Storia vera di Sara G. raccolta da Simona Maria Corvese
Ferma al buio, nello studio di danza, guardo oltre il vetro che dà sulla reception della scuola. È impossibile che quell’uomo dal volto angelico sia stato capace di far soffrire mia cugina, penso. Mi riecheggia ancora la sua voce al telefono. «Non puoi dare a Luca il compito di aiutarti. Mi ha usata e poi mi ha lasciato. Non mi ha rinnovato il contratto per affidare la parte a un’altra ballerina».Luca è l’unico insegnante con una solida esperienza, disponibile ad affiancarmi in questi mesi. Giusto il tempo di riprendermi dall’infortunio alla gamba.
Mi avvicino all’interruttore, accendo la luce e mi vedo riflessa nello specchio, con il tutù nero e un nastro di raso rosa confetto in vita. Sistemo il nastrino dello stesso colore che ferma il mio chignon e mi guardo: sono alta come mio padre e gli assomiglio, ma gli occhi a mandorla sono gli stessi di mia madre.
Appoggio la mano alla sbarra e piego le ginocchia. I miei muscoli si tendono in un demi-plié e subito avverto una fitta. Anche il ricordo dell’infortunio fa male ma ignoro tutti e due e continuo a esercitarmi.
Dal finestrone il sole sfuma dal giallo brillante all’oro più intenso e tramonta dietro lo skyline cittadino. Anche il cielo digrada dal rosa, al viola all’arancione più profondo e le ombre si allungano. Mi fermo e mi asciugo il sudore che m’imperla il viso. Riflessi allo specchio, i miei capelli scuri raccolgono gli ultimi scintillii di luce. Alle mie spalle ho il centro della sala ma non riesco a staccarmi dalla sbarra, la paura è ancora tanta.
Mi volto verso il giradischi, appoggio la puntina sulla traccia e in tutta la stanza si diffondono note a me molto care. La musica è irresistibile, mi chiama. Mi guardo intorno e non c’è nessuno oltre la vetrata, davanti alla reception: se anche sbaglio, o cado, nessuno se ne accorgerà. Chiudo gli occhi, avanzo verso il centro e inizio a danzare, trasportata dalla melodia. È un sogno ma dura poco. Un battito secco di mani mi fa fermare.
«Danzi con una grazia straordinaria ma le pirouettes sono traballanti e anche l’attitude lascia a desiderare». Mi volto di scatto e incontro il suo sguardo attento. «Non fermarti, questa musica è fatta per te».
Io riprendo a danzare e lui mi posa le mani sui fianchi per accompagnare i miei movimenti. Mi manca un battito: non me lo aspettavo. Vinco la paura ed eseguo un arabesque con il sostegno della sua mano, ma la fitta alla gamba si fa più acuta e mi fermo.
Lui si stacca da me. «Era perfetto ma che balletto è? Non ho mai sentito questa musica». Il suo fisico slanciato e muscoloso si muove con eleganza e magnetismo felini. Ha danzato con me con grande armoniosità, ma sono ancora turbata dalla sua travolgente sensualità e forza. Mi avvicino alla sbarra e riprendo l’asciugamano per tamponarmi il sudore.
«È la musica del balletto classico Shim Cheong – la brava figlia, tratto da una favola tradizionale coreana. Stavo abbozzando il Moon Pas de Deux».
Lui socchiude le labbra per la sorpresa e mi si avvicina. «Di cosa parla?»
Giocherello con l’asciugamano per trovare le parole giuste. «È una storia di amore, pietà filiale e altruismo. Shim Cheong sacrifica se stessa per far ritrovare la vista al padre, ma la cecità dell’uomo è metaforica. Il re, commosso dal gesto della ragazza, la sposa e lei ritroverà il padre a corte».
Luca, di fronte a me, è concentratissimo. «E ritrova anche la vista?».
Io sorrido per la sua curiosità. «Sì, l’uomo riacquista la vista in senso pieno e comprende il significato del gesto della figlia: puoi trovare il vero te stesso solo se lasci andare la tua esistenza egoistica. È nell’altruismo disinteressato che trovi il vero te stesso».
Lui distoglie brusco lo sguardo e non commenta. Io rimango a bocca aperta di fronte alla sua reazione.
Il disco finisce e tra noi cala un gelido silenzio, ma mi riprendo. «Mi affiancheresti nell’insegnamento, fino a quando guarisco?».
Lui mi fissa la gamba. «Come è successo?»
«Sono caduta male durante un sollevamento».
«Non ti sei fidata».
«Non giudicare chi non conosci».
Luca prende il suo asciugamano dalla sbarra, se lo mette sulle spalle e mi tende la mano con un largo sorriso. «Accetto volentieri, ma insegnami subito questo fantastico passo a due».
Rido con lui e faccio ripartire il disco. «Vieni, ti faccio vedere i passi». Torniamo al centro della sala e iniziamo a danzare. A metà del passo a due tra Shim Cheong e il re, mi ritrovo tra le sue braccia, come prevede la coreografia. Il suo abbraccio diventa però una carezza passionale ed è a un soffio dalle mie labbra. Un brivido mi corre lungo la schiena, ma Luca si stacca all’improvviso da me. Sbatto le palpebre, incredula. «Perché ti sei fermato? Il passo a due non è finito e non doveva essere proprio così».
Luca mi guarda dritto in volto. «Come doveva essere? Tu danzi con molto trasporto, Sara».
Ignoro la sua affermazione. «Mi emoziona tanto questo passo perché era il preferito di mia madre». Sono sottosopra e comincio a pronunciare frasi sconnesse. «E poi non doveva esserci tutto questo sentimento: il re appoggia la testa sul petto di Shim Cheong, non sulle sue labbra!».
Luca ride con gli occhi. «Conosci molto bene la storia. Perché non me lo hai detto prima?». Arrossisco e arretro di un passo da lui, senza parole. Perché mi fa sentire come se avessi provocato io tutto questo imbarazzo? La sua espressione si intenerisce. «Scusami, è colpa mia: non conosco ancora il balletto. Ci vediamo domani per le lezioni».
Rimango lì, a seguire con lo sguardo Luca che esce dalla stanza e mi riecheggiano le parole di mia cugina.
«Stai attenta a Luca. È una persona che riserva delusioni».
Lui è affascinante e sa come affascinare. Considerata la mia inesperienza con gli uomini, mi mangerebbe in un solo boccone. Avrebbe già potuto farlo stasera, ma non lo ha fatto.
Lea ha ragione a mettermi in guardia, ma voglio seguire anche le mie sensazioni, positive, che sono intense.
Con la mano appoggiata alla sbarra mi sollevo sulle punte ed eseguo dei petits battements. Lo specchio riflette movimenti senza sforzo, ma il sudore sulla fronte tradisce il dolore alla gamba, che nascondo. Non voglio pensarci o è peggio, così guardo fuori dalla finestra le nuvole illuminate dal basso, che riprendono i colori del cielo plumbeo di questa giornata. Lo stereo diffonde le note della mia canzone preferita, Nothing else matters, dei Metallica.
Luca, che fino a quel momento è stato in disparte, si avvicina: «Mi è sempre piaciuta questa canzone: i protagonisti sono in cerca di qualcuno in cui avere profonda fiducia».
Proprio lui parla di fiducia? Non tengo la lingua a freno. «Il chitarrista l’ha scritta per la sua fidanzata… ma un sentimento che non si sorregge su solide basi di fiducia reciproca può esistere?».
Luca, fulmineo, abbassa lo sguardo prima di alzarlo di nuovo verso di me. «Bella la coreografia di danza moderna che hai abbozzato prima, ma ti ho osservato alla sbarra: tu hai paura, non vuoi ammetterlo e non ti fidi. Di te stessa e degli altri. Puoi fare molto di più che l’insegnante».
«No, credimi. È solo il dolore».
Lui scuote la testa. «C’è qualcosa che non vuoi dire. Facciamo una passeggiata al parco?».
La sua voce paziente mi eccita, la sua presenza emana forza pacata e una sensualità magnetica che mi attrae.
«Va bene, usciamo.»
La pioggia del primo pomeriggio ha lasciato un odore di terra rivoltata che proviene dalle aiuole. Il sole di marzo ha però incoraggiato la crescita dei germogli e ora le piante di ciliegio sono cariche di fiori rosa.
Luca cammina al mio passo e rompe per primo il silenzio. «Che cosa ti frena? Non è la tua gamba. Alla tua età e con le tue capacità, dovresti far parte di una compagnia di danza».
Dei bambini che ridono e schiamazzano ci passano accanto. Emetto un sospiro di resa. Non posso continuare a nascondergli la verità. «Sono nata in Corea, ma quando avevo cinque anni la mia famiglia e quella di mia cugina sono tornate in Italia. Non ricordo quasi più nulla della mia infanzia nel Paese di mia madre. So solo che quando abbiamo cominciato ad andare a scuola mia cugina e io ci siamo aggrappate l’una all’altra. Tanto ho mia cugina, non sono sola, ci dicevamo».
Luca mi ascolta, silenzioso e attento. «E poi come è andata?». Alzo le spalle e sorrido. «Ci siamo ambientate e ci siamo fatte i nostri amici. Ora lei lavora in una compagnia di ballo a Copenhagen.
Luca alza un sopracciglio, stupito. «E tu non hai provato lo stesso percorso?».
Sospiro: non mi darà pace fino a quando non saprà tutto di me. «Desideravo fare un’esperienza nella stessa compagnia di ballo di mia madre, a Seoul. Ho messo da parte i soldi e l’estate scorsa ho frequentato un corso estivo. Potevo partecipare alle audizioni per il corpo di ballo, ma sono tornata a casa».
Lui si volta di scatto verso di me, a bocca aperta. «Perché non hai tentato?».
Percorriamo tranquilli i sentieri tortuosi del parco: non è ancora buio e le giornate si allungano sempre più. Da dietro si avvicinano i passi di un corridore che sbattono a ritmo sostenuto contro la ghiaia del vialetto.
«Perché mio padre ha il morbo di Parkinson e peggiora a vista d’occhio. Ero partita che era stabile, ma nel giro di poche settimane non riuscivo a capire cosa mi diceva al telefono. Faceva fatica anche a parlare».
Luca si ferma, mi poggia una mano sulla spalla e un confortante tepore mi si irradia in tutto il corpo. «Mi dispiace, Sara, non sapevo. Nessuno altro può aiutarti? Così non puoi fare tante cose e sei troppo giovane per rinunciare ai tuoi sogni». Scuoto la testa, mi volto verso di lui e poso la mia mano sulla sua per fermarlo. I nostri sguardi rimangono avvinti per un istante e i battiti del mio cuore accelerano. «Lo credevo anch’io, ma la lontananza mi ha aiutato a capire che insegnare danza è la cosa che mi piace di più e che non sono felice a sapere che mio padre è qui da solo, affidato a degli estranei. Mia madre ci ha lasciato qualche anno fa. Ero molto giovane ed è stato un trauma per me, ma sono riuscita ad affrontare il dolore proprio attraverso la danza. Lui ha solo me, io ho solo lui e non starà qui ancora per molto».
Luca mi prende la mano, me l’accarezza e io sento le farfalle nello stomaco. «Sei una brava figlia e una brava ragazza, ma anche tu hai diritto ad avere la tua vita. Cosa farai quando lui non ci sarà più?».
«Continuerò a insegnare, non per ripiego, ma perché è questo che voglio fare. Quando ballo provo un senso di libertà: la danza, non la competizione, è il mio luogo sicuro in cui lasciarmi andare e permettermi di essere vulnerabile».
Luca mi sorride, si china verso di me e mi sfiora le labbra con un bacio. «Sono felice allora di aiutarti, fino a quando la gamba guarirà».
Il suo bacio mi ha toccata. L’ho voluto anch’io ma non posso innamorarmi di un uomo senza scrupoli come lui. Nel suo sguardo c’è desiderio. Ora che è così attratto da me potrei vendicarmi per il male che ha fatto a mia cugina. Quando sarò guarita del tutto potrei non rinnovargli il contratto e dirgli che non ho mai provato nulla per lui ma mi è impossibile comportarmi così: qualcosa mi dice che è sincero. Questo mi sconvolge ancora di più. Ci passa accanto una bicicletta. Al suono argentino del suo campanello, ci scansiamo e andiamo a sederci su una panchina.
«Sei sempre gentile con me, Luca e avverto la tua sincerità».
«Tu non mi conosci, Sara. Sono stato egoista in passato, ho ingannato e fatto soffrire una ragazza. Ora però non sono più la persona cinica e arrivista che ero».
Sgrano gli occhi per la sua confessione che ha sciolto i miei dubbi. Mi parla con la voce spezzata e gli costa un grande sforzo. «Ho buttato all’aria tutta la mia vita per espiare il male che ho fatto. Non m’importa più nulla di una carriera costruita in quel modo e trovo molta più gioia nell’insegnare e aiutare nuovi talenti».
Luca non è più l’uomo di cui mi ha parlato mia cugina. Con un impeto di affetto, lo abbraccio ma lui si stacca da me e si fa serio: «Amami, Sara. Non aver paura: io non ho bisogno di te, ho desiderio di te».
I primi raggi di sole filtrano attraverso le imposte. Luca dorme e mi cinge la vita con il braccio, sotto le lenzuola. La mia mente vaga alle cose bellissime che mi ha detto stanotte e alle cose bellissime che abbiamo fatto. Non riesco a crederci: è accaduto tutto troppo in fretta per elaborarlo. Mi sciolgo dal suo abbraccio, scendo dal letto e mi rivesto.
Una sera mi suona il cellulare: è la receptionist della scuola. «Sara, Luca viene a casa tua. Dice che non rispondi alle sue chiamate e non ti fai vedere da giorni: è preoccupato».
Emetto un sospiro. «Va tutto bene.»
«Aspetta, non riagganciare. Ha visto la foto che hai nel tuo ufficio, di te e tua cugina. L’ha riconosciuta e ha chiesto di voi. Sa tutto ora».
Impallidisco, ma prima o poi gliene avrei parlato. È il motivo per cui sono sparita da giorni. «Grazie per avermi avvertito».
Luca si è accasciato sul divano del salotto di casa mia: i tratti del volto sono tesi. «Mi sono fidato di te, Sara. Mi sono aperto con te. Perché non me lo hai detto?».
Io ho lo sguardo basso e giocherello con l’anello di mia madre, al dito. «Mi dispiace, Luca. Volevo parlartene e non ho scuse per aver taciuto. Desideravo trovare un uomo per il quale essere importante ed è accaduto con te. Non ti ho mai mentito: tutti i bei momenti che ho condiviso con te sono stati reali e onesti, ma temevo che tu avresti potuto spezzarmi il cuore». Alzo gli occhi e incontro il suo sguardo incoraggiante. «Non sapevo che ora sei un uomo diverso. E tutti i miei propositi di vendetta si sono dissolti».
Mi guarda dritto negli occhi, con un sorriso raggiante. «Ho capito subito che tu eri diversa dalle altre donne. È una vita che aspetto di conoscere una persona come te, eppure non abbiamo ancora avuto il tempo di farlo. Ricominciamo da qui, Sara?».
Ora mi sento in pace con me stessa: è giunto il momento di mettere da parte le incomprensioni e lasciare spazio ai nostri sentimenti più profondi e sinceri.●
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