L’uomo nero più affascinante che ho conosciuto si chiamava Abraham. Io avevo 17 anni, lui 22. Ci siamo incontrati in montagna, a Cortina, in una discoteca che frequentavo, rigorosamente accompagnata da mio fratello maggiore.
La scintilla fra noi era scattata subito. Abraham era amico di amici, non l’avevo mai visto prima. Molto alto, almeno cinque centimetri più di me (che ne conto 180). Capelli cortissimi, sorriso aperto e luminoso, occhi accesi e mani lunghe come ali. Era stato adottato appena nato, me lo ha detto quando si è presentato, per giustificare il cognome italiano.
Mi ha invitata a ballare un lento cosa che, a quei tempi, aveva un significato preciso: sarai la mia ragazza. Devo dire che non ho avuto il minimo tentennamento, anche se tutti i miei amici sapevano che avevo un fidanzato ancora relegato a Milano, e mi guardavano male.
Non immaginatevi un tipo Denzel Washington, Abraham se mai somigliava a Samuel L. Jackson, ma molto molto più nero. Le luci stroboscopiche rimandavano stelle dal bianco del suo sguardo colore della notte, e lampi di luna dai palmi delle sue mani.
Mi sembrava di essere in un film, anche perché quella è stata una delle rarissime volte che ho provato un’attrazione istantanea per un ragazzo. È stata una delle rarissime volte in cui ti accorgi che il corpo prevale inevitabilmente sulla mente.
Allo stesso tempo, però, avevo una gran paura. Di cosa? Non saprei dire razionalmente. C’era qualcosa di atavico e troppo forte nella mia attrazione per Abraham, e alla fine sono scappata da lui, sollevata che mio fratello mi avesse richiamata all’ordine per tornare a casa.
Il fatto che io e Abraham ci piacessimo così tanto non credo c’entrasse con la differenza dei nostri colori di pelle, anche se non si può negare che quello sia un ottimo motivo per acuire la curiosità fra un uomo e una donna.
Certo è che, leggendo la storia di Simona Busto “Vaniglia e cioccolata”, che avrete trovato e apprezzato nel numero in edicola questa settimana, sono stata catapultata dentro a una delle emozioni più magiche e “perturbanti” – come direbbe Sigmund Freud – della mia vita di adolescente.
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