Il mio abito del sì

Mondo
Ascolta la storia

Grazie a una delle spose più famose del mondo, per dire «Sì» ho scelto un abito molto ma molto diverso da quello che sognavo da bambina

L’articolo Ti passo il mio abito del sì, su Confidenze in edicola adesso, racconta una delle ultime tendenze in fatto di matrimoni: condividere il vestito più importante nella vita di ogni donna, offrendolo ad altre spose attraverso realtà che si occupano, appunto, di raccogliere i capi usati per rimetterli in circolo.

L’iniziativa, a mio avviso, è assolutamente geniale. Detto questo, sono sicura che se mettessi sul mercato il mio, non ci sarebbe nessuna “signorina” prossima a diventare “signora” decisa a strapparsi i capelli pur di aggiudicarselo. E vi spiego il perché.

Come tutte le bambine, quando fantasticavo di salire all’altare mi vedevo avvolta in un modello da sogno. Sfarzoso. Voluminoso. Ovviamente di un bianco accecante. Completato da un velo che non finiva più.

A farmi cambiare idea, udite, udite, è stato il matrimonio di Carlo e Diana. Infatti, quando (alla tivù, dato che non ero nell’elenco degli invitati) quel mercoledì 29 luglio 1981 ho visto Lady D. scendere dalla carrozza, mi sono sentita male per lei.

Goffa, goffissima, più che una sposa sembrava una meringa. Non me ne vogliano gli stilisti David ed Elizabeth Emanuel, ma ogni scioltezza nei movimenti era preclusa dalla quantità di tessuto con cui si sarebbero potuti vestire tutti gli ospiti. I volants sullo scollo e i polsi appesantivano un modello già carico come un animale da soma. E l’assurdo strascico di sette metri e mezzo era la ciliegina sul festival della più chiassosa e copiosa opulenza.

Se a tutto questo aggiungiamo che il costo dell’outfit si aggirava intorno ai 150.000 dollari, ecco spiegato il motivo per cui mentre la principessa di Galles entrava nella cattedrale di Saint Paul io giuravo: «Se mai mi sposerò, punterò sull’understatement». E così è stato.

Infatti, quando è arrivato il mio turno di dire «Sì» ho scelto un vestito ben diverso da quello che immaginavo da piccola.

Intanto, di bianco aveva solo lo sfondo. Per il resto, era tempestato di fiori, a metà polpaccio e scollato in orizzontale. Insomma, un po’ da contadinella agghindata per la festa campestre che (in effetti) avevamo organizzato. Quindi, adatto per ballare fino a tarda notte senza il rischio di inciampare. Cadere rovinosamente. E non riuscire più ad alzarmi da terra, impedita dagli ingombranti strati di taffetà.

Alla semplicità dell’abito, hanno corrisposto gli accessori (orecchini, filo di perle, un paio di ballerine rasoterra e basta). La totale assenza di makeup. E la banalissima treccia, impreziosita solo da qualche fiorellino preso dal bouquet.

D’altronde, il mio terrore era cadere nella trappola tipica di chi sta per maritarsi: lasciarsi trascinare dall’entusiasmo, perdere la trebisonda ed eccedere. Così, ho deciso che anche nel giorno in cui stava cambiando la mia vita sarei rimasta me stessa.

Da lì, la scelta di evitare un maquillage stile Moira Orfei, visto che truccarmi non è mai stato nelle mie abitudini. E quella di raccogliere i capelli come sempre, anche perché li ho talmente fini che qualsiasi acconciatura costruita sarebbe crollata prima ancora di infilare la fede nuziale.

Parlare di soldi, lo so, è volgare. Ma ci tengo lo stesso a dire che anche il costo della mise era linea con il buon senso. Le ballerine sono state prese in un negozietto qualsiasi. E il vestito acquistato clamorosamente in saldo, in una boutique individuata passeggiando per le vie di Milano. Che ho battuto in lungo e in largo a caccia del modello giusto per me. Ma con la ferma intenzione di non trasformarmi in Diana Due la Vendetta.

Obiettivo raggiunto. Tant’è che ancora oggi sono orgogliosa del look sfoggiato. Ciò non toglie che se venissi a sapere di una sconosciuta interessata al mio abito del sì mi stupirei molto. Al punto che le consiglierei certamente di prenderlo, però per un’altra occasione. Per esempio, il matrimonio all’aria aperta di una sua amica!

Confidenze