Una vita, cento sfide

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Leggi la storia più votata per il n. 49, un racconto di resilienza e di amore per i libri

 storia vera di Sara Ciavardoni raccolta da Francesca Stucchi

La mia infanzia è stato un peregrinare lungo i sentieri sconosciuti della malattia, che mi ha tolto l’uso delle gambe molto presto. Ma non mi sono arresa. Ad animarmi c’era una forte energia creativa e il grande amore della mia famiglia 

 

Dalla finestra della mia camera vedo cieli sconfinati, vividi orizzonti, sentieri di poesie e prati verdi da correrci a perdifiato. I colori si mescolano e mi sembra di scorgere, tra le nuvole, tinte nuove che nel mondo non esistono o forse non si vedono. Me ne piace una in particolare, che si espande a strisce intorno alla luna, un corposo impasto di rosa e grigio-blu, spruzzato d’argento, che ha la consistenza densa del dolore e il profumo celeste dei sogni. Resto sospesa dondolando su un’altalena tra fantasia e realtà, con il cuore carico di tensione, eppur leggero.

Amo la vita che mi ha tolto presto l’ingenuità, ne sento tutta l’imprevedibilità, l’imperfezione, la grandiosità. Amo il mio esile corpo che ha bisogno di uno strano marchingegno, progettato in chissà quale ospedale, per ricaricarsi. Amo il mio nome perché l’ha scelto per me il mio papà. E più di tutto amo la mia anima che vola libera a caccia di emozioni.

I miei genitori mi hanno amata ancor prima della mia nascita. Mia madre si stava curando per un tumore, quando scoprì di essere incinta. I medici le consigliarono di abortire, per poter continuare le cure e anche perché le radiazioni ricevute con le terapie avevano senz’altro provocato seri danni a quel minuscolo esserino che si stava formando nella sua pancia. La loro era una bella famiglia, avevano due ottimi lavori e un’adorabile bambina di otto anni. Portare avanti quella gravidanza avrebbe messo a rischio la vita di mia madre e la serenità familiare, ma i miei genitori coraggiosissimamente decisero di accogliermi, dando fiducia alla vita e accettando la prima delle tante sfide che ci avrebbe lanciato. Mentre i parenti giudicavano la loro folle scelta, mamma e papà accettavano tutto con dignità. Qualcuno dice che sono nata nella paura, io invece penso di essere nata nell’amore.

Nei giorni lieti di bimba strani sintomi iniziarono a comparire, facevo alcune cose in modo diverso dagli altri bambini, suscitandone a volte la curiosità, ma i miei genitori mi hanno sempre insegnato a non avere paura del mondo e il mio carattere forte e aperto mi ha aiutata a non isolarmi.

Con la crescita le mie condizioni di salute sono peggiorate. Ho camminato per l’ultima volta quando avevo otto anni, poi la rarissima malattia da cui sono affetta mi ha costretta a letto. Troppo piccola per capire, troppo sveglia per non rendermi conto che quella “complicazione”, come la chiamavano i medici, mi avrebbe sul serio complicato la vita.

Era solo l’inizio di un peregrinare lungo i sentieri sconosciuti della malattia. L’ospedale è stata la mia seconda casa per lungo tempo. Il tempo… questo ruvido compagno di viaggio che mi trascina rapidissimo dove vuole, facendomi crescere più in fretta degli altri e poi si arresta d’improvviso e mi lascia sola nelle notti infinite tra lacrime e pensieri, per poi ritornare a correre come un matto per le strade della vita. L’ho sempre seguito incredula, stanchissima, ma curiosa di scoprire dove mi avrebbe condotta.

Più diventavo debole, più mi stupivo di trovare dentro di me una forza sempre più grande. Dalla terza elementare non ho più potuto frequentare la scuola, nella mia cameretta però non ero sola, la mia famiglia era il mio mondo e i libri i miei migliori amici. Sono loro che mi hanno spalancato gli occhi e fatto scalpitare il cuore. Ne ho letti così tanti, di tutti i generi, mi sono immedesimata, sconcertata, entusiasmata. Pagina dopo pagina mi hanno sempre intrigata e fatto compagnia. Durante i ricoveri ospedalieri, nel silenzio di notti interminabili, io leggo. Non potrei immaginare una vita senza libri. A volte penso che c’è chi è fatto di carne ed ossa e chi di anima e storie.

Anche se non potevo prendere un treno o un aereo, comunque viaggiavo, animata da quella che oggi si chiamerebbe “wonderlust”, una prepotente voglia di conoscere, di esplorare e di spingermi sempre un po’ più in là.

Quando passi la vita in un letto è facile sprecarla. I miei non me l’hanno permesso. Hanno cercato in tutti i modi di aiutarmi ad esprimere la mia energia creativa e allora dipingevo e, quando i dottori mi dissero che non potevo più dipingere, mi sono dedicata alla fotografia. Ho frequentato corsi e imparato a creare immagini artistiche, che rappresentavano i miei sogni, mondi immaginari popolati da creature fantastiche, libri, fiori, colori, che si muovevano al ritmo delle stagioni e delle emozioni.

La mia infanzia è stata un susseguirsi di visite mediche, interventi, attese, convalescenze. Dalla Puglia ci siamo trasferiti in Emilia Romagna, dove i medici hanno potuto studiare la malattia e sperimentare piani di cura e terapie per farmi stare meglio. E’ stato un grande cambiamento per tutti, ma mi sono sempre fidata, nel saliscendi di miglioramenti e ricadute ho tenuto duro, sostenuta dall’amore immenso della mia famiglia.

Ho frequentato le scuole medie in un istituto di periferia. Ero stata via tanto tempo ed ero fuori dal gruppo. Non potevo partecipare alle lezioni, mi preparavo da casa, ma ogni tanto gli insegnanti organizzavano attività in cui mi coinvolgevano direttamente. Mi sembrava che gli altri ragazzi fossero così diversi da me, la maggior parte per problemi sociali o difficoltà economiche non considerava lo studio una priorità, alcuni erano già fidanzati e avevano fatto un sacco di esperienze. Io ero una “secchiona” e a soli dodici anni avevo letto più libri di quanti ne avrebbero mai letti loro in tutta la vita. Farmi accettare non sarebbe stata una passeggiata e ancor più complicato sarebbe stato per me integrarmi con loro.

Un giorno la Professoressa Baldo mi chiamò a scuola per una ricerca per la festa della donna. Quando ci disse di dividerci a gruppi, mi guardai attorno sperando che qualcuno si avvicinasse a me, ma tutti sfuggivano il mio sguardo e posizionavano altrove la loro sedia. Un nodo in gola, “non devi piangere Sara, resta calma”, dicevo tra me. Mi voltai indietro verso il fondo dell’aula e Tony, il bulletto di due anni più grande di noi, che di essere un veterano della prima media si faceva un vanto e che tutti temevano e rispettavano come un capo branco, non abbassò lo sguardo. Sorrisi e in un attimo, bello e spavaldo, mi raggiunse posizionando la sua sedia accanto a me. Una chiara dimostrazione che stava dalla mia parte e questo di colpo ribaltò la mia posizione tra i compagni. La sua era stata di sicuro una scelta di convenienza, sapeva che avrei fatto io il lavoro e si sarebbe guadagnato un ottimo voto senza il minimo sforzo, ma averlo accanto mi faceva sentire al sicuro. Ci conoscemmo così, non era facile comunicare, perché parlava in dialetto ed io non capivo una parola, però veniva spesso a trovarmi al pomeriggio, guardava con ammirazione le mie creazioni fotografiche, facevamo merenda e lo aiutavo nei compiti. Aveva sfondato un muro di pregiudizi e aperto un varco di normalità tra i nostri due mondi diversi, eppure così simili nel bisogno di essere accolti e accettati così come siamo.

Per l’estate la Prof. Baldo ritenne di non darmi i classici compiti delle vacanze, visto che avrei dovuto tornare a Rimini per un intervento al midollo e mi attendevano mesi pieni di sofferenza. Mi diede un unico compito: creare un blog, una specie di diario online in cui avrei raccolto i miei pensieri, i racconti, le recensioni dei libri, le fotografie, insomma un posto in cui sistemare i frutti della mia creatività, perché non andassero persi.  Ho cominciato così ad aprirmi ad un mondo che non conoscevo e grazie ai social, su cui parlavo di libri e poi anche della mia vita personale, ho raggiunto il cuore di tante persone, che si sono ritrovate nella mia testimonianza profonda e lieve e hanno cominciato a seguirmi e a circondarmi d’affetto.

La malattia però mi dava filo da torcere, non riuscivo più nemmeno a stare seduta. Dopo le medie, mi sono iscritta ad un liceo scientifico a Viareggio, non lontano dall’ospedale di Firenze dove un’equipe medica mi avrebbe seguita. Avevo diciassette anni quando mi prospettarono la possibilità di un impianto biomedico sperimentale, che avrei effettuato al Gaslini di Genova. Non sapevo a cosa andassi incontro, ero la prima ragazza a cui lo, ma ho voluto accettare la sfida. Si ipotizzava un ricovero di due settimane, che invece diventarono cinque mesi.

Io e la mia mamma abbiamo sempre lottato insieme, unite, con la grazia e la grinta che ci accomunano.

Sbattuta in una centrifuga di tormenti e paure, ho iniziato a scrivere una storia. Lucia, che i genitori chiamavano Luce, si è affacciata timida alla mia mente, mi ha presa per mano e mi ha accompagnata nel percorso di presa di coscienza di quello che mi stava accadendo. Luce è una ragazza che scrive, proprio come me, ed è stata il lumicino che giorno e notte è rimasto acceso nel mio buio, il faro che non mi ha fatto perdere la rotta nel mare in burrasca.

Le giornate s’accorciavano, fui dimessa con tanti dubbi e incertezze, ma il mio cuore palpitava di gioia, la storia che avevo scritto era diventata un romanzo! La pubblicazione del libro è arrivata come una ventata di aria fresca e mi ha permesso di entrare in contatto con tante persone e con le loro storie. Una in particolare mi ha toccato il cuore e mi ha dato l’ispirazione per un nuovo romanzo.

È nato così “Sono ancora qui”, il viaggio inaspettato di una ragazza che non sa comprendere la realtà, ma non rinuncia a viverla con tutta se stessa.

Ed io come Milena, la protagonista, sono ancora qui con i miei sogni giganti, che a volte mi sembrano ancora così irraggiungibili.

Gli ultimi due anni delle superiori sono stati intensissimi, pieni di emozioni. Ho trovato nuovi amici, in particolare Francesco, un ragazzo con un’intelligenza e una sensibilità straordinarie, che mi è stato vicino in tutti i momenti, quelli difficili e quelli belli, fino alla maturità. Un giorno mi disse che si sarebbe iscritto a ingegneria biomedica, “così troverò un modo per farti stare meglio”. Le sue parole mi fecero esplodere il cuore come un fuoco d’artificio. Ci aveva pensato prima che ci pensassi io. Mi sono iscritta anch’io alla stessa facoltà e, anche se sono tornata in Puglia, ci teniamo in contatto e ci vediamo ogni volta che possiamo. È la persona più capace di comprende le profondità del mio animo, quelle con cui anch’io faccio fatica ad entrare in contatto.

La malattia è imprevedibile, come la vita del resto, ma sto imparando a fidarmi di me, ad adattarmi volta per volta alle nuove situazioni per affrontarle al meglio. Vivo la notte più che il giorno, perché nell’oscurità riesco a splendere come una stella. Amo la vita in tutte le sue forme e la vivo a modo mio. Mi sento diversa, lo ammetto, non tanto per la mia disabilità, quanto piuttosto per il modo scoppiettante di affrontare le sfide che mi vengono messe davanti continuamente. Faccio il tifo per gli ultimi, non perché poi saranno primi, ma perché mi sento una di loro e mi piace quando ci incontriamo negli angoli in ombra di viette sconosciute, con il nostro bisogno di raccontarci e confortarci. È proprio in questa oscurità che i nostri occhi sprigionano scintille di speranza.

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