La mostra Galbani, insieme da 140 anni, in scena a Corteleona in provincia di Pavia (trovate un bell’articolo su Confidenze in edicola adesso), racconta la storia dell’azienda. Responsabile, negli anni ’70, dello slogan tormentone «Galbani vuol dire fiducia», rinforzato da un efficace «La fiducia è una cosa seria».
Chi ha più o meno la mia età, a quei tempi era bambino. Perciò, come me, ripeteva le due frasi tipo una divertente filastrocca, ignorando del tutto quanto la seconda fosse carica di verità. E senza avere una minima idea dell’importanza nella vita di ogni individuo del sentimento declamato.
Quando si è piccoli (e fortunati, certo), le giornate trascorrono protette dall’indiscusso affetto dei genitori, tra i litigi senza strascichi con i fratelli e la sicurezza di essere avvolti in una specie di scudo affidabile al 100% contro qualsiasi insidia.
Crescendo, però, si impara che non sempre tutto ciò che ci circonda è degno di fiducia. Dalle cose materiali alle persone, infatti, possono essere tante le fonti di rotture di palle, delusioni e perfino di dolore che proprio non ti aspettavi.
Ovviamente, accettare che il motorino ti lasci in panne o che la lavatrice perda è facile. Più angosciante, invece, è constatare che non sono affidabili l’uomo di cui ti sei innamorata, l’amica di sempre, i colleghi con i quali pensavi di aver costruito un bel rapporto.
D’altronde, il mondo è un mix di gente eticamente onesta e di cialtroni. E se ognuno di noi può decidere da che parte stare, io ho optato per l’emisfero di coloro che cercano di non tradire mai nessuno.
Chi si loda s’imbroda, lo so. Ma con una buona dose di tracotanza mi permetto lo stesso di affermare che sono una persona estremamente limpida. Se dico una cosa faccio di tutto per tenerle fede. Se appartengo al vostro entourage sarò sempre al vostro fianco senza sotterfugi.
Un po’, per una questione di carattere. Molto di più perché considero la fiducia un bene tanto raro quanto inestimabile, ma alla portata di qualunque mano. Quindi, anche della mia. Tant’è che non fatico a comportarmi correttamente, anzi. Il pensiero che l’interlocutore di turno sia consapevole del fatto che da me non può aspettarsi del male mi riempie di gioia.
Della serie “chi si assomiglia si piglia”, va da sé che intorno abbia gente della mia stessa pasta. Il che rende al nostro ameno gruppetto la vita un po’ più semplice e serena. Così, quando vedo (o sento parlare di) atteggiamenti ambigui e mosse subdole, mi interrogo sulla loro origine.
Spesso sono generati da opportunismo, interessi, desiderio di supremazia, delirio di onnipotenza. Tutte motivazioni che, amplificate, portano alla guerra.
Detta così, mi rendo conto, sembra una banale frase da bar. Provo allora a spingervi oltre le parole per aiutarvi a seguirmi.
Avere ambizioni non è solo legittimo, ma anche doveroso. Per raggiungere i propri obiettivi, però, avrebbe senso stare alle regole come nei giochi da tavola, rispettosi dell’adagio “patti chiari, amicizia lunga”.
Sfidandosi a Risiko o a Monopoli, per esempio, chi vince per strategie azzeccata può lasciare il tabellone con la coscienza a posto. Ma, soprattutto, stringendo fiero la mano a un perdente pronto a complimentarsi trasudante di stima.
L’alternativa di muoversi da viscidi e barare, invece, magari conduce in scioltezza agli allori. Ma scatena nello sconfitto un senso di rivalsa che si trasformerà nell’ansia di vendetta. E, inevitabilmente, in un’escalation verso ostilità irrecuperabili.
Insomma, qualunque sia l’importanza di quel che facciamo (provare ad aggiudicarsi Parco della Vittoria, affrontare un colloquio professionale, pensare di condividere la propria vita con qualcuno) sarebbe bello avere la certezza che l’interessato sia una persona corretta, attendibile. Che ci si possa fidare di lui. Perché, come sostenevano alla Galbani già negli anni ’70, non ci sono dubbi: «La fiducia è una cosa seria».
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