Qui niente si butta è un articolo su Confidenze in edicola adesso che racconta l’intelligente iniziativa di un’associazione calabra: creare l’opportunità di scambiare con altri o di regalare a chi ne ha bisogno oggetti e capi di vestiario che non si usano più.
I dettagli ve li lascio scoprire sul giornale. Nel frattempo, vi dirò che Qui niente si butta è una regola che vige anche a casa mia. Da sempre.
Sin da piccola sono stata cresciuta con l’idea che lo spreco non è solo un peccato, ma una vera idiozia e un segnale di ignoranza. A partire da quello alimentare che, purtroppo, è molto frequente.
A dirlo sono i dati: l’Osservatorio Waste Watcher International rivela che in Italia nel 2023 ogni giorno sono stati buttati via 75 grammi di cibo a testa. E nel 2024, anche se siamo solo ad aprile, la cifra è già salita a 81.
Leggendo questi numeri ho provato l’orgoglio di non far parte della gente che getta gli avanzi in pattumiera. Dopodiché, mi sono chiesta come mai in molte famiglie non esista più la buona abitudine di finire tutto quello che c’è nel piatto prima di alzarsi da tavola.
Da noi era fuori discussione: che ci piacessero o meno, ingurgitare il grasso del prosciutto o della carne, spazzolare la verdura (comprese le orribili barbabietole che la mamma ci proponeva perché «fanno bene»), cancellare ogni traccia di sughi e intingoli che avevamo sotto gli occhi era categorico.
E quando facevamo fatica, gli sforzi erano accompagnati dall’implacabile ritmo della frase tormentone di quei tempi: «Pensate ai bambini del Biafra». Creature che ormai non vengono più citate (anche la povertà segue le sue mode), ma la cui sfortuna mi ha talmente impressionato che non ho mai smesso di rispettare la loro fame.
Morale, ancora oggi sono attentissima a non lasciarmi sfuggire nemmeno una briciolina di cibo che ho sotto gli occhi.
Attenta allo spreco, però, lo sono già al supermercato mentre faccio la spesa. Impegno che svolgo con spiccato senso di responsabilità. Tempi immemori, visto che controllo ogni data di scadenza e cerco le più lontane (se vedete qualcuna piegata a squadra nello scomparto che raspa i prodotti in fondo sono io, quindi salutatemi). E che è il preludio di un’organizzazione scientifica appena ritorno a casa.
Qui, infatti, è previsto l’immediato consumo degli alimenti che si deteriorano in fretta. E solo in un secondo tempo è consentito attaccare gli altri. Per farvi un esempio, al lunedì mangiamo insalata e fragole. Mentre il venerdì passiamo a patate e mele.
Un’abitudine che ho cercato di trasmettere anche ai miei figli fin da quando erano piccoli. Tant’è che una mattina (avranno avuto sette o otto anni) ho fatto loro una sfuriata pazzesca (rispolverando addirittura i bambini del Biafra, anche se non più cool) perché i due pazzi avevano osato mangiare le merendine con scadenza lontanissima, invece delle banane destinate ad andare a male in fretta.
E alla sera, al rientro dal lavoro, sapete cosa ho trovato in cucina? Un unico frutto avanzato, con scritto a penna sulla buccia: «Mangiami se no la mamma sclera».
Quando l’ho visto, ho riso tanto. Ma, soprattutto, ho capito che finalmente avevano imparato la lezione.
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