storia vera di Mattia raccolta da Francesca Stucchi
Sono qui davanti alla sala operatoria dov’è ricoverata mia moglie. Solo ora mi accorgo di quanto mi sono perso di lei a starle lontano, a vivere in un’altra città per lavoro. Prego di avere una seconda possibilità, il nostro portafortuna mi dice di sì
Sono seduto con la testa tra le mani da quasi due ore in questa maledetta semibuia sala d’attesa. Non dovrebbero lasciare da sole le persone in queste stanze prima del verdetto. Un’addetta alle pulizie fa avanti e indietro silenziosa guardando nel vuoto e compiendo ogni gesto con una lentezza incredibile, potrebbe essere un fantasma. Mi alzo e mi risiedo nervosamente. Possibile che non ci sia un medico, un infermiere in questo posto? Per un istante penso che potrei essere finito in un incubo.
Mi viene voglia di dare una spallata alla porta di fronte che mi sbatte in faccia il divieto di entrare, fregandosene che là dentro c’è mia moglie.
Non l’ho mai chiamata così, me ne accorgo adesso. E’ sempre stata Tania e basta. E chissà se è stata veramente mia. Credo di essere stato il suo unico uomo, ma chi lo sa se ha mai pensato a qualcun altro. Mi sembra ora tutto così confuso e incredibile.
Ci siamo conosciuti dieci anni fa nel chiostro dell’università e mai più lasciati. Sapevo che era lei quella giusta per me, l’ho capito dagli occhi smeraldo, dal suo modo di parlare attorcigliandosi i capelli e da quella profumata leggerezza che respiravo ad ogni suo sguardo.
Lei invece non sapeva che ero io quello per lei. Ho dovuto sussurrarglielo all’orecchio una sera d’estate, dopo un gelato alla fragola che entrambi adoriamo. Non sembrava tanto convinta, ma era bella come nessuna. Siamo diventati confidenti, inseparabili, amici. E quando imbocchi la strada del cuore non torni più indietro.
Tania era silenziosa, enigmatica, sensuale. Le regalai un talismano che trovai in un negozietto di antichità, mi colpirono il colore e la forma della pietra, sembrava un frammento lunare. Le piacque tantissimo e la indossava tutti i giorni, credendo che le avrebbe portato fortuna. Non indovinavo mai i suoi pensieri, eppure tra noi c’era feeling e una piacevole sintonia. Adoravo starle accanto. Frequentavamo filosofia alla Statale di Milano e questa già era una sorta di comune follia. Ci garbavano i documentari e i deltaplani, il nostro colore preferito il blu. Abbiamo condiviso tutto, un quaranta metri quadri al secondo piano a Porta Romana è stato il nostro castello incantato per cinque meravigliosi anni. Eravamo solo noi.
Dottori lo stesso giorno, ci siamo baciati col tocco e promessi in un abbraccio di stare insieme tutta la vita.
Le nozze furono la ciliegina su una torta a cinque piani di frutta e crema che ci gustammo in un tramonto magico sul lago di Como. Lei era stupenda in una nuvola di abito che sembrava fluttuare nell’aria ad ogni suo movimento. Io troppo emozionato m’incantavo a guardarla come in un sogno. Tania è una ragazza particolare, unica, mi vola attorno leggera, inafferrabile.
Poco dopo il matrimonio mi chiamarono per insegnare storia e filosofia al liceo classico di Rimini. Ho sempre desiderato fare l’insegnante e questa fu l’occasione buona. Tania invece non ne voleva sapere, libera ricercatrice di verità, ha iniziato un dottorato alla Sapienza.
Lasciammo fare agli eventi e il lavoro ci portò lontani. Nessuno dei due rinunciò all’incarico per stare insieme, come c’eravamo detti naso naso quando abbiamo mandato le domande nelle scuole. Io toscano, lei lombarda, non sentivamo di appartenere ad alcun luogo ed eravamo convinti che l’amore vero potesse superare ogni distanza. Il quaranta metri quadri di Milano diventò così un quaranta ciascuno a più di trecento chilometri di distanza.
Eppure eravamo marito e moglie, uniti e divisi da tutto e da niente. Ci vedevamo ogni fine settimana, all’inizio, una volta andavo io, una volta veniva lei. Era entusiasmante incontrarsi dopo cinque giorni, come fossero passati mesi, la nuova consuetudine sembrava rafforzare il nostro legame. Avevamo sempre un sacco di cose da raccontarci. Ridevamo delle stranezze della gente delle città che ci ospitavano e facevamo i turisti abbracciati per le vie centro. Lasciavamo qualcosa nell’appartamento dell’uno e dell’altra, per riprenderlo la volta successiva. Poi cominciammo a vederci due volte al mese. Mi mancava. Un giovedì d’aprile la chiamai: “Ho un giorno libero, vengo a Roma”. Non sembrava sorpresa, ma mi disse che era contenta, si sarebbe liberata dagli impegni in università e ci saremmo visti a casa sua.
La trovai carinissima con un lungo vestito a fiori, mi sfiorò con un bacio sulla porta, poi sfuggì a preparare il caffè. Notai che non indossava il talismano, ma non le chiesi perché. La sentivo lontana, anche se la stringevo a me. Solo alla fine del weekend in piazza delle Chiese Gemelle mi disse che aveva fatto delle analisi e c’erano dei valori sballati, avrebbe fatto accertamenti, non dovevo preoccuparmi. Non mi preoccupai. Ci godemmo l’ultimo sole primaverile seduti su un muretto come due ragazzini, prima della mia ripartenza.
Ero abituato a guidare per ore e a tornare a casa senza di lei. Dopotutto Leibniz mi aveva convinto che viviamo nel migliore dei mondi possibili e, pur non essendo certo di interpretare bene il suo pensiero, accettavo di buon grado qualunque cosa capitasse. Nell’imperscrutabile disegno dell’universo avrebbe avuto un senso.
Mi ero adattato alle abitudini romagnole, avevo anche mescolato il mio accento toscano con quello riminese, trovando il passaggio dal Tirreno all’Adriatico quasi naturale. Insegnare mi appassionava e mi impegnava tutta la settimana, passavo i pomeriggi a leggere e rileggere i testi degli autori che poi proponevo ai ragazzi, cercando di coinvolgerli e di portarli agli estremi confini del sapere.
Fu proprio a scuola, alla terza ora di un mercoledì incastrato a metà settimana, che ricevetti la telefonata dal Gemelli: “Sig. S. Mattia?” domandò una voce asettica, per poi dirmi che mia moglie era ricoverata presso l’ospedale per un problema cardiaco e sarebbe stata sottoposta ad un intervento d’urgenza. Restai paralizzato dalla terribile notizia, andai ad avvisare il preside che per un problema famigliare improvviso dovevo assentarmi e partii, guidando come un automa, con l’unico pensiero di arrivare in tempo. Fu il viaggio più angosciante della mia vita.
Ed eccomi qui, di fronte a questa porta chiusa, dove sarà la fine di tutto o uno sconvolgente inizio. Un doloroso inquietante silenzio mi urla in testa disperazioni, ma le scaccio, voglio sperare.
Sono ormai le quattro, quando arriva un’infermiera, mi sorride: “Il marito di Tania?”. Al mio sì estrae dalla tasca il talismano di mia moglie: “Prima di entrare in sala operatoria, mi ha pregato di darglielo. Sapeva che sarebbe stato qui ad aspettarla”. Ha pensato a me, ha fatto in modo di esserci anche se non poteva, sapeva che mi sarei ritrovato solo, disperato, a rivivere tutto, a rimpiangere di non esserle stato vicino. Mi rendo conto all’improvviso di quanto mi sia perso del nostro rapporto. Voglio viverla e guardarla al risveglio ogni mattino, quando è semplicemente lei. Prego di avere un’altra possibilità.
Resto in piedi in attesa che si apra la porta, non conosco ancora il suo destino, né il mio. Mi sento morire e vivere contemporaneamente. A volte la vita ci conduce su sentieri impervi per farci capire cosa conta veramente. Stringo tra le dita il talismano e non vedo l’ora di rimetterglielo al collo. Ho deciso, mi trasferirò a Roma e le starò accanto per sempre.
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