Chi ci separerà

Cuore
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È la storia più votata dalle lettrici per il n. 34, un racconto pieno di mistero che parla di legami oltre la vita

Sto guardando vecchie foto quando la tapparella si alza all’improvviso. Da sola. Non mi spavento perché so cosa sta succedendo. Me l’ha spiegato nonna Bice, anni fa, con parole che venivano dal cuore: la morte non divide chi si ama

Storia vera di Miriam G. raccolta da Alessandra Mazzara

Mi chiamo Miriam e ho quattordici anni. Sono una ragazza come tante della mia età, con il suo gruppetto di amici e amiche, i compiti al pomeriggio, un fidanzato immaginario e un tipo che vorrei tanto mi notasse ma che, invece, ha occhi solo per quella della 3°A, una passione smodata per tutto ciò che è British e un innamoramento segreto per Leonardo Di Caprio che, ne sono certa, un giorno quando sarò grande sposerò. Vivo con i miei in un piccolo appartamento che adesso è un cantiere per via della ristrutturazione, quindi ormai da un mese sto dai nonni. Che caos! Tutte le mie cose – la scrivania, la piccola libreria, le musicassette e i compact disk, i vestiti e la mia collezione di Cioè – sono state sistemate in un angolo del salone, insieme ad un divano letto posto proprio sotto la finestra del balcone. E sono proprio su quel letto, in una domenica mattina di quelle che sai che non c’è scuola e che puoi permetterti di perdere ancora tempo tra le coperte, quando improvvisamente la serranda della finestra sopra la mia testa si alza su, fermandosi a metà. Due colpi netti. Uno, due. Apro gli occhi e mi guardo intorno. Sono sola, non c’è nessuno. Nessuno ha tirato su la serranda. Ma adesso quella è su. Era giù, fino a qualche secondo fa, posso giurarlo. Era tutto buio. Ora, invece, la stanza è inondata di luce del mattino. Deglutisco, sento il cuore battere a mille. Scosto le coperte, con le gambe che tremano cerco le ciabatte e le indosso velocemente, poi scappo via guardinga dalla stanza. Alle mie spalle, la serranda si tira su con un altro colpo secco, raggelandomi.

L’ultimo.

1979

Gaspare si era finalmente deciso. Dopo aver lasciato che Bice, sua madre, si disperasse e lo supplicasse per anni e anni, aveva finalmente detto sì alla seconda operazione al cuore. Dotto di Botallo. Era nato ventotto anni prima con questa malformazione cardiaca. Un’operazione da bambino, poi un’altra programmata per l’adolescenza che lui, Gaspare, bellissimo, con gli occhi grandi color ambra e i lunghi capelli castano chiaro mossi e ribelli come lui, con la passione per il mare e la pesca, che recuperava da ogni dove animali di ogni tipo salvandoli dalla strada e che arrivavano in quella casa piena di fratelli e sorelle – sette, in tutto – ad occupare uno spazio che non c’era, corteggiatissimo e pieno di femmine attorno, aveva di anno in anno rimandato. Si vergognava di quella malattia e delle ferite al petto che gli aveva lasciato da piccolo.

Che c’entrava lui, così pieno di vita e di amore con quel cuore così spento, così malmesso?

E rimandava. Rimandava sempre, sordo ai pianti della madre e ai rimproveri del padre. Lui era vivo. E pazienza se le labbra erano violacee, pazienza se faticava nel salire le scale, pazienza se lo avevano scartato per il servizio di leva. Lui, sotto i ferri non ci sarebbe più tornato. Alla fine, però, forse per accontentare la madre o, forse, proprio perché aveva capito che continuando così il suo cuore non avrebbe più retto, finalmente si era deciso. Così, nel giugno di quel 1979 Gaspare sale su un aereo accompagnato da Alfredo, il fratello più piccolo di due anni e fresco di laurea in medicina.

“Vai, vita mia, torna presto a casa”, gli dice sua madre all’aeroporto.

“Certo che torno! Stai tranquilla, mamá, non ti preoccupare”, gli risponde lui.

E la bacia.

Con una valigia per due piena di speranza, euforia e un po’ di paura Gaspare e Alfredo arrivano a Houston, nel Texas.

Dal migliore cardiochirurgo.

Nel migliore ospedale.

Perché è questo che sua madre, suo padre, suo fratello vogliono per lui. Il meglio.

Perché Gaspare tornerà a casa, sì che tornerà. Con un cuore risanato. Pronto a ritornare dal suo mare, dalle sue lenze da pesca, dai suoi animaletti randagi, dai suoi vinili di Rino Gaetano, dalle sue femmine che gli inviano lettere profumate e piene di baci stampati sulla carta col rossetto rosso.

“È andato tutto bene, aspettiamo solo che si svegli”. Alfredo ha avvisato a casa. A Houston è il primo pomeriggio, a Trapani solo le nove di sera. Tutti interrompono quello che stanno facendo allo squillo del telefono, in attesa che Bice dia notizie. Chiude la cornetta del telefono e annuncia la buona notizia. Tirano un sospiro di sollievo perfino i tre nipotini che quella sera hanno deciso di restare dai nonni, ad attendere anche loro quella chiamata.

Bice si veste, sciacqua velocemente il viso ed esce via di casa a piedi nudi, dritta verso il santuario della Madonna di Trapani, andata e ritorno. Non importa se i piedi bruciano. Se sta facendo buio. ‘A Maronna’ ha fatto la grazia, va ringraziata come si deve.

Gaspare, vita mia, torna presto a casa”, ripete Bice passo dopo passo, fino al Santuario.

Quella notte stessa, bussano alla porta. Tutti si alzano. È Giovanni, il secondo figlio di Bice e Nino. Alfredo ha avvisato lui, ha chiesto a lui di dire a mamà, a papà, a tutti, che Gaspare non tornerà più. Alfredo ce l’ha accanto, il corpo senza vita di suo fratello, gli sta stringendo la mano fredda mentre parla al telefono. Non ce la fa a parlare con mamà, è troppo lontano, troppo solo, troppo pieno di dolore. “Diglielo tu”. Giovanni sveglia la moglie e i due si alzano dal letto, mettono su i primi vestiti che trovano, vanno in via Nino Bixio con gli occhi annacquati e l’animo spento. E bussano alla porta. Quando Bice e Nino vanno ad aprire, i capelli scombinati, lo sguardo confuso dal sonno interrotto e un presagio di male nell’aria perché quando qualcuno ti sveglia la notte non è mai per darti una buona notizia, capiscono subito. “Mamà… ti prometto che non ti lasceremo mai sola, mamà… ti accompagnerò al cimitero ogni santissimo giorno, mamà…”. Giovanni piange e parla, parla e piange, tutti in casa si sono alzati da letto e hanno saputo, le grida, i pianti, la disperazione, l’incredulità, il caos è tale da perdere ogni cognizione. Ma Bice non sente né vede più niente. Sente solo dolore, qui, nel fondo del cuore, un dolore che la piega in due e la fa vomitare, la accascia per terra, le spegne la voglia di continuare a vivere. Perché Gaspare è morto. A poche ore da un intervento tecnicamente riuscito alla perfezione.

Ed è importante tenere bene in mente questa verità o quanto segue potrebbe non avere alcun senso, in questa storia…

2000

In cucina mamma e nonna sono intente a preparare il pranzo. Nell’aria c’è odore di ragù e di patatine fritte.

“La serranda… Nonna… La ser…la serranda si è…”

Non riesco a parlare. Balbetto, mentre prendo posto a tavola circondata da tegami e mestoli. Il ragù borbotta in pentola.

Quelle due si guardano.

“Allora l’ha rifatto!”, dice la mamma, dando una mescolata al ragù.

“Ah, meno male, Dio ti ringrazio! Era da un po’ che non si faceva sentire e un po’ mi mancava”, le risponde la nonna, rompendo un uovo dopo l’altro in una ciotola e aggiungendo di tanto in tanto il formaggio grattugiato.

I miei occhi vagano prima sull’una poi sull’altra, continuamente.

“Ma chi?”, chiedo sempre più in ansia.

Nonna si asciuga le mani sul grembiule.

“È stato zio Gaspare, sangu meo. Si diverte a farci prendere un colpo. Lo fa da sempre”

Sorride. Anche mamma sorride. Io, invece, impallidisco.

“La prima volta è successa che era stato seppellito da poco, con la serranda del soggiorno. Poi non ha più smesso. È il suo modo per farmi sentire la sua presenza, per consolarmi. Sa che così mi fa felice. ‘Un ti scantare, sangu meo…”.

Ma siete impazzite?”, chiedo prendendo dalla credenza i Pan di Stelle e ficcandomene uno in bocca. Ho paura, sì, ma anche tanta, tantissima fame.

Mamma spegne il ragù. È pronto. Lo versa nel tegame dove hanno cotto gli anelletti e mescola, mentre nonna tira fuori dal ripostiglio la teglia e ne riempie il fondo di olio e pangrattato. Sembrano una catena di montaggio, quelle due. Una, mia madre, versa cucchiaiate di pasta sul fondo della teglia. L’altra, la nonna Bice, aggiunge fette sottilissime di formaggio Primo Sale e rondelle di uova sode. Gesti meccanici fatti con cura, senza approssimazione.

No, sangu meo. Non siamo pazze. Ci sono realtà che vanno al di là della nostra comprensione. Devi sapere che non tutto quello che accade nella vita ha sempre una spiegazione”

Ma… zio Gaspare…è… è morto!”

E quindi?”, fa nonna spolverizzando formaggio grattugiato sul timballo di pasta. Lo mette in forno. “Pensi, forse, che la morte sia un punto definitivo nella vita?”

Anni dopo feci un sogno. Zio Gaspare mi veniva incontro, vestito con un abito anni ’70 colore carta da zucchero.

“Vai a dire alla nonna che ora sto bene”.

Quando andai da nonna Bice a dirglielo, i suoi occhi brillarono di gioia. Gaspare, il suo bambino, il figlio numero tre, quello che l’aveva fatta piangere più di tutti, che le aveva strappato il cuore dal petto, finalmente stava bene.

Il vestito color carta da zucchero che mio zio indossava nel sogno era quello che nonna aveva scelto per seppellirlo.

Come avrei potuto saperlo?

Sarei nata sette anni dopo la sua scomparsa. Di Gaspare conosco solo il volto sorridente stampato sulle foto.

Dopo quel sogno, nessuna serranda si alzò più su in quella casa. Ho chiesto a tante persone e cercato su internet una spiegazione chiara e razionale al fenomeno. Nessuna serranda può alzarsi da sola, soprattutto quelle di legno e corda anni ’50 come quelle dei nonni. Ho messo, quindi, a tacere la ragione e accettato l’idea che la morte non mette mai un punto di fine alla vita, come mi disse nonna in quella primavera di ventiquattro anni fa. La mia verità è che Gaspare da quelle stanze non se n’è mai andato, ma là è rimasto – in un’altra forma – per tutto il tempo a lui concesso. È rimasto tra quelle quattro mura a tirare scherzi con chi gli capitava sotto, come avrebbe fatto se fosse stato ancora in vita. E a consolare la sua amata mamma. Perché in realtà, per quella donna, il cuore di Gaspare non aveva mai smesso di battere.

2024

Un mese fa ci ha lasciati anche nonna Bice, cinque anni dopo il nonno. Abbiamo svuotato la casa, raccolto le cose da conservare, altre le abbiamo donate, messo via quel che non era più da conservare. Si fa sempre così. È un passaggio doloroso. Ti ritrovi tra le mani cornici, cuscini, tappeti, piatti, forchette, tazze sbeccate, quadri, foto, suppellettili, cose che un tempo avevano un senso, un perché, oggetti legati ad un viaggio, ad una cerimonia, ad un incontro, ma che ora sono solo un ricordo, come se si fossero spenti insieme a chi li aveva posseduti. Tutto vola via insieme a noi. Un pomeriggio volli andare anche io a rivedere per l’ultima volta la casa dei nonni. Là ero cresciuta, là avevo trascorso gli anni più belli della mia infanzia. Quelle mura, quel pavimento a scaglietta, quelle porte di legno tarlato meritavano un saluto. Entrai con la chiave prestata da mia madre. Le camere erano vuote, solo qualche scatolone qua e là ancora da smaltire e uno scarafaggio rinsecchito e a zampe all’aria. Mi avvicinai allo scatolone con su scritto il nome di mia madre con un pennarello rosso e lo aprii. Conteneva dei vecchi album. Mi sedetti sul pavimento freddo del salone e ne presi uno tra i tanti, aprendolo sulle gambe incrociate. Lo sfogliai, mandando avanti e indietro matrimoni, battesimi, pranzi di Natale, le immagini di una famiglia, di tante vite unite dal sangue e dall’amore. Il cagnolino Pupa, il gatto Mochi, le estati a Lecce dai genitori di nonna Bice, gli anniversari…Poi, una piccola foto rettangolare in seppia: zio Gaspare è ritratto di profilo, seduto sul muretto del lungomare di Trapani, una camicia bianca svoltata sulle braccia, i jeans a zampa, la canna da pesca tra le mani e lo sguardo rivolto al mare. Senza neanche accorgermene la infilo in tasca. E dietro di me, bum. Un colpo secco e la serranda sale su, fermandosi a metà. Mi giro e la guardo. “Ehi, zio”, dico ad alta voce. Le parole rimbombano nel vuoto di quella stanza. “Salutami la nonna e dille che le ho voluto tanto bene”. Poi mi alzo, rimetto l’album nello scatolo e vado via. Adesso quei due sono insieme. Li immagino mano nella mano, anime fluttuanti nell’eternità. E non ci sarà per loro morte, né vita, né tribolazione, nè angoscia, né presente, né avvenire che più li separerà.

Confidenze