L’amicizia inaspettata

Cuore
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Tre insegnanti fuori sede stringono un'amicizia spontanea e sincera, che però fa invidia a molti. È la storia preferita dalle lettrici per il n. 40. La puoi leggere qui

storia vera di Giulia B. raccolta da Caterina Sgrò

Da quando tutto ha avuto inizio, quasi sei anni fa, ho sempre pensato che sia stata la sorte a farci incontrare. Fino a quel momento, Giorgia, Aldo e io avevamo condotto le nostre vite completamente ignari dell’esistenza gli uni degli altri. Avevamo frequentato la scuola e finito l’università. Ci eravamo trovati un lavoro e, dopo, c’eravamo sposati. Aldo e Giorgia avevano anche messo al mondo dei bambini, mentre io avevo fatto una scelta diversa. Gli anni, con la maturità, erano volati via veloci e si erano accumulati, uno sull’altro, fino a quando il destino aveva deciso per noi, che ancora non ci conoscevamo.I primi tempi mi svegliavo la mattina e, tutte le volte, stentavo a raccapezzarmi. Perché non ero nella mia stanza? Che ore erano? Poi, gli arredi sconosciuti e il letto matrimoniale, più basso del mio, mi ricordavano che mi trovavo nella casa che avevo preso in affitto in un piccolo villaggio di pescatori, nel nord della Sardegna. Spesso, quando succedeva, era l’alba e il rosa smorzato delle nuvole tingeva il cielo ancora turchino. Era a quell’ora che amavo camminare sulla spiaggia deserta. Il vento, qui, sferza spesso forte e veloce e conferisce al paesaggio un aspetto selvaggio. Tronchi sbiancati dal sole e dal salmastro, alghe, conchiglie, versi di gabbiani e la macchia mediterranea che sporge dalle dune.“Settembre andiamo, è tempo di migrare” scriveva D’Annunzio, poeta tanto amato da mia madre, perché abruzzese come lei. E anche per me, quel settembre, era iniziata un’inaspettata avventura, anzi una nuova vita. Ho letto da qualche parte che, quando vuoi fortemente una cosa, tutto l’universo si mette in moto perché questa si realizzi. Per me, fu esattamente così. Dire che ero stata felice di essere stata assunta come insegnante a tempo indeterminato non renderà mai l’idea di ciò che ho veramente provato: quanto avevo desiderato quel posto! Anche se, averlo, avrebbe significato lasciare mio marito, i miei affetti, la casa e le amicizie più care a 225 chilometri di distanza.

Eppure, quando tutto era cominciato, mi ero ritrovata smarrita, alle prese con una scolaresca numerosa e indisciplinata, i colleghi taglienti, i genitori spesso polemici. E mi ero sentita perduta. Il pensiero di dover stare lì cinque giorni su sette non mi dava tregua. Anche per Giorgia era stato così. Dovevamo assolutamente fare qualcosa per ingannare il tempo. E fu lei, per prima, ad avere l’idea. Distrazione a tutti i costi, questa sarebbe diventata la nostra priorità, dopo il lavoro.

È iniziato tutto per caso, un giovedì pomeriggio, con un caffè preso in un bar vicino alla scuola, senza troppe pretese, ma con tanta voglia di leggerezza, di spensieratezza. Avevo dimenticato cosa significasse girare per strada senza il pensiero della cena da preparare o della lavatrice da caricare. Avevo dimenticato il senso di benessere che si prova stando seduti a un tavolino dopo che mani esperte hanno acconciato i tuoi capelli, riuscendo inaspettatamente a farti sentire più bella.

Poi, lui era entrato. Parlo del nostro capo, il preside. Del nostro dirigente scolastico, sapevamo soltanto che viveva da solo, lontano dalla famiglia, proprio come noi due. Ripensai alla prima volta che l’avevo visto, a settembre, vicino a una delle mie classi. La testa alta e le spalle un po’ chinate. Il passo tranquillo, rallentato. Eppure, a me, era sembrato diverso. Una di quelle persone che il dolore se lo portano sempre dentro e sono brave a nasconderlo. Che hanno dimenticato il profumo della felicità e, forse, perso la speranza di poterlo ritrovare.

Ricordo che, rivedendolo in quel bar, avevamo provato l’impulso di andare alla cassa, pagare il conto e poi scappare.

Invece, superato l’imbarazzo iniziale, avevamo iniziato a parlare di noi, quel pomeriggio. Delle nostre vite, dei nostri uomini, di sua moglie e della loro figlia, condividendo momenti di autentica intimità.

Di certo, Giorgia e io eravamo consapevoli di esercitare una certa attrazione su di lui. Ma avevamo anche le idee ben chiare sull’amore, la fedeltà, i nostri matrimoni e il futuro. Per questo, avevamo tacitamente deciso insieme che avremmo continuato a vederlo, finché le circostanze ce l’avessero consentito. Anche se lui era il nostro capo.

Prima che accadesse, avevo sempre pensato che i cambiamenti non sono mai improvvisi: siamo noi a tenerli nascosti per molto tempo, prima di rivelarli agli altri. Invece, semplicemente, a volte le cose capitano. Ebbe così inizio un nuovo periodo della nostra vita: appassionante, elettrizzante, inebriante. Con Aldo, che avevamo scoperto essere aperto e leale, potevamo mostrare autenticamente la parte più nascosta di noi stesse. Ridere come matte, piangere di malinconia e solitudine, scherzare andando, a volte, ben sopra le righe. In quel nostro rapporto, così pieno di serietà e dedizione, vi era un qualcosa di talmente vero da scoraggiare qualsiasi trasformazione. Solitamente, le relazioni di questo genere suscitano un senso d’invidia in tutte le comunità umane. Perché non c’è nulla che gli uomini desiderino con tanto ardore quanto un’amicizia disinteressata. Al punto da credere che sia un desiderio senza speranza. Anche nel nostro caso fu così.

 

Il nostro rapporto con Aldo comportò un improvviso scontro con la scuola che ci ospitava e, soprattutto, con le colleghe più sospettose, malpensanti e diffidenti. Ma neppure questo riuscì a fermarci, né a farci rinunciare a un’affinità tanto bella e pulita da indurci a cose folli. Come, per Giorgia, cantare a squarciagola nell’abitacolo della macchina, pur sapendo da tutta la vita di essere più stonata di una campana. Per Aldo, girare a tutta birra con il fuoristrada lungo la rotatoria della statale sulle note di Don’t cry tonight. O, per me, arrivare a schernire, senza mai esserci riuscita prima, un mio arrogante ex, a causa delle sue performance amorose. Che gli erano valse appellativi irripetibili. Oggi, lo so: se Giorgia e io abbiamo potuto coltivare un’amicizia con un uomo come Aldo, è stato soltanto perché il nostro cuore era già legato a qualcun altro, in modo indissolubile.

E, forse, anche perché questa conoscenza era nata e si era sviluppata all’interno di un piccolo gruppo. Formato solo da noi tre. A volte, mi chiedo se avesse ragione Oscar Wilde nel sostenere che “fra uomini e donne non può esserci amicizia. Vi può essere passione, ostilità, adorazione, amore, ma non amicizia”. Ma, poi, rispondo di no, che non aveva ragione. L’amicizia tra sessi opposti deve esistere. Perché non posso definire diversamente quell’affetto “cortese” che ci ha legato, senza secondi fini, a quell’uomo di rara compostezza, dalla condotta semplice e dagli atteggiamenti autentici.

Quando ripenso a lui, adesso che le nostre vite hanno preso direzioni nuove, l’immagine che si fa strada dentro me è quella di un porto sicuro. Dove poggiare il capo e trovare ristoro.

Del resto, l’amicizia non è per niente un sentimento scontato. Necessita di tempo, approfondimento, dedizione. E, di tempo, noi ne avevamo avuto tanto.

Con molte amiche donne, poi, il rapporto era stato, in passato, spesso di ostacolo. Fatto di consigli non sempre disinteressati e di punti di vista poco equilibrati.

Con Aldo, al contrario, era cresciuto sulla base di un confronto schietto, con un universo, quello maschile, che, per molti aspetti, rimane sempre sconosciuto alle donne.

“Omnia munda mundis”, tutto è puro per chi è puro. E così era stato anche per noi: due bizzarre quarantenni che, insieme al loro capo e amico, vivevano lontano da casa per inseguire i propri i sogni e costruire un futuro felice.

Alla faccia di tutte le pettegole malelingue del mondo.

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