Storia di Adelina F. raccolta da Roberta Giudetti
Il patè di fegato che preparava mia madre come antipasto per la vigilia di Natale era speciale. Aveva imparato a cucinarlo quando era a servizio presso una famiglia dove aveva lavorato per molti anni. Una ricetta che è passata di generazione in generazione. Anch’io l’ho sempre servito a Natale, finché c’è stato Luigi, mio marito, che lo adorava, non è mai mancato in mezzo alla nostra tavola imbandita per la grande festa. Una cupola di patè ricoperta da un sottile strato di gelatina, arricchita da spicchi di uovo sodo e fettine arrotolate di prosciutto cotto. Anche mia figlia ne andava matta. Circa sei etti di fegato di vitellone rosolato alla perfezione con cipolle bianche, sale quanto basta e alla fine un bel bicchiere di marsala secco e una spruzzata di cognac prima di spegnere. Poi serve tanta pazienza e olio di gomito, lo si deve passare nel tritacarne con cura, più volte, non frullare come fanno oggi con quegli arnesi tuttofare che cambiano i sapori, no, si deve andare di manovella. Gira e rigira. E amalgamare con un bel po’ di burro buono. Una delizia da spalmare sui crostini caldi. Lo sto preparando anche quest’anno, anche se so che mia figlia Anita, la mia unica figlia, non verrà. Non mi telefonerà nemmeno. Ma il bello del Natale è proprio questo: riaccende le speranze. A qualsiasi età.
Ho 82 anni. Sono sempre stata una moglie attenta, fedele, presente. Ho sempre goduto di buona salute, a parte qualche acciacco lieve. Invece gli ultimi anni di mio marito sono stati un continuo dentro e fuori dall’ospedale. Un tumore allo stomaco diagnosticato in tempo che però si è riformato dopo tre anni dal primo intervento, propagandosi ad altri organi. Luigi aveva tanta voglia di vivere e una gran paura di morire: gli ultimi mesi sono stati davvero dolorosi per tutti. Lui dipendeva completamente da me. La malattia lo aveva reso egoista, quasi cattivo. Da anni non muoveva un dito e si faceva servire dando ordini per qualsiasi cosa. «Passami il pane». «Luigi… è proprio lì accanto a te, basta che allunghi una mano, mi devo alzare io?». «Perché? Ti pesa tanto alzarti? Non sei mica malata tu».
E io mi alzavo, sentendomi quasi in colpa per essere in salute. Faceva così per qualsiasi cosa. Era la malattia a renderlo duro, lo sapevo. Non mi sono mai stancata di servirlo e riverirlo. Lo accompagnavo ovunque, non l’ho mai lasciato solo un minuto. Gli cucinavo piccoli pasti leggeri ma nutrienti, almeno cinque volte al giorno. Anche il suo ultimo Natale aveva richiesto il patè che tanto adorava e io ho pianto mentre lo preparavo perché sapevo che l’anno dopo, lui non sarebbe stato alla nostra tavola. Luigi se ne è andato lasciando un grande vuoto nella mia vita, in quella di sua figlia, dei suoi nipoti, in tutti noi.
Ma lo ammetto, ho ricominciato a vivere quando lui ha smesso di soffrire. Ho ricominciato a uscire, a respirare. A vedere qualche amica, ad andare al mercato. A fare lunghe camminate. Non mi sentivo sola, mi sentivo vuota. Ma avevo tutti i miei ricordi. I miei nipoti. Le rose del mio giardino. Dopo un anno ho ripreso in mano la mia bicicletta rosa e ho ricominciato a pedalare.
Quasi ogni mattina andavo al cimitero per sistemare i fiori sulla tomba di Luigi e ci andavo in bicicletta. È così che ho rivisto Piero, un vecchio amico di mio fratello. Ci siamo incontrati un giorno sulla ciclabile e abbiamo capito che andavamo tutti e due nella stessa direzione. È così che abbiamo iniziato a vederci io e lui. Una pedalata fino al cimitero, un’altra fino al mercato. Ogni giorno aumentava il tempo che trascorrevamo insieme. Passavamo ore a parlare, a ricordare i vecchi tempi e a ridere. Piero era vedovo da più anni di me e la sua casa vuota lo rendeva molto triste. I suoi figli, abitando lontano, lo venivano a trovare raramente. Per sentirsi più vicino ai nipoti, aveva iniziato a usare Internet e si era comprato un computer. Con orgoglio mi spiegava come aveva faticosamente imparato a destreggiarsi con la posta elettronica prima, e poi persino con Facebook. «Mi fa sentire meno solo», mi ripeteva con gli occhi pieni di lacrime. «Perché non provi anche tu?».
«Ma a che mi serve un computer? Io, mia figlia e i miei nipoti, li vedo ogni domenica a pranzo. Non sono brava con queste cose moderne».
È successo tutto con naturalezza. Mai avrei immaginato, alla mia età, che il cuore ricominciasse a battere per un uomo che non fosse mio marito. Mai avrei immaginato di poter condividere ancora una volta una cena, il divano, una semplice passeggiata, con un uomo. Con molta semplicità e spontaneità ci siamo avvicinati e abbiamo capito che stavamo bene insieme. E che il destino ci stava regalando una seconda occasione per invecchiare accanto a qualcuno. Quando la consapevolezza di voler vivere insieme è diventata certezza, abbiamo deciso di parlarne con le nostre famiglie. I suoi figli, erano lontani, non erano entusiasti, ma il fatto che non fossi una giovane ucraina e che fossi economicamente autonoma, li aveva tranquillizzati. Non hanno creato problemi. La doccia gelata è arrivata da Anita.
«No, no, no! Tu sei una povera vecchia pazza. Non ti permetterò di rimpiazzare così come se niente fosse mio padre e di infangare la sua memoria».
«Rimpiazzare? Infangare?».
Il suo sguardo era severo, quasi nauseato. Non le importava di me, della mia solitudine e ancora meno del fatto che mi fossi davvero affezionata a una brava persona. Non le importava che fossi stata una moglie fedele, devota, per lei ero una donna senza vergogna. Non avevo alcuna moralità, secondo lei. Mai nessuno mi aveva ferita così. Non mi sembrava di aver fatto niente di male, ma se mia figlia mi vedeva in quel modo, ero pronta a rinunciare a Piero. E così all’inizio è stato. Ho smesso di vederlo. Quanto mi sono mancate le nostre pedalate. Le nostre chiacchierate. I suoi sorrisi. La sua gentilezza. Anita continuava a tenermi il muso, però, e io sopportavo. Finché la mia amica Esther è venuta a mancare all’improvviso. Un infarto e via. E allora sono stata io a dire “no”. Quanti anni potevamo avere ancora io e Piero da vivere? Tre? Cinque? Dieci nei migliore dei casi.
Non ci siamo sposati, ma siamo andati a vivere insieme a casa mia. Mia figlia non mi parla più da dieci mesi. Mi fa male, molto male. Ma rinunciare a Piero non era giusto. I figli quasi sempre ci credono infallibili, perfetti, ma non lo siamo. Io non lo sono mai stata, ma non ho mai fatto niente di male a nessuno, meno che mai a lei, a suo padre, alla mia famiglia. Io e Piero ci teniamo tanta compagnia. Questo è il nostro primo Natale insieme. Abbiamo addobbato l’albero e disposto il presepe. Preparerò il mio famoso patè per la cena della Vigilia e se le mani non mi tradiranno anche i miei cappelletti in brodo. Ho invitato i miei nipoti e le loro fidanzate per il cenone e mi hanno promesso che faranno di tutto per convincere mia figlia a partecipare. So che lei non verrà, lo sento.
Ma il bello del Natale è proprio questo: fino all’ultimo minuto, fino a quando non aprirò la porta di casa, vivrò la vibrante speranza che Anita finalmente abbia capito. Fino ad allora, non smetterò di pregare.
Pubblicato su Confidenze 52/2014
Foto: Istock
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