storia vera di Maria Alessia G. raccolta da Alessandra Mazzara
Abbracciai mamma e papà, piena di gratitudine.
«Ti ospiterà nonna Rita. È felicissima di averti in casa con lei. Questo viaggio, Ally» continuò mamma, «è sicuramente un premio, ma anche una prova di maturità. Il tuo primo viaggio da sola».
Lasciai la Lombardia in un uggioso mattino di fine luglio, un trolley rosa e l’adrenalina a mille come uniche compagne di viaggio. Palermo mi diede il benvenuto con lo scirocco e un sole che mi accecò non appena scesa dall’aereo. Raccolto il bagaglio, presi il pullman che mi avrebbe portato al paese natìo di mio padre e dove ancora viveva parte della sua famiglia d’origine: nonna Rita, appunto, e la sorella minore di papà con il marito e la figlia Clara. Arrivai a San Vito Lo Capo nel primo pomeriggio. Il mare era di una bellezza quasi imbarazzante.
Alla fermata del pullman, una Clara ancor più elettrizzata di me. Al vedermi scendere giù, cominciò a saltellare e a battere festosa le mani.
«Non ci posso credere, Ally, un mese intero insieme!».
Indossava un paio di shorts di jeans e una canotta bianca striminzita che metteva in risalto una perfetta abbronzatura. Di un anno più grande di me, lavorava come parrucchiera in un salone di bellezza.
Ci abbracciammo. Clara odorava di cocco. Io, invece, puzzavo di pullman.
«Dai, sali in macchina. Abbiamo un sacco di cose da fare. Per prima cosa…».
«Cla, ti prego» la interruppi prendendo posto, «qualsiasi cosa tu abbia in mente, prima devo urgentemente fare una doccia e togliermi questo fetore di dosso».
Nonna ci aspettava sulla soglia di casa sua, lungo la via Santuario, stretta nel suo grembiule a fiori blu.
«Nonna!».
Spalancò le braccia e io mi ci tuffai dentro.
«Ben ritrovata, Maria Alessia». Lei era l’unica della famiglia a chiamarmi sempre con il mio nome completo e mai con il diminutivo, Ally, come facevano da sempre tutti. «Entra, che ti ho preparato un sacco di cose buone da mangiare. Clara, vieni pure tu».
La cucina di nonna era un miscuglio di odori e aromi.
«Sistema le tue cose e poi torna qua, nel frattempo io apparecchio» cominciò nonna, neanche il tempo di entrare. «Per pranzo ti ho fatto una bella insalata di polpo e pure…».
«Nonna», la interruppe Clara, «Ally è qui per rilassarsi, non per trasformarsi in una balena».
«E chi la vuole trasformare in una balena?».
«Tu, se la riempi di cibo».
«Ma smettila».
Nonna esprimeva il suo amore per la famiglia cucinando quantità incredibili di cibo. Amore e cibo, per nonna Rita, erano la stessa cosa. L’abbracciai, poggiando la mia testa sulla sua spalla.
«Grazie, nonnina, per tutto. Il profumino è delizioso, ma prima vorrei fare una doccia. Dopo, ti prometto che mangerò tutto, anche perché ho fame».
Clara mi guardò sbalordita. «Cioè, mi stai dicendo che non vieni adesso con me al mare?».
«Ma quale mare e mare?» intervenne nonna. «Anzi, resta a pranzo pure tu».
Clara fece una smorfia di disappunto «Neanche per sogno. Ally, ti passo a prendere alle cinque?».
Guardai l’orologio. Erano appena le tre del pomeriggio. «Facciamo alle sei?». Clara sbuffò. «Come vuoi». Poi sollevò il lembo di un tovagliolo posto su un piatto da portata, scoprendo una caponata dall’aspetto pazzesco. «E va bene, nonna. Resto a pranzo». Nonna sorrise soddisfatta. «A una condizione, però: le porzioni le faccio io. Tu, col cucchiaio in mano, puoi essere davvero pericolosa».
Lasciammo nonna seduta a guardare una replica de La signora in giallo e ci precipitammo in spiaggia sotto quel sole che non ne voleva sapere di scendere, addosso soltanto uno striminzito bikini di quelli che solo a quell’età puoi permetterti, una bottiglietta d’acqua, un telo e un libro. Del resto, quando hai meno di 20 anni e sei circondata dal mare, di cos’altro hai bisogno?
Arrivammo in spiaggia e ci tuffammo in acqua. Ci rilassammo, fino a che il sole finalmente si stancò e si preparò per andare a dormire, regalandoci un cielo rosso, viola, rosa e indaco. Con Clara due ombrelloni più in là a chiacchierare con una cliente del salone, me ne stavo sdraiata a faccia in su sul mio telo, immersa tra le pagine di un romanzo, quando una pallonata mi colpì all’improvviso, facendo volare via il libro.
«Scusate, un po’ di attenzione!» protestai verso qualcuno che si stava avvicinando e che non riuscivo a mettere a fuoco per via dei raggi del sole che rendevano la figura evanescente.
«Scusa, è colpa del mio amico, si crede Shiro, ma in realtà è una vera schiappa».
Mi misi a sedere e con la mano destra poggiata sulla fronte a mo’ di schermo riuscii a focalizzare e a dare un volto e un corpo a quella voce.
E che corpo.
E che voce.
Restai in silenzio, paralizzata da tanta bellezza.
«Shiro, sai. Quello di Mila&Shiro, il cartone animato» si sentì obbligato a dare una spiegazione il ragazzo che mi stava davanti, interpretando la mia espressione trasognata per incomprensione.
«Certo. No… non fa nulla, non mi sono fatta male».
Il ragazzo recuperò la palla, finita a pochi centimetri dal mio telo. Poi, con quella sotto braccio, andò a recuperare anche il mio libro.
«Questo deve essere tuo».
«Grazie» fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Era bellissimo. Alto, pelle dorata dal sole, capelli castani, occhi grandi e azzurri come quel cielo e quel mare.
«Di nulla. E scusa ancora per la pallonata».
Mi sorrise e nel mio stomaco uno sciame di farfalle cominciò a battere le ali. Con lo sguardo lo seguii fino alla rete di pallavolo, ai margini del litorale. Lui si voltò verso di me ancora una volta e mi sorrise. Poi corse fino al suo gruppo di amici e riprese la partita.
«Ally, ma chi era quel gran super mega figo con cui parlavi?».
Cercai di ricompormi. Clara aveva visto tutto e ora era tornata alla base, curiosa.
«Un tizio che ha recuperato la palla finita qui da me per sbaglio» dissi fingendo una noncuranza che, in realtà, non avevo.
«Wow. Ma lo hai visto?».
Stavo quasi male al solo ricordo di quel sorriso, ma cercai di non scompormi. «Sì».
«No, ma, dico, lo hai visto bene?».
«Carino» minimizzai.
«Solo carino? Lo hai visto come si è rigirato per guardarti?».
Eccome, se lo avevo visto. E quel suo sorriso illuminato di sbieco dai raggi rossi del sole aveva interrotto per un attimo i battiti del mio cuore. Con le mani che tremavano leggermente per l’emozione ripresi il libro, mi sdraiai nuovamente e finsi disinteresse.
«E se ci unissimo a loro? Alla partita, intendo?».
«Scordatelo».
«Dai!». Clara sbuffò. «Che noia che sei, fattelo dire. Fosse venuta con me nonna in spiaggia, mi sarei divertita di più».
Arresa, si sdraiò sul suo telo. «Ma tanto San Vito è piccola. Vedrai, lo rincontreremo. E questa volta non potrai nasconderti dietro a nessun libro».
Suonò quasi una come una profezia. Quella sera dopo cena, infatti, mentre sedevamo a un tavolino di uno dei tantissimi bar del lungomare, lo vidi con la coda dell’occhio avvicinarsi a noi, camicia bianca con le maniche arrotolate su un bermuda blu scuro, cocktail in mano e quel dannato sorriso.
Di colpo, le farfalle si risvegliarono.
«Tu devi essere quella della pallonata».
Sorrisi. Sentii il sangue affluire al viso e le mani sudare.
«Sì, è lei. Io, invece, sono sua cugina, Clara. Sei solo? Perché non ti siedi con noi? Siamo appena arrivate». La fulminai con lo sguardo.
«In realtà sono con i miei amici, quelli laggiù».
«Capisco. Se non è un disturbo potremmo unirci noi a voi». Tirai a Clara un calcio sotto il tavolino, mancandola e andando a sbattere contro la sua sedia di paglia.
«Con piacere. Sempre se “la ragazza della palla” che è con te e di cui non so ancora il nome è d’accordo».
Se la potenza degli sguardi potesse uccidere, sarei morta in quel preciso istante, fulminata da quei due occhi fatti di cielo e mare.
«Mi chiamo Ally» risposi invece.
Mi allungò una mano. «Io sono Gianni. Ally?».
«Sì. Sta per Alessia. Maria Alessia, a voler essere precisi».
«Vada per Ally. Allora, andiamo?» disse, infine, sorridendomi. Mi alzai sulle gambe che tremavano e lo seguii. Mi presentò ai suoi amici, poi prese una delle sedie vuote all’altro tavolo e mi fece sedere accanto a lui. Clara aveva già attaccato bottone con uno del gruppo, dimenticandosi completamente di me.
«Non sembri di queste parti, Ally».
Il suo sguardo su di me era irresistibile. Gli occhi, la voce, il modo in cui mi guardava e quello con cui muoveva le mani, tutto di Gianni mi toglieva il fiato.
«Abito a Brescia. Ma mio padre è nato e cresciuto qui».
«Quindi conosci già San Vito?».
«Sì. Era la meta estiva delle vacanze di quando ero bambina. Erano anni che non tornavo. Come regalo per il diploma, i miei mi hanno regalato un mese intero qui, ospite di nonna».
«Benedetto diploma, allora». Lo disse guardandomi negli occhi così profondamente da annebbiarmi il cervello. «Ti andrebbe una passeggiata in riva al mare?» mi chiese poi.
Ne avevo già avute di storie, di ore ad aspettare una telefonata, uno squillo al cellulare, un messaggino, di incontri leggeri fatti di qualche bacio e niente più. Sapevo cosa significasse innamorarsi o almeno pensavo di saperlo. Eppure, con Gianni fu come se le mie piccole e prime esperienze perdessero valore dinanzi all’emozione che quel ragazzo, con la sola potenza dello sguardo, riusciva a farmi provare.
Accettai.
Avrei raggiunto Clara al bar dopo la passeggiata e insieme saremmo tornate a casa. Raggiunto il litorale, togliemmo le scarpe e a piedi nudi ci incamminammo verso la riva. La sabbia era fresca e mi solleticava la pelle. Il mare, invece, era calmo e arrivava al bagnasciuga in piccolissime onde pigre. Il suo rumore era lento, il profumo salmastro pizzicava le narici. C’era molto movimento in spiaggia, in quella sera dal cielo puntellato di stelle e il vento di libeccio a smuovere i capelli.
«Tu vivi qui?» chiesi a Gianni.
«In realtà, no. O, meglio, i miei sì. Sono al terzo anno di Economia a Palermo. Sogno di aprire un albergo tutto mio, mi piacerebbe molto lavorare nel settore turistico. Tu, invece? Che progetti hai?».
«Se supererò i test, inizierò Medicina a Milano».
«Sogni in grande anche tu, quindi».
Sorrisi. «È il mio desiderio fin da bambina».
«Pensa che io da piccolo volevo fare il parcheggiatore abusivo!».
Scoppiai a ridere. Gianni sorrise, poi improvvisamente mi prese una mano e me la strinse, continuando a camminare. Troppo prematuro? Sicuramente sì.
Mi importava che lo fosse?
Decisamente no. Mano nella mano, continuammo a percorrere a piedi nudi il litorale, chiacchierando su tutto e su niente, ridendo e prendendoci in giro, mentre l’acqua ci bagnava i piedi. Quando arrivò il momento di raggiungere gli altri, ci asciugammo alla meno peggio con la sabbia asciutta, appoggiati al muretto di pietra.
«Domenica sera faremo un falò qui in spiaggia. Roba tranquilla, una pizza, due birre e una chitarra. Ti va di unirti a noi? Puoi dirlo anche a Clara».
Me lo disse mentre m’infilavo le sneakers seduta su quel muretto, lottando contro l’orlo umidiccio del mio vestitino bianco. Alzai lo sguardo. Gianni mi sorrideva, le mani sprofondate nelle tasche dei bermuda blu.
«Perché no?» dissi, ricambiando il sorriso. «Non sono mai stata a un falò».
«Sarà divertente, vedrai» Gianni mi strinse una mano. E io lo lasciai fare, un passo dietro l’altro verso il bar, con una naturalezza che mi sorprendeva e alla quale non riuscii a opporre la minima resistenza.
La sera del falò segnò l’inizio della nostra storia. Complici il cielo blu, le stelle, il rumore del mare spinto dalla tramontana, le note della chitarra, il bagno di mezzanotte circondati dal buio, i volti illuminati dalla luna e dalla luce delle fiamme, con gli occhi io e Gianni non smettemmo di cercarci un attimo, fino a che non si avvicinò a me, mi offrì una mano, l’afferrai e mi alzai e ci allontanammo, ancora una volta, verso il bagnasciuga, lasciandoci alle spalle le voci in coro stonate dei nostri amici e una canzone dei Dire Straits strimpellata alla chitarra. Fu tutto così veloce, frettoloso. Ci baciammo, ci cercammo con le mani e la bocca e i pensieri e il desiderio di far durare ancora, ancora e ancora quell’attimo di libertà, di voglia e di giovinezza, nascosti da una roccia, bagnati dalle onde del mare, i nostri vestiti ammucchiati in un angolino, pieni di sabbia e bagnati tanto da non poterli più indossare, mentre i nostri corpi si univano con l’adolescenziale e immatura certezza di non separarsi più.
«Non andare via, Ally. Resta qui con me». Gianni me lo disse con la voce che tremava, le mani sempre affondate nelle tasche dei suoi bermuda, mentre io stringevo il mio trolley pieno di costumi stropicciati e di un’estate ormai finita, immobile, stordita da tutto quello che era stato, da chi eravamo stati insieme, dalle cose dette, dai baci, dalle mani che, affamate l’uno dell’altra, per un mese intero non avevano mai smesso di toccarsi.
Lo lasciai.
Lo lasciai perché avevo 19 anni.
Lo lasciai perché quando raccontai tutto a nonna lei mi disse: «Tu lassù e lui quaggiù, quanto pensi che possa andare avanti? Sei ancora giovane, pensa a realizzarti. Per tutto il resto, ci sarà tempo».
Lo lasciai perché non ero ancora pronta per quell’amore.
Lo lasciai perché mi spaventava chi ero capace di essere io con lui.
Lo lasciai perché il suo amore io non lo capivo.
Lo lasciai perché tutto quello che c’era stato era troppo grande, troppo ingombrante, troppo forte, per me.
Tornai in Lombardia. Superai i test. Iniziai la facoltà di Medicina e chirurgia a Milano. Mi laureai col massimo dei voti, poi iniziai la specializzazione in Cardiologia. Mi specializzai. Iniziai a lavorare in ospedale.
Aprii anche uno studio privato nel cuore di Milano. Nel frattempo, tra un turno di lavoro e l’altro, passai da una storia all’altra, incapace di impegnarmi. Ero fredda, scostante, sempre troppo impegnata. E mi lasciavano tutti.
«Non sei capace di amare, Ally» mi disse Luca, la mia storia più lunga, una convivenza di tre anni.
Non sapevo amare?
Forse. Era il perché lo volessi ma non ci riuscissi, che non capivo. Poi, una ditta di pace maker organizzò un convegno di cardiologi ed elettrofisiologi cui io avrei partecipato come medico relatore.
Era la primavera del 2024. Era fine maggio.
E io avevo 43 anni. Alle spalle, una carriera invidiabile, la stima di un intero reparto e una vita sentimentale disastrosa. Quando lessi il programma del convegno, mi si fermò il cuore: tre giorni in Sicilia, in uno degli alberghi più eleganti di San Vito Lo Capo.
Chiamai Clara, che nel frattempo, a differenza di me, aveva messo la testa a posto, si era sposata ed era mamma di due bambini. Quando le dissi il nome dell’hotel, Clara fu enigmatica.
«Cugina mia, preparati ad un ritorno al passato».
Non chiesi spiegazioni. Riattaccai, feci le valigie, partii in compagnia dei miei colleghi.
L’hotel era davvero bello, con camere con vista mare da mozzare il fiato e dotate di ogni confort. Nella sala convegni, parlai di occlusione cronica coronarica con competenza e sicurezza, davanti a una platea di colleghi venuti da ogni parte di Italia. La terza e ultima sera, mentre raccoglievo i miei appunti, una voce mi chiamò.
«Ally».
Lo riconobbi subito, ancora prima di alzare su di lui lo sguardo. Gianni era là, in giacca e cravatta. Davanti a me. Che il tempo fosse passato, era visibile sui capelli, leggermente brizzolati. Ma quant’era bello, ancora. Non dissi nulla, nuovamente paralizzata da quella sua presenza per me magnetica. E di nuovo, dopo tanti anni, lo sciame di farfalle si liberò nel mio stomaco.
«Proprio strano, a volte, il destino».
Era il suo albergo, quello. Il suo sogno nel cassetto diventato realtà.
Quella sera, cenammo in un ristorante in riva al mare, accompagnati da un quarto di luna e dal gracchiare dei grilli e dei gabbiani.
Mi raccontò del suo matrimonio. Del divorzio, cinque anni dopo. Non aveva figli. Io gli raccontai del mio lavoro. I nostri occhi, lontani per 24 anni, si erano ritrovati e ora non smettevano di cercarsi.
Di casa sua, una villetta a due piani poco lontana dall’hotel, non vidi nulla. Solo le scale che ci condussero in camera, poi un letto, dei cuscini. E niente più. La mattina dopo, persi l’aereo. Restammo a letto un giorno e una notte interi, avidi del nostro odore, del tocco della nostra pelle. Lo amai come mai avevo fatto con gli altri. Ne ero capace. Era Gianni che mi mancava. Gli altri, solo copie sbiadite.
«E adesso, Ally?». Le mani affondate nelle tasche dei jeans, io con il manico del trolley stretto tra le mani in attesa del volo. Tornai in Lombardia. Chiesi un trasferimento. Lo ottenni sei mesi dopo. Impacchettai la mia vita e la infilai in una valigia. Salii su un aereo, allacciai la cintura e lasciai che mi portasse indietro nel tempo e verso un futuro ancora tutto da vivere. L’atterraggio è un po’ ballerino, date le condizioni meteo non proprio ottimali. È la fine di febbraio, in Sicilia piove da settimane e la tramontana non dà tregua.
«Ben tornata, amore mio». Gianni prende la mia valigia, mi cinge la spalla in un abbraccio e insieme ci avviamo verso casa. La nostra casa. Dove inizieremo una nuova vita. La nostra vita. In un tempo lungo, ma paziente, capace di separarci e di farci incontrare ancora, come se, in realtà, non fosse mai davvero passato.●
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