Il dialetto, la lingua degli affetti

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I dialetti sono ancora una risorsa da tramandare?

Su Confidenze Maria Rita Parsi ci invita a riflettere sull’importanza di difendere i dialetti, come espressione delle nostre identità locali e delle tradizioni a esse collegate. La lingua italiana ha trasformato il nostro Paese in una Nazione con un unico e comune codice di espressione, dice Parsi, il dialetto invece rappresenta l’inconscio antico.

Siamo nel pieno dei festeggiamenti per i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, l’autore che, con il suo romanzo I Promessi Sposi, ha contribuito a creare una lingua unica, la lingua italiana appunto, facilmente comprensibile da tutti e non solo da chi aveva una certa formazione culturale.

La sua lezione ci ha consentito di avere un collante linguistico che funziona da Bolzano a Lampedusa, ma siccome l’Italia è il paese dei mille campanili i dialetti hanno resistito nei secoli finché non è arrivato il massiccio fenomeno dell’urbanizzazione.

Con lo spopolamento delle campagne e il trasferimento delle persone nei centri urbani il legame con la lingua natia della propria terra si è indebolito ed è stato per lo più affidato alla memoria dei vecchi che nelle famiglie hanno avuto spesso il ruolo di custodi e testimoni dell’identità linguistica locale.

Se penso alla mia famiglia, mio nonno, che per quarant’anni è stato direttore di una scuola a Milano, quando tornava in vacanza nel piccolo Paese natio del Piemonte, appena scendeva dal treno tornava a parlare in dialetto e mentre con noi nipoti parlava in italiano, con le persone del Paese comunicava solo nella lingua natia.

Io che allora ero piccola e non capivo una parola di quell’impasto dalla cadenza un po’ francese ho però interiorizzato certe espressioni che ancora oggi per me sono una sorta di bagaglio affettivo, una lingua degli affetti: masnà (che in piemontese significa bambini), anduma, (andiamo) o un classico ancora oggi molto in voga come fuma c’anduma (facciamo che andiamo) .

Negli anni del liceo poi la nostra professoressa di latino e greco, quando perdeva la pazienza o si arrabbiava era facile che se ne uscisse con espressioni e vecchi detti milanesi e noi di colpo diventavamo i ” tusan” tipica espressione milanese per dire ragazzi.

Questo per dire che i dialetti sono davvero espressione del nostro inconscio più profondo, del legame forte con le nostre origini e anche della nostra spontaneità. Oggi difenderli sembra un’impresa eroica, ma forse anche per questo è necessario farlo.

Difficile pensare di conservare il legame con il milanese in una metropoli dove si sentono parlare un’infinità di idiomi, molti dei quali appartengono a Paesi diversi dal nostro, a Continenti diversi dal nostro.

Ultimamente c’è stata una polemica in difesa della lingua italiana contro un uso eccessivo di inglesismi ed espressioni straniere. È una polemica sterile, a mio avviso,  perché oggi agli idiomi locali e nazionali si è aggiunto un terzo piano linguistico, che è la lingua della globalizzazione, ovvero l’inglese, reso ancora più indispensabile dal fatto che l’inglese è anche la lingua dell’era digitale. Ma ciò non toglie che ciascuno di noi possa conservare un legame con le proprie origini e il dialetto locale, che rappresenta anzi un tesoro prezioso da difendere, che nessuna Intelligenza Artificiale per ora è ancora in grado di intercettare.

Io a casa mia ho due tradizioni: una è il Calendario El Milanes che compro tutti gli anni: i giorni della settimana sono scritti in dialetto e lo scandire dei mesi (rigorosamente scritti in milanese) è accompagnato da detti e tradizioni lombarde. L’altro è un preziosissimo manuale di Cucina Milanese (La cusina de Milan) che acquistai ormai 30 anni fa: ha le ricette scritte in italiano e milanese e sfogliarlo equivale ad entrare in quelle vecchie trattorie della Milano di una volta dove si viene avvolti da un buon profumo di risotto e verze.        

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