Ho passato la mia infanzia all’aria aperta, tra campi e rogge, l’adolescenza a leggere di animali, piante ed ecologia, all’università mi sono laureato in Scienze Naturali e in seguito mi sono dedicato completamente alla naturopatia, conseguendo anche un master in questa disciplina. La natura, in definitiva, è stata una costante per tutta la mia vita.
Sarà anche per questo che ho un sussulto ogniqualvolta il termine “naturale” viene usato a sproposito, come fa in primo luogo certo marketing pubblicitario, per far presa sui consumatori e contrabbandare per genuini prodotti che di naturale in realtà non hanno alcunché.
Mi piace tuttavia ancora meno quando viene attribuito in maniera acritica, sempre e comunque, un valore aggiunto a tutto ciò che è naturale, facendo diventare questo termine e quel che rappresenta un feticcio, un ideale da perseguire ciecamente, e contrapponendolo – con una logica che fa stare i buoni da una parte e i cattivi dall’altra – a ciò che invece è artificiale, costruito dall’uomo, ottenuto attraverso processi tecnologici, che sarebbe, secondo una visione piuttosto naïf, criticabile, non desiderabile, antiecologico, intrinsecamente nocivo.
Senza la scienza e la tecnologia, e le scoperte e applicazioni che ne sono derivate (dall’elettricità alla neurochirurgia, dalle tecniche di estrazione dei combustibili ai trattamenti di potabilizzazione dell’acqua, passando per l’infinità di invenzioni e innovazioni che sta in mezzo), vivremmo meno e vivremmo peggio.
Ciò che è naturale non sempre è anche ciò che vale la pena perseguire o imitare (ne ho parlato diffusamente nell’articolo “L’uomo è l’unico animale che beve latte”, pubblicato proprio sul blog qualche mese fa), così come ciò che è “chimico” (altra parola spesso usata impropriamente, in maniera uguale e contraria a “naturale”, intendendo con questo termine il male per antonomasia) non dovrebbe essere rifiutato a priori. Terremoti, infezioni parassitarie e cicuta sono naturali, trapianti di organi, apparecchi per i denti e antibiotici no. Eppure mi auguro che nessuno “parteggi” per i primi e critichi i secondi.
C’è un esempio particolarmente chiarificatore di quanto “naturale” a volte non significhi assolutamente nulla. Si tratta di un’affermazione che ho sentito più volte nella mia attività professionale, l’ultima proprio pochi giorni fa, in studio.
«Io prendo solo vitamina C naturale» mi racconta tutta tronfia una signora. «Estratta dalla rosa canina. Mica quelle schifezze lì di sintesi, fatte in laboratorio, che fanno male».
Non ho avuto il coraggio di spiegarle che la vitamina C è identica sia in un caso che nell’altro (sempre di acido ascorbico si tratta), che deve essere estratta ed elaborata dall’uomo anche quella naturale (non è che la pianta produca la vitamina C già in compresse…), che vitamina C naturale e vitamina C ottenuta mediante sintesi chimica hanno i medesimi effetti salutistici e che al corpo, in definitiva, non importa minimamente da dove una molecola proviene perché possa utilizzarla.
Riappropriamoci del vero significato delle parole. E del buon senso.
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