Quando andare a scuola era bello

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Soprattutto al liceo, entrare in classe per me era una gioia. Perché tra i banchi imparavo sapere e saper vivere

Non sono mai stata una secchiona, anzi. Detestavo studiare. Eppure, andare a scuola mi piaceva tantissimo.

Sì, soprattutto al liceo mettere il piede in classe era una gioia. E lì, con i compagni passavo le ore escogitando mille strategie per portare a casa voti decenti, destreggiandomi tra impegno e fannullaggine.

Tutto questo succedeva nei tempi in cui la scuola ancora funzionava. I ragazzi nutrivano un profondo rispetto per i professori. I genitori anteponevano le ragioni degli insegnanti a quelle dei figli. La maggior parte degli alunni era animato dal senso del dovere. E chi, come me, non ne era del tutto pervaso, sapeva che c’erano comunque delle regole imprescindibili.

Le cose erano già molto cambiate quando a scuola sono andati i miei struffolini. Cioè, nei primi periodi in cui le mamme si accanivano contro i prof indesiderati e organizzavano campagne diffamatorie per sostituirli.

Già allora consideravo tali comportamenti una follia. Ma di certo non mi aspettavo la degenerazione a cui siamo arrivati adesso.

Oggi, troppi ragazzi si sono trasformati in bulli pericolosi. Con l’aggravante dei genitori alle spalle, pronti a infierire (anche fisicamente) contro gli insegnanti con la ferocia delle belve.

Ve ne parlo perché l’articolo La scuola che vorremmo (su Confidenze in edicola adesso) sostiene (tra le varie cose) che il 60% degli studenti prova disagio sui banchi.

Come potrebbe essere diverso? Più che un’istituzione l’istruzione sembra ormai una gabbia di matti. E io sfido i ragazzi normali (quel 60%!) ad avere voglia di entrarci.

Perché qui incontra il restante 40%. Quello che non ha capito che la classe non è un ring, ma una scuola di vita. Che insegna date storiche, teoremi matematici, analisi logiche e grammaticali. Ma, soprattutto, i fondamenti per stare al mondo.

Al liceo, infatti, noi imparavamo a rapportarci con i nostri simili (i compagni) e con l’autorità (i prof). A capire quando potevamo fare i furbetti e quando, invece, dovevamo abbassare la cresta. Inoltre, ci insegnavano che nella vita avremmo sempre incontrato i più e i meno bravi di noi. I più e i meno intelligenti. Gli aggressivi, i remissivi, i creativi, gli onesti e i disonesti.

Insomma, oltre al sapere inteso come cultura, la “nostra” scuola trasmetteva anche l’ABC del saper vivere: lo strumento più prezioso che ogni individuo possa avere tra le mani.

Di chi sia la colpa della caduta nel baratro non lo so. Ma se penso a tanti poveri docenti impossibilitati a fare il loro mestiere perché alle prese con ragazzi arroganti supportati da padri e madri disposti ad alzare le mani per una sufficienza, capisco che la situazione non è bella.

Per fortuna, nel quadretto demoralizzante ci sono anche isole felici. Capeggia la lista il liceo che hanno frequentato i miei figli, diretto da un preside illuminato. Il quale un giorno mi ha spiegato: «E’ impensabile che i ragazzi preferiscano studiare il greco e il latino piuttosto che uscire con gli amici. Ma il nostro obiettivo è fare di tutto per interessarli anche a queste materie».

Un proposito che parte da un pensiero intelligente e, soprattutto, realistico. Quale giovane, se non un caso umano, predilige Ovidio a una festa?

La scuola che vorremmo, quindi, dovrebbe essere in grado di insegnare che uno non esclude l’altra. Che svolgere senza storie il proprio dovere rende tutto più facile. Le persone migliori. E aiuta a realizzare i progetti per il futuro.

Missione impossibile? Forse no, visto che creando un ambiente severo ma amichevole, esigente ma non prepotente, gerarchico ma non tirannico, il preside in questione è riuscito a inculcarlo ai miei figli. E a una percentuale ben più alta del 60% degli altri suoi studenti.

 

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