di Tiziana Pasetti
Trama – Lucy la conosciamo bene, ormai. La ritroviamo stanca e infelice dopo la morte di suo marito David: proprio per questo ha deciso di annullare il tour mondiale di presentazione del suo ultimo libro. Proprio mentre implode in un’assenza di motivazioni arriva la telefonata di William, il suo ex marito. Fai le valigie, le dice. Veloce, andiamo nel Maine per un po’, le spiega. Lucy non capisce. Sta per accadere qualcosa di grave, William è uno scienziato, sa di cosa parla. Marzo 2020, New York. L’Italia era già in lockdown ma solo una notizia trascurabile, oltreoceano. Lucy si fida, avverte le loro due figlie, e parte. Un paio di settimane, pensa. Sarà un tempo più lungo, inaspettato, inimmaginabile anche per uno scrittore, una distopia incarnata in una realtà che deve allontanarsi da se stessa e trattenere il respiro, trattenere gli abbracci, trattenere i baci, trattenere i progetti, trattenere la libertà. Lucy trattiene la scrittura e come per magia torna a scrivere, in un tempo fermo, la sua vita. Si fermano le parole inchiostrate o digitate, si riaffermano quelle che raccontano in presa diretta l’esistenza di ognuno. «Dico solo una cosa: che roba pazzesca, il mondo!».
Un assaggio – William e io guardavamo in tv New York esplodere in un’improvvisa atmosfera spettrale che io faticavo quasi a comprendere. Ogni sera William e io seguivamo New York arrivare a noi sotto forma di scene orribili, immagini su immagini di gente trasportata in pronto soccorso, attaccata ai respiratori, personale sanitario sprovvisto di mascherine e guanti adeguati e gente che continuava a morire, a morire. Ambulanze che sfrecciavano per le strade. Strade che io conoscevo, quel punto era casa mia! Lo guardavo, e ci credevo, nel senso che sapevo che stava succedendo, ma descrivere che cosa mi passava per la mente non è facile. Era come se ci fosse una distanza tra me e la televisione. Ed è così, ovviamente. Ma sembrava che il mio cervello avesse fatto un passo indietro e osservasse tutto da una vera e propria distanza, benché io registrassi già l’orrore. Ancora adesso che sono passati tanti mesi, ho il ricordo di aver guardato in tv un’immagine giallo chiaro, forse erano le infermiere in tenuta da lavoro, o forse persone avvolte in una coperta durante il trasporto in ospedale, ma nella mia mente è rimasto questo strano ricordo giallino collegato a me che guardavo la televisione quelle sere. Avevamo (avevo) sviluppato una dipendenza – a me pareva – dal telegiornale della sera.
Leggerlo perché – Chiunque scriva sa cosa questo voglia dire, come si scriva in ogni istante della propria vita: si guarda alle cose, alle relazioni, agli avvenimenti in modo artigiano, si guarda e si traduce e si riporta su carta a volte, sulla pelle sempre. Elizabeth Strout (che abbiamo la fortuna di leggere direttamente nella sua lingua e poi meravigliosamente tradotta da Susanna Basso) con Lucy ci mostra ogni volta come funziona la mente di uno scrittore, la sua distanza abissale dalla vita, come se due elementi diversi, o due universi, tentassero di avvicinarsi sapendo che non si può non fallire ma cercando comunque una strada, un codice, una comprensione. Ogni scrittore vive in perenne lockdown, una pandemia costante che lo abita. E ogni nostro ricordo, ogni elemento che influisce sulle difficoltà di inserimento nella e nelle società, è generatore di lockdown, distanziamenti: l’infanzia solitaria, per esempio. Gli amori perduti, per esempio. Una pagina perfetta, per esempio, bianca, che a catturare l’attenzione torna la vita, un “certo” presente.
Elizabeth Strout, Lucy davanti al mare, Einaudi
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