia mamma accende la stufa a legna, e stasera anche il camino. Ci sediamo tutti intorno al fuoco, consapevoli di una magia che difficilmente si ripeterà. Mi addormento con la testa sulle gambe di mio padre, che non smette di accarezzarmi i capelli e di dirmi: «Ti voglio bene pampuia».
Mi sveglio la mattina dopo nel mio letto e scendo di corsa a controllare che mio padre sia davvero qui e non sia una delle mie innumerevoli fantasie. Non faccio in tempo ad aprire la porta che mia madre mi fa segno col dito di fare piano che babbo dorme. Però gli facciamo un’altra bella sorpresa. Mettiamo in tavola un dolce buonissimo appena sfornato, mentre l’odore del caffè invade la cucina e ci sediamo vicine. È così bello vedere cinque tazze invece di quatto. È così rassicurante sapere che lui è qui con noi. Per stasera è tutto pronto. La mamma ha cucinato delle cose speciali che ci piacciono tanto e noi tre abbiamo apparecchiato senza nemmeno litigare.
Mangiamo, parliamo, giochiamo, ridiamo. E aspetto con ansia la mezzanotte per dargli il mio regalo. Ecco, ci siamo. Mi vergogno anche un po’, che lo so, non è un granché. Ma lui non la pensa così, perché sorride, e poi piange e poi mi abbraccia e sorride ancora.
Poi ci dice che non si è dimenticato di noi, fa l’occhiolino alla mamma che esce, e torna poco dopo con una grande busta dalla quale escono miracolosamente dei pacchetti.
Non ci credo! La bambola che cammina! Il mangiadischi e il giubbotto di pelle! Sono la piccola, la pampuia come mi chiamano loro, ma in quel momento credo di aver capito quanto ci amasse e quanto tenesse a noi. Poi, torno a essere bambina e mi perdo a giocare con la nuova bambola, sognando con lei e per lei avventure irrealizzabili. E anche mio padre e mia madre, forse approfittando della momentanea tregua nella richiesta di attenzioni, sembrano essere in un mondo tutto loro, un mondo che io non posso capire ma che questa sera sembra essere bellissimo.

Sono passati tanti anni, tantissimi. Una vita intera. Lui se n’è andato senza aver avuto tempo e modo di fermarsi, e quello è stato l’unico Natale che abbiamo passato insieme. L’unico Natale felice.
Ed è quello che stasera voglio ricordare mentre osservo i fiocchi di neve che si fanno sempre più fitti e stanno imbiancando la strada.
A lui sarebbe piaciuto vedere ancora la neve.

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Storia pubblicata su Confidenze 1/2018

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