Eravamo usciti tutti insieme dal locale, mentre la bruna teneva banco con i miei amici io mi ero affiancato all’altra. Si chiamava Grazia, stava per laurearsi e abitava con alcune amiche.
Dalle sue risposte era chiaro che per studiare aveva trascurato le compagnie maschili, e che in passato le sue esperienze erano state piuttosto limitate. In un attimo avevo deciso che toccava a me farle capire cosa significava stare con un vero uomo.
Ero consapevole che non sarebbe stato facile raggiungere il mio scopo, ma a 27 anni suonati sapevo come muovermi.
Al primo appuntamento avevo finto di interessarmi al filmetto sentimentale che l’avevo portata a vedere, e mentre più tardi mangiavamo una pizza avevo sfoggiato il repertorio del bravo ragazzo un po’ schivo, che con quelle come lei funziona sempre. Ovviamente niente baci prima di salutarla davanti al suo portone, solo un abbraccio affettuoso. Al secondo appuntamento avevamo fatto una gita in campagna, e mentre le raccontavo balle su quanto amassi passeggiare nella natura, Grazia aspettava solo di essere baciata. In seguito ce ne erano stati altri di baci, e quando l’avevo invitata nel mio appartamento da single lei era, come si dice, cotta a puntino.
La mattina dopo si era svegliata accanto a me, spettinata, confusa e felice. Mentre beveva il caffè, faceva progetti su noi due, sui viaggi che avremmo potuto fare insieme. E programmi che mi coinvolgevano aveva continuato a farli anche nei giorni seguenti.
Era il momento di frenare. Con la dovuta gravità le avevo detto che alla ditta di informatica per cui lavoravo stavamo attraversando un momento difficile, che dovevo concentrarmi sul lavoro e che avrei avuto poco tempo da dedicarle. Le avrei telefonato io, avevo assicurato.
Naturalmente non l’avevo più chiamata, l’avevo bloccata sui social e mi guardavo bene dal rispondere alle sue telefonate.
Per fortuna dopo qualche tempo aveva smesso di cercarmi.
Ovviamente quella del “momento difficile in ufficio” era solo una balla: all’ultimo momento avevo soffiato a un collega un cliente importante che intendeva riorganizzare l’intero sistema informatico della sua azienda, e per me tutto filava alla grande. Il mio collega mi aveva accusato di averlo scavalcato, ma che m’importava delle sue noiose recriminazioni?
I mesi trascorrevano veloci. Un giovedì sera, dopo la solita partita di calcetto, il mio amico Claudio ci aveva presentato Flavia, la sua ragazza, che era passata a prenderlo al campetto. Erano settimane che Claudio ci affliggeva con discorsi su di lei, ma le foto che ci aveva mostrato non le rendevano giustizia. Portava un abitino aderente che metteva in mostra le sue curve e io non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Claudio era troppo istupidito all’amore per accorgersi degli sguardi che scambiavo con la sua ragazza. Prima di salutarci ero riuscito a farmi dare il suo numero di telefono e quando il giorno dopo l’avevo chiamata per invitarla fuori, lei non si era tirata indietro.
Con Flavia non era stato necessario imbastire la commedia che avevo messo su per Grazia, era un altro tipo. Dopo una cenetta al ristorante non si era fatta pregare per salire da me. Tra noi era andata avanti per qualche mese e tutto sarebbe filato liscio se un giorno Claudio non si fosse trovato tra le mani il cellulare della sua ragazza. Lo ammetto, mandarle quel messaggio così esplicito era stato imprudente da parte mia, ma come potevo immaginare che sarebbe finito sotto gli occhi del mio compagno di calcetto?
Naturalmente Claudio se l’era presa; mi aveva insultato e aveva piantato la sua ragazza. Per evitarmi, aveva persino lasciato il gruppo del calcetto.
Purtroppo, una volta tornata single, Flavia si era messa in testa che noi due potevamo, per dirla con le sue parole, “avere un futuro insieme”. Solo a sentirla, quella frase mi dava l’orticaria. Così ero stato costretto a troncare subito. Per un po’ mi ero sorbito i suoi insulti sui social, poi per fortuna si era stancata.
Un sabato stavo andando al mare per raggiungere i ragazzi del calcetto che volevano farsi una mangiata di pesce. Nonostante il navigatore, dovevo avere imboccato una deviazione sbagliata perché ero finito in una stradina di campagna.
D’accordo, correvo troppo, ma se non fosse stato per quella buca non avrei sbandato perdendo il controllo dell’auto. Era bastato un attimo… poi tutto si era fatto buio.
Quando avevo ripreso conoscenza ero riverso sul sedile dell’auto, il braccio mi faceva un male cane e il cellulare chissà dov’era. Dovevo essere finito in una specie di scarpata, dai finestrini intravedevo soltanto rovi e sassi e non riuscivo a muovermi. Stava scendendo la notte e mi sentivo sempre più debole. Mi stava anche salendo una brutta sensazione di ansia. Quella era una zona isolata, se mi avessero ritrovato troppo tardi? Io ero quello vincente, quello che se la cavava sempre, possibile che il mio destino fosse di andarmene così, da solo, in fondo a un fosso? Avevo freddo e nessun ricordo riusciva a trasmettermi sollievo o un po’ di calore.
Che mi aspettavo, in fondo?
La mia vita fino a quel momento non era stata altro che un prendere e fuggire. Nel silenzio mi erano tornate in mente le parole di Claudio, il mio vecchio compagno di calcetto: «Tu, Manuel, non sai che cosa sia l’amicizia» mi aveva accusato. Aveva ragione. Quando mai mi ero davvero interessato a qualcuno?
Le donne le avevo soltanto usate: non mi ero mai preoccupato di conoscerle veramente. E che cosa mi restava, adesso? Solo un senso di vuoto insopportabile. Prima di perdere nuovamente i sensi mi ero accorto che stavo piangendo.
La prima cosa che vedo, riaprendo gli occhi, è la parete bianca della stanza d’ospedale. Sembra che siano stati dei contadini a trovarmi; il medico spiega che ho un braccio rotto, varie lesioni ma che me la caverò.
Le giornate trascorrono in fretta, tra qualche giorno mi dimetteranno.
Per ingannare la noia passeggio nei corridoi dell’ospedale quando incrocio una giovane dottoressa in camice bianco. La riconosco, è Grazia, la ragazza timida del pub che avevo piantato dopo una notte insieme. È ancora più bella di come la ricordavo. Non sapevo che studiasse Medicina.
«Non credo che questo sia il suo reparto» mi dice gentile. Poi mi riconosce «Manuel, che cosa ti è successo?» domanda.
Quando le parlo dell’incidente rimane ad ascoltarmi per una sorta di dovere professionale, poi si congeda freddamente. Neppure un insulto mi avrebbe riempito di vergogna come l’occhiata carica di disprezzo che mi lancia prima di allontanarsi.
Umiliato rimango a guardarla mentre cammina rapida nel corridoio. Vorrei chiamarla e scusarmi, ma che senso avrebbe?
Capisco che l’unico modo per rimediare ai tanti errori del passato è cambiare. Posso farlo subito, con pazienza, cominciando dalle piccole cose: raccolgo un paio di occhiali persi da un anziano degente seduto vicino alla finestra. «Credo siano suoi» gli dico con un sorriso.
Un buon inizio, credo.●
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Storia pubblicata su Confidenze 48/2023
Foto: 123 RF
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