Non voglio fare della sociologia sulla famiglia, solo un po’ di confessioni. Io, mio marito, che è un signore della mia età, molto composto, lo chiamo “Topo”, “Topone”, se no “Topicco”.
Lui non mi chiama. Solo quando sgarro. Se sento “Barbara!” vuol dire che l’ho fatta grossa.
Ai miei tempi, noi bambini ci crescevano come cretini perché ci parlavano con la elle al posto della erre fino ai sette anni. «Vuoi mangiale? Vuoi bele?». «Buono, sennò le plendi». Adesso, a tre anni sono dei vocabolari completi, solo che parlano come la tv. Negli anni 60 mio zio non sapeva dire la esse e la pronunciava effe. Era fidanzato con Simona, che chiamava Fimona. Dopo 5 anni che lui rimandava le nozze, lei gli chiede «Allora mi sposi o no?» e Lui «Fi, in linea di maffima fi, ma ci devo penfare bene». Passano altri cinque anni, e lei spazientita, «Allora sì o no?». «Adeffo non poffo, afpetto l’aumento di stipendio». Dopo altri 5 anni l’ha lasciata. Il padre di lei lo affronta, «Mascalzone! Non è corretto, dopo 15 anni! L’hai compromessa! Perché l’hai lasciata?». E lui «Perché era troppo baffa».
Al ginnasio avevo un fidanzatino, e durante il nostro flirt ci siamo parlati sempre col naso, chiamandoci Gatto e Gatta.«Pronto, Gatto?- Sei tu, Gatta?- Vieni da me, gatto? I miei sono usciti». «Sì Gatta, ma se tornano e ci beccano?». «Facciamo in tempo a sentirli, e scappi dal giardino». «Va bene Gatta, arrivo». Mai una frase normale. Non ce ne fregava niente l’uno dell’altra. Meno amore c’è più si fanno le smorfie, e i nomignoli fioccano.
Mio padre diceva «Quel ragazzo non è molto virile, ma è dolce». Invece era un sadico, dopo una lite cercò di prendermi sotto con la Vespa, e per la prima volta ci siamo parlati sul serio, io gli ho urlato «Razza d’imbecille, ma che mi vuoi ammazzare?». «Sì, brutta scema! M’hai stufato!». Non ci siamo visti più. Eravamo stati sinceri, finalmente.
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