Leggendo la storia di Rebecca Kardashian, una transgender che si racconta nel numero in edicola di Confidenze, mi è riaffiorato il ricordo di un incontro di quasi dieci anni fa.
Mi trovavo in una cittadina di montagna (non dirò quale perché la persona di cui parlo non venga riconosciuta), e stavo passeggiando con uno dei miei cani di allora, Lulù, nella via principale.
Lulù era già vecchiotta e, a un certo punto, ho pensato di farla riposare. Mi sono seduta su una panchina lungo il corso, con lei accucciata ai miei piedi, e la accarezzavo un po’ triste ripensando a quando la mia cagnolona aveva una vitalità inesauribile.
«Io so perché lei è triste», mi ha detto una signora sui sessant’anni della cui presenza sulla panchina non mi ero per nulla accorta. «Anch’io non so cosa farò quando non ci sarà più la mia cagnolina. La compagna silenziosa delle mie attese, della mia vita segreta…».
Una donna dolce, quasi materna. Un po’ in sovrappeso, vestita sobriamente con la quale è stato facile parlare da subito persino per me che, di solito, sono troppo timida per socializzare con sconosciuti. Dopo la sua premessa, è venuto naturale che mi spiegasse di questa sua vita segreta e di quelle attese.
La prima sorpresa è stato scoprire che non le pesavano affatto perché, da più di vent’anni, lei era l’amante di un noto professionista di una grande città. Dunque, quella era la vita che lei si era scelta con la piena consapevolezza che doveva restare nell’ombra più assoluta e che lui, mai e poi mai, avrebbe potuto lasciare la moglie per lei.
«Ma perché, mi scusi. È proprio vero che gli uomini sono tutti egoisti…», ho ribattuto io. Da qui la seconda sorpresa.
«Oh no, non dica così. Lui mi ha dato una dignità invece. Mi ha dato una casa, dove appena può viene a trovarmi. Mi ha dato una famiglia, anche se segreta. Mi ha protetta. E, soprattutto, lui mi ama da vent’anni. Non potrei mai nuocergli… Cosa ne sarebbe della sua reputazione se si sapesse che ha una vita parallela con un trans?».
Confesso che a quell’ammissione ho pensato che la signora fosse un po’ mitomane. O che fosse davvero troppo sola perché mai avrei detto che fosse una donna imprigionata nel corpo di un uomo. Troppo femminile, troppo materna. Ma mi sono ricreduta subito, ascoltandola raccontare il suo profondo dolore di ragazza e poi di donna. La sua fatica a non perdersi nella discriminazione e infine, finalmente, il riconoscimento di sé attraverso l’amore di quest’uomo.
D’altronde, mi diceva uno psichiatra che le stime di suicidio nei disturbi di genere sessuale sono impressionanti, soprattutto in età adolescenziale. E che sono ancora pochi i transgender che riescono ad affrancarsi dai pregiudizi e a integrarsi in una vita sociale regolare.
L’aiuto resta l’ascolto. Insieme all’accoglienza e all’autentico rispetto di chi riteniamo “diverso”.
A proposito, la foto che vedete di fianco al titolo è quella di Christine Jorgensen, all’anagrafe George W. Jorgenson, primo transessuale a fare l’operazione di cambiamento di sesso nel 1952.
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