Con le mani nel fango

Mondo
Ascolta la storia

La storia vera di Paola Foppiani, scultrice, è la più votata per il n. 5 di Confidenze. Ora la puoi leggere qui

Sono una scultrice e l’arte mi ha salvato, aiutandomi a superare il trauma di una madre violenta e poi la difficoltà di crescere una figlia da sola. Grazie alle mie opere, che esprimono paure e desideri, sono rinata

Storia vera di Paola Foppiani raccolta da Alina Rizzi

 

Io sono la mia scultura. Io sono quei personaggi, quelle forme, quegli oggetti che vedete. Io sento assieme a loro, in loro, il dolore, il piacere, la gioia, la speranza, il modo di vivere. E i diversi titoli delle mie opere confermano questo aspetto.

Ho cominciato a mettere letteralmente le mani nel fango nel 2002 e non ho più smesso. Mi ha aiutato tanto a superare le crisi della mia vita. Che sono iniziate già nell’infanzia. Ero una bimba vivace, come tutte, con tanta voglia di giocare, di correre, di scoprire. E mio padre, anche lui artista, grande pittore e poeta, era dolce e premuroso ma purtroppo anche succube di mia madre che, poveretta, non stava bene, soffriva di crisi depressive e capisco oggi quanto anche lei deve aver sofferto. Però la conseguenza di tutto ciò è che diventava spesso violenta e picchiava me e mio fratello ogni volta che la facevamo arrabbiare.

Quelle botte io le ricordo bene e me le sono portate dietro nella mia vita, ricordandomi vittima di violenze tutto sommato ingiustificate ed esagerate, che oggi sarebbero inammissibili. Per esempio venivo picchiata perché mangiavo poco, ma forse ero inappetente proprio perché vivevo questo disagio profondo con mia madre. Oppure venivo picchiata se non sparivo in fretta dopo il pranzo: mia madre non ci voleva attorno, dovevamo andarcene a giocare in giardino o in strada, ma sparire fino a sera e lasciarla in pace. So che erano altri tempi, tante persone alzavano le mani sui bambini indisciplinati, anche se questo non è mai giusto e provoca ferite durature, che allora rielaboravo inventando poesie dentro di me, che facevano parte di un mondo fantastico e immaginario in cui cercavo rifugio e protezione. Oppure, in quei pomeriggi degli anni 60, andavo a cercare compagnia dalle prostitute, che aspettavano i clienti sedute fuori di casa, ed erano dolci e simpatiche, disposte a quell’affetto minimo di cui un bambino ha bisogno. Tante di loro poi sono diventate di ispirazione per le mie sculture femminili e le ricordo con affetto sincero.  Ma non poteva durare a lungo. La gente mi chiedeva dei lividi che avevo addosso e io nascondevo tutto, dicevo che ero caduta oppure indossavo sempre maniche lunghe. Un bambino tende a giustificare sempre il genitore violento, anche se gli procura dolore e un trauma difficile da superare.

Ad un certo punto, crescendo, mi sono sentita soffocare da questa madre ingombrante e violenta. Io volevo andare, divertirmi, vedere il mondo, non essere comandata a bacchetta come un soldatino. Insultata e picchiata. E così ho preso il largo, ho fatto le mie esperienze conoscendo nuove persone, nuovi luoghi. Mi sono innamorata, sono rimasta incinta e a soli 19 anni ho partorito una bellissima bambina, Martina. L’ho amata immensamente, perché era frutto di un amore vero e quindi voluta e desiderata. E poi ero così contenta di portare a casa da mia madre questo piccolo perfetto trofeo. Avrei voluto dirle: “Guarda mamma cosa ho fatto, io, quella che disprezzavi. Guarda quanto sono stata brava. Ho fatto una bambina meravigliosa tutta da sola”. Credo sia un atteggiamento normale. in una ragazza che ha subito violenze, volersi riscattarsi agli occhi dei genitori. Ancora oggi scolpisco figure grasse che rappresentano la madre, quella donna che ho tanto cercato e desiderato, senza raggiungerla mai.

Ma figuriamoci se poteva funzionare: sono stata criticata molto per mia figlia e quindi mi è stato negato quel minimo di aiuto di cui una ragazzina appena diventata madre ha bisogno per farcela. Ho iniziato ad essere triste, arrabbiata, insofferente. Con questa bimba al collo come potevo vivere, uscire, ritrovare gli amici, il mio mondo di ragazza? La cosa peggiore, e mi vergogno a raccontarlo ma è necessario, è che i genitori insegnano con l’esempio ed io da mia madre avevo imparato solo le botte. Così quando non ce la facevo più me la prendevo con Martina e la punivo come ero stata punita io. Poi mi disprezzavo per questi gesti, mi odiavo, ma avevo dentro un istinto malsano che mi aveva trasmesso quella donna che non volevo più chiamare mamma, perché non lo era più dopo tutto quel dolore, dopo avermi mostrato il peggio di lei.

Col tempo sono riuscita a parlare con mia figlia, a spiegarle, a chiederle perdono tante e tante volte, ma non so se potrà mai farlo. E’ ancora spesso arrabbiata con me e la capisco. Ma io davvero non ce la facevo ad essere la madre giusta per lei, mentre la crescevo da sola, facendo ogni genere di lavoro, dopo aver lasciato mio marito, suo padre, perché faceva uso di droghe e si era ammalato di AIDS. Mi sentivo cattiva anche verso di lui, ma non potevo rischiare che io o mia figlia prendessimo la sua stessa malattia. Dovevo proteggere la mia bambina, ma anche salvare me stessa.

Così me ne sono andata lasciando tutto a lui, la casa, gli oggetti. Senza prendere soldi, quando l’avvocato mi diceva che ne avevo diritto. No, io non volevo portare via nulla, mi sentivo cattiva in quel momento. Ma l’istinto di sopravvivenza era più forte. Ho fatto la scelta giusta? Chi lo sa. Ho tentato di aiutarlo e di salvarlo in tutti i modi, sprofondando nella sindrome della crocerossina, ma mio marito alla fine è morto a causa di quella tremenda malattia, e noi ci siamo ricostruite in qualche modo, con tutti i miei sbagli, la fatica. Mia madre pur non capendomi e non volendomi in casa con lei, mi ha aiutata comprandomi un appartamentino e badando alla bambina mentre lavoravo e di questo le sono grata ancora oggi, nonostante lei neghi nella maniera più assoluta di avermi mai picchiata e di essere la causa dei miei traumi, o dei conseguenti conflitti tra me e mia figlia. Allora facevo lunghe passeggiate nei prati, verso una chiesetta, dove pregavo a lungo e trovavo calma e conforto. Poi andavo a lavorare in una casa per anziani, facevo turni di notte e di giorno, curando da sola tantissimi ricoverati, sfiancandomi ma dimostrando orgogliosamente che potevo farcela da sola, senza l’aiuto di nessuno, nemmeno di mio marito che, finché era vivo, ha fatto di tutto per mettermi il bastone tra le ruote, non accettando il mio abbandono. E quindi cercando di portarmi via Martina, mandando l’assistente sociale a casa, prendendo un avvocato.

Ma io sono andata avanti. Ho cambiato casa, ho preso un cane e mi sono ricostruita come madre single, con determinazione e orgogliosamente. Ho iniziato a lavorare l’argilla in una scuola per bambini ed è stato fantastico. Così ho ripreso il liceo, mai finito, in un istituto privato. La scultura mi ammaliava. Mi sono trovata una stanza fuori casa, un buchetto, dove poter lavorare e concentrarmi. Ho capito che la vita non era solo lavoro e sofferenza, ma era anche arte. Potevo rinascere. Nel frattempo ho avuto dei fidanzati, per un bisogno di sostegno psicologico e per tentare di dare un padre a mia figlia, credendo ne avesse bisogno, ma non sono le premesse giuste per trovare un vero amore. Quindi sono storie finite male e Martina è cresciuta molto indipendente, badando a se stessa mentre andavo a lavorare per mantenerci, e stando alla larga dai brutti giri che frequentava suo padre e che io non le ho mai nascosto.

Poi ho conosciuto il mio attuale marito. Dal 2002 ho potuto dedicarmi alla mia arte con più tempo e impegno e mi sono sentita rinascere attraverso le mei opere, che mettevano in scena paure, traumi, timori e desideri. Ho iniziato a fare mostre e il mio lavoro è stato apprezzato. Mi sono sentita accolta. Oggi ho un mio laboratorio qui a Piacenza, lavoro molto. Mia figlia, pur avendo subito dei traumi, è una donna forte, madre di due splendidi bambini, i miei amati nipoti. E se avrà bisogno di me, io per lei ci sarò sempre, a qualunque costo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Confidenze