Sono il frutto di una relazione extraconiugale e mia mamma ha sempre sfogato su di me la sua rabbia per l’uomo che le aveva tolto tutto, la giovinezza, i sogni, il futuro. È stata dura crescere con lei, ma oggi l’ho perdonata. E sono una donna felice
Storia vera di Monica D. Raccolta da Barbara Businaro
«Tu sei stata solo un incidente. Non eri prevista. Non ti stavo cercando. Sei arrivata, purtroppo». Mi diceva così mia madre e io avevo solo sei anni. Non capivo allora cosa significassero quelle parole. Mi colpiva però lo sguardo atterrito di mia nonna Rosalia, che mi afferrava tra le braccia e mi portava nell’altra stanza a giocare, prima che potessi ascoltare altre cattiverie. Ero il frutto proibito di una relazione clandestina, scoperta proprio con la mia nascita.
Portavo il cognome di mia madre perché mio padre non mi aveva legalmente riconosciuta, non aveva voluto, anche se frequentava la nostra casa con regolarità. Abitavamo in periferia, in un appartamento in affitto nello stesso edificio dove si trovava quello dei miei nonni. Un pianerottolo più sotto viveva infatti nonna Rosalia e io passavo la maggior parte del mio tempo lì, da quando nonno Armando se ne era andato in cielo a cantare con gli angeli.
Qualche volta veniva a trovarci pure zia Antonietta, la sorella minore di mia madre, che non aveva potuto avere figli e le brillavano gli occhi quando l’abbracciavo stretta. Restava qualche giorno, dormiva nella sua stanza di ragazza, e mi coccolava per tutto il tempo. Spesso mi sono ritrovata a pensare di essere nata dalla sorella sbagliata.
Mio padre invece veniva a trovarci nel fine settimana, talvolta restava a dormire nella camera matrimoniale di mia madre, come in una famiglia normale. Lei era però la sua amante, una relazione quasi alla luce del sole. Tutti ne erano a conoscenza nel quartiere, anche la mia maestra che in classe non sapeva se usare per me il termine “papà” ed evitava accuratamente l’argomento. Lui mi guardava con diffidenza, forse non era del tutto convinto che fossi sua figlia, non mi ha mai trattato come tale. Lo chiamavo con il suo nome di battesimo, un amico della mamma e niente di più. Solo in un’occasione si è permesso di sgridarmi come un vero genitore, ma non era per il mio bene, solamente per il suo orgoglio.
La domenica sera tornava a casa sua, dove lo attendevano una moglie e due figlie già grandicelle.
Mia madre, 20 anni più giovane di lui, lo aveva incontrato grazie al suo lavoro, era una segretaria molto brava, una dattilografa veloce e di bella presenza. Mio padre era un industriale molto conosciuto in città e collaborava con la fabbrica dove lei era stata appena assunta. Un amore travolgente o forse un ottimo affare per entrambi, almeno all’inizio.
Ricordo in particolare un Natale della mia tumultuosa infanzia. Indossavo un bellissimo vestitino rosso con i volant sulla gonna, mi guardavo allo specchio e mi piacevano tanto quelle balze da principessa, ero più bella della mia bambola preferita.
Ma lei arrivò da dietro, mi osservò con occhio critico e disse solamente: «Non hai proprio preso nulla da me. Pure con un capo così chic sembri sempre una sciattona».
Corsi giù per le scale da nonna Rosalia, piangendo calde lacrime. Lei mi consolava come poteva. «La mamma è tanto arrabbiata, ma non con te, bimba mia. Devi portare pazienza. Non è un buon periodo per lei». Qualche giorno dopo giunse zia Antonella con i regali per tutti. A me aveva riservato una bambolina nuova, la mia prima Barbie, proprio come quella che avevo visto in televisione, con i capelli biondi lunghi lunghi da pettinare. Ero entusiasta, sprizzavo felicità. Cercavo di tenerla sempre con me, temevo che qualcuno me la rovinasse. Infatti la ritrovai un mattino decapitata e la testa con la chioma tagliata. Mia madre non disse nulla, in cuor mio sapevo però che era stata lei. Ci fu una lite furibonda con nonna Rosalia, si chiusero in cucina mentre io stavo davanti alla televisione del salottino, sentivo solo qualche parola e del resto preferivo non ascoltare. Il risultato di quella discussione fu trovare sul mio lettino al risveglio una scatola con una bambola nuova, lo stesso modello.
Nonna mi raccontò che l’aveva acquistata mia madre, ma non sono mai riuscita a crederle, una bugia a fin di bene. Mia madre sfogava su di me la frustrazione nei confronti di quell’uomo, mio padre, che le aveva promesso tanto ma alla fine le aveva tolto tutto, la giovinezza, i sogni e il futuro.
La parte peggiore fu quando scoprì di essere stata ingannata. Sistemando della documentazione in archivio al lavoro, risultò che l’azienda di mio padre era in realtà di proprietà della moglie, eredità della famiglia di lei. Lui non aveva quindi alcun interesse a lasciarla per venire a vivere con mia madre, senza quella moglie lui non valeva proprio niente. Scoppiò il putiferio. Ho ben impresso l’ultimo terribile weekend di mio padre a casa nostra. Se ne andò urlando e sbattendo la porta, non l’ho più rivisto. Lei si girò verso di me, con un odio profondo negli occhi. «Dovevi essere un maschio, accidenti!». Mi afferrò per un braccio, io ero seduta sul tappeto della mia cameretta a giocare, e mi sbatté fuori dall’appartamento. Scesi le scale attonita e suonai al campanello di nonna Rosalia.
Non mi chiese nulla, la mia faccia doveva essere un lenzuolo di paura. Da quel giorno il mio lettino fu quello di zia Antonietta da ragazza, e piano piano le mie cose vennero portate in quella stanza. Mia madre non mi voleva più vedere.
Eravamo solo io e nonna Rosalia, ma se ci ripenso è stato il periodo migliore della mia infanzia. Nonno Armando se n’era andato due anni prima ormai, un infarto l’aveva portato via nel sonno. Forse è stato meglio così, si è risparmiato parecchi dispiaceri. Mi sentivo più serena e tranquilla, tra quelle mura c’erano quiete, profumo di biscotti, sorrisi dolci e qualche sana risata. Anche la mia situazione scolastica migliorò, la maestra lo fece presente a mia madre durante un colloquio, credendo di darle merito del cambiamento, invece di sottolineare le sue colpe.
Mia madre non dava segno di preoccuparsene comunque. Veniva qualche volta a mangiare da noi e mi trattava da estranea, come se fossi una conoscente, al più una sorellina più piccola, mai come una figlia. Mi stava bene così, perché quanto meno non c’erano rabbia e rancore nei suoi modi. Da quello che raccontava, aveva delle nuove frequentazioni e aveva riposto lì le sue energie e le sue speranze.
Terminata la scuola dell’obbligo, decisi di seguire la mia preferenza per le lingue straniere, passione che avevo ereditato dai libri e dai diari di viaggio di nonno Armando. Non c’erano istituti con questo indirizzo nella nostra zona, fui costretta a spostarmi verso Roma, andando a vivere da zia Antonietta e da suo marito Pietro.
Mi accolsero con entusiasmo, rimasi per tutta la durata della scuola superiore e oltre, finché non mi resi autonoma e indipendente con il primo impiego pagato. In estate tornavo da nonna Rosalia e trascorrevo lì la lunga pausa scolastica.
Mi capitava anche di vedere mia madre, incontri piuttosto sterili, qualche battuta cattiva distribuita qua e là, in mezzo a frasi innocenti. Dipendeva molto dal suo umore e dall’andamento della relazione con un avvocato della capitale, tale Rinaldo, un buon nome e uno studio ben avviato, un’ottima posizione, soprattutto ancora scapolo. Si muoveva tra il suo vecchio appartamento e la villetta di lui sui colli romani. Sembrava aver trovato finalmente l’amore giusto per lei. Nei rari momenti in cui, per ragioni sconosciute, si sentiva presa dal rimorso nei miei confronti diventava affabile, gentile e premurosa, un’altra persona. La madre che avrei voluto avere per me fin dall’inizio.
Mio padre invece era proprio scomparso completamente dalla mia vita. Mi era rimasta solo qualche sua foto di quand’ero davvero piccola e mi teneva in braccio, giusto per lo scatto, senza sorriso. Lo ritrovai nelle cronache locali, era rimasto invischiato in uno scandalo politico, pagamenti illeciti e frode fiscale, e la moglie, per salvare la proprietà, lo aveva estromesso dalla direzione dell’azienda.
Al termine del mio secondo anno di scuola superiore, ci giunse l’invito per le nozze di mia madre. Alla cerimonia era raggiante, soddisfatta e felice. Venni presentata solo allora al nuovo marito Rinaldo come la sua prima figlia, senza ulteriori aggiunte. Non so cosa lei gli avesse raccontato della mia nascita e dei suoi trascorsi. Fu una festa alquanto sfarzosa, noi parenti della sposa non ci sentivamo propriamente a nostro agio, al contrario di lei che sembrava nel suo elemento naturale. Nonna Rosalia si attendeva che mia madre mi richiamasse a vivere con sé, nella nuova casa con il marito, ma non se ne parlò mai. Avrei comunque rifiutato, non mi sentivo parte di quella famiglia, ero piuttosto scettica su un suo repentino cambio nei miei confronti, e preferivo la sicurezza dell’affetto sincero di zia Antonietta. Arrivò anche l’annuncio della nascita del secondo figlio, finalmente un maschio, nato un po’ prematuro, il mio fratellastro, anche se non mi piace questo nomignolo. Nonostante il carattere di mia madre e 15 anni di differenza, io e Matteo siamo stati da subito in ottimi rapporti, ci siamo piaciuti a pelle.
Quando in ospedale me l’hanno dato in braccio, così piccolo e indifeso, mi ha sorriso e mi ha afferrato il dito tra le sue manine minuscole. Speravo che questo nuovo equilibrio familiare avrebbe un po’ addolcito il carattere di mia madre, invece diventò opprimente nei confronti di mio fratello, non lo lasciava mai tranquillo, nemmeno quando era al sicuro dentro il suo box a giocare felice. Crescendo, Matteo cercava di scappare al suo controllo in tutti i modi, saltando anche la scuola, e spesso si rifugiava proprio da me. Nel frattempo avevo lasciato la casa di zia Antonietta e mi ero trasferita in un monolocale per i fatti miei, anche se passavo molte più sere a cena a casa con gli zii, che addirittura passavano di nascosto a riempirmi il frigorifero nei mesi più intensi di lavoro o quando Matteo aveva esaurito le mie scorte.
Mia madre così trovò un ulteriore motivo per odiarmi, perché lui preferiva la mia compagnia alla sua, soprattutto durante le festività quando lei diventava ancora più assillante. La rabbia nei miei confronti non era cessata e non mi invitò mai nella nuova casa, nonostante Matteo le avesse chiesto di passare un Natale tutti insieme. Nemmeno al funerale di nonna Rosalia si è vista, con la scusa di essere devastata dalla perdita. All’apertura del testamento sì invece, su quello ci aveva fatto qualche calcolo. Quando ci incrociammo nella segreteria dello studio notarile, mi squadrò con aria sprezzante.
«Sei ingrassata. Pure i capelli crespi, non sai usare il balsamo?».
Mentre seguivamo l’impiegata lungo il corridoio si fece udire anche da lei. «Guarda come cammini, hai sempre avuto le gambe storte, come tuo padre. Io non mi muovo certo a quel modo».
Mi morsi la lingua per non girarmi e tirarle uno schiaffo in pieno viso. Le ultime volontà di nonna Rosalia diedero voce ai miei pensieri: aveva lasciato l’appartamento in città a me, così potevo continuare a vivere tra i suoi ricordi, il suo maggior valore. A mia madre giusto qualche terreno in collina, dove andava il nonno in estate, tra i suoi ulivi e le sue viti.
Niente di più della quota di legittima, che lei ha subito messo in vendita per incassare altro denaro, nonostante il marito Rinaldo non le facesse mancare proprio nulla: una bella villetta, con un giardino curato e una piscina di design, un’auto di media cilindrata tutta per sé, che cambiava ogni quattro anni, una domestica al suo servizio, un conto aperto in un centro estetico di lusso, oltre che in diversi negozi di abbigliamento. Da quando era sposata poi non lavorava proprio più, il suo compito era occuparsi delle relazioni sociali del marito avvocato. Ma forse voleva sbarazzarsi di ogni traccia della sua vita precedente.
La scomparsa di nonna Rosalia aprì invece un varco buio sulla mia esistenza. Non mi sentivo più le spalle coperte, sebbene ci fosse ancora zia Antonietta a proteggermi. In qualche modo mi ritrovai a dover affrontare il futuro da sola, con troppe ferite sanguinanti nel passato. Non riuscivo nemmeno a innamorarmi, avevo paura di incrociare un altro uomo disonesto quanto mio padre e di credere alle mie stesse illusioni. Decisi quindi con coraggio di farmi aiutare in un percorso di psicoterapia.
È stata un’esperienza lunga e dolorosa, durata oltre due anni. Sono stata fortunata a trovare le persone giuste che mi hanno accolto e ascoltato, senza giudicare. Da ogni seduta uscivo spossata, senza forze nel fisico e nell’anima. Solo dopo qualche ora mi sentivo più leggera perché avevo compreso tutte le bugie e gli inganni di cui ero vittima.
Non era colpa mia, non ero così brutta, non meritavo quelle male parole, ero degna di essere amata. Doveva però dirmelo un estraneo perché lo capissi davvero. Riuscii persino a perdonare mia madre per il suo comportamento così poco amorevole. Non ha mai smesso di essere lei, ma sono cambiata io, ho raggiunto una maggior consapevolezza.
Finalmente ho incontrato l’amore della mia vita, Lorenzo, e insieme stiamo realizzando i nostri sogni, compresi tre bambini dolcemente chiassosi, un Labrador disordinato, due gatti furbetti e un criceto molto vivace.
Mia madre li ha conosciuti, è sempre la benvenuta in casa nostra, ma non ha avuto tempo per alcuna obiezione, è stata travolta, e un po’ contagiata, dal loro entusiasmo senza riserve.
Il più grandicello ha subito scoperto la sua debolezza: alla nonna piacciono molto i complimenti, la fanno sciogliere senza che se ne accorga, ammorbidiscono le sue spigolosità. Così lui le corre incontro dicendole che è bellissima, che gli piace il suo vestito, come pure i capelli e la collana che indossa.
Gli altri due più piccoli lo seguono in questa dimostrazione di affetto, ma più per imitazione, come fosse un gioco. Ci ho provato anch’io, lo ammetto, ma con me non funziona, loro invece sono tre adorabili delinquenti e li lascio fare.
Voglio che abbiano un buon rapporto con la loro nonna. In fondo, il passato non si cancella, ce lo portiamo sempre un po’ addosso. Ma il futuro è tutto da scrivere ed è solo nostro.●
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