Vaniglia e cioccolata

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia vera di Simona Busto pubblicata sul numero 26 di Confidenze e più votata dalle lettrici.

 

Storia vera di Ludovica G. raccolta da Simona Busto

 

Da bambina mi chiedevano sempre di scegliere. Tra due budini. Tra due gelati. E il dilemma era sempre lo stesso: vaniglia o cioccolato? E immancabile arrivava in risposta il mio grido: «Tutti e due!»

Non sono mai stata capace di risolvere il quesito in altra maniera. Per me quei due gusti stavano così bene insieme che separarli sarebbe stato un crimine.

Un po’ come è successo con me e Tommaso. Come potremmo star lontani? Le nostre vite divise sono qualcosa d’inconcepibile. Guardo la mia mano, chiara e delicata come vaniglia, stretta alla sua, scura e vellutata come cioccolato, e so che il connubio è perfetto. Poi le piccole dita paffute del nostro piccino s’insinuano tra le nostre, non a separarle, ma a cementarne l’unione, traendone allo stesso tempo calore. E capisco quanto sono stata fortunata, e quanto è stato giusto credere alla mia voglia di “noi”.

Il momento in cui l’ho conosciuto non era quello giusto. Sento tanto parlare di combinazioni astrali, di colpi di fulmine, di miracolose affinità elettive. Ma quando per la prima volta ho posato i miei occhi su di lui, ho pensato una sola cosa: quel ragazzo mi piaceva, esattamente come mi piaceva il cioccolato. Ed era altrettanto evidente che io piacevo a lui.

Il caso ovviamente ha messo in parte lo zampino nelle nostre vite, ma non si è trattato di un intervento predestinato volto a riportare l’ordine, piuttosto direi che l’effetto è stato quello di scombussolare l’esistenza di entrambi. Mamma aveva deciso di vendere la casa che era appartenuta alla nonna: un vecchio cascinale che quasi avevamo dimenticato di possedere.

Per questo motivo io e Franco, il mio fidanzato di allora, ci eravamo rivolti a un’agenzia, anche perché la vendita ci riguardava direttamente, visto che i ricavi sarebbero serviti a finanziare il nostro matrimonio e ad acquistare un piccolo appartamento.

Ero entrata nell’agenzia con spirito sereno ed entusiasta, felice della mia vita, e per nulla preparata a cambiare tutto. Tommaso si era alzato dalla scrivania e ci era venuto incontro, il sorriso bianchissimo che apriva uno squarcio di luce nella carnagione mora. La sua mano trattenne la mia appena un attimo di troppo, ma sufficiente a farmi mancare un battito e a spingermi la mente verso fantasticherie inopportune.

Mi chiesi quali origini potesse avere. La pelle bruna e i capelli crespi mi facevano pensare all’Africa. Eppure il suo accento era perfettamente in linea con la parlata della nostra “Bassa”, anzi aveva delle marcate inflessioni dialettali. Ascoltai pochissimo di quanto ci disse, gli occhi persi sulla pelle del collo liscia e ben rasata, su cui s’intravedeva appena l’ombra di un tatuaggio, quasi del tutto nascosto sotto la camicia ben allacciata. Per un attimo mi ritrovai a fare un pensiero assurdo e peccaminoso: mi chiesi che sapore potesse avere la sua pelle.

Come se avesse indovinato i miei pensieri, lui mi rivolse una domanda diretta, facendomi sobbalzare: «Non crede anche lei, Ludovica, che si potrebbe considerare la possibilità di recuperare la casa? Sarebbe molto più adatta alla vostra nuova vita insieme rispetto a un piccolo appartamento privo di privacy».

Mi mostrò la planimetria con un gesto del tutto professionale, ma mi parve che un lampo di malizia gli scintillasse negli occhi, soprattutto quando aveva accennato alla mia nuova vita insieme a Franco. Forse fu solo il senso di colpa conseguente al mio pensiero di poco prima, ma ebbi la sensazione di essere stata colta in flagrante. Arrossii come una ragazzina e subito mi arrabbiai, con me stessa, ma soprattutto con l’uomo di cioccolato.

«Abbiamo già valutato i pro e i contro» dissi con fermezza mentre sospingevo di nuovo la planimetria verso di lui. Le nostre dita s’incontrarono, ma lui non si ritrasse. Avvampai, eppure nemmeno io volli arretrare. Rimasi ferma sulle mie posizioni, gli occhi chiari e quasi slavati fissi nei suoi, scuri come pepe nero. «E abbiamo deciso che l’appartamento per noi è la soluzione migliore. è esattamente quello che vogliamo per la nostra vita insieme».

 

Calcai volutamente sull’ultima parola e quella luce un po’ strafottente nel suo sguardo parve vacillare per un attimo. Ritrasse la mano. Avrei voluto gridargli di non farlo, ma non ci riuscii. Mi lasciai condizionare dai miei doveri, dalla mia vita ordinata e serena, una volta di più.

Quando ce ne andammo, zittii in fretta le deboli proteste di Franco. Credevo di aver vinto la partita e che avrei rivisto Tommaso solo quando ci fossero stati degli acquirenti interessati alla casa. Mi sbagliavo.

Tutto quello che mi concesse furono un paio di giorni di tregua, poi il mio cellulare prese a suonare con un trillo insistente. Sobbalzai nel riconoscere la sua voce. Era come una carezza di velluto che mi sfiorasse il lobo dell’orecchio. Avevo quasi la sensazione di sentire il suo profumo.

«Ludovica, dobbiamo vederci. Sta facendo una grossa sciocchezza e non vorrei davvero permetterglielo».

«Credevo che lei fosse un agente immobiliare, non un consulente spirituale» risposi, piccata e crudele.

Tacque per un attimo, poi ridacchiò sommessamente. «Io proprio non le piaccio. Si nota subito. Vorrei dirle che la disaffezione è reciproca, ma sarei un bugiardo». Sentii le orecchie avvampare alla sfacciataggine di quella dichiarazione. Inspirai, e mi sforzai di tenere sotto controllo la furia. «Vorrei ricordarle che il nostro è un rapporto professionale».

Riuscii quasi a vedere il suo sogghigno all’altro capo del filo. è così infatti, e mi spiacerebbe se la sua antipatia nei miei confronti la portasse a compiere una scelta di cui potrebbe pentirsi. Fossi in lei ascolterei il professionista, fregandomene dell’uomo odioso che coabita nello stesso corpo». Sorrisi senza volerlo. Fu un riflesso a cui non seppi resistere. Quel ragazzo riusciva a confondermi, e innegabilmente mi piaceva, molto più di quanto non fosse lecito. «D’accordo» sospirai «alla prima occasione vengo lì con Franco e ne riparliamo».

«Se per lei non è un problema, sono proprio in zona in questo momento. Mi trovo dalle parti della casa che vorrebbe vendere. Non verrebbe un attimo qui? Così le spiego cosa intendo. Ha già finito di lavorare, vero?»

Deglutii a vuoto. Sì, avevo finito, Franco invece era ancora a parecchi chilometri di distanza, di ritorno da una delle sue trasferte quotidiane. Mi suonò come una trappola, ma non seppi resistere alla tentazione di accettare. Forse lo feci perché desideravo troppo rivederlo, forse fu solo la mia curiosità, quella voglia di vedere fino a che punto si sarebbe spinto. Quell’uomo era troppo sicuro di sé, troppo sfacciato, troppo tutto!

Quando arrivai alla casa, lui era già lì, le mani affondate nelle tasche del soprabito elegante, il viso un po’ accigliato che si aprì in un sorriso appena mi vide.

«Vieni, ti mostro quello che intendo» attaccò nel momento in cui lo raggiunsi. Era passato dal lei al tu senza che quasi me ne accorgessi. Mi trascinò da una stanza all’altra, profondendosi in spiegazioni ed esponendo con foga le proprie teorie. Dopo mezzora mi sentivo stordita. Non avevo ascoltato quasi nulla di quel che mi aveva detto, in compenso avevo iniziato a sentirmi una vera cretina: mi ero crogiolata nell’illusione di piacergli davvero, invece lui si era davvero interessato alla casa.

Volsi il capo di lato, per sfuggire al suo sguardo entusiasta, in attesa di una mia risposta positiva. «La voglio comunque vendere. Se aspetto di avere i soldi per realizzare tutti i progetti che mi hai elencato, mi sposerò tra vent’anni». Lo sentii ridacchiare. «Non posso dire che l’idea mi dispiacerebbe». Di fronte alla mia occhiata furiosa alzò le mani in segno di resa. «Ok, scusami, stavo solo scherzando». Volse il capo di lato. «A dire il vero non del tutto». Poi cambiò bruscamente argomento: «Ti va un caffè?».

 

Scossi il capo e mi allontanai, ma la sua mano raggiunse la mia, stringendola forte. M’inchiodò sul posto. Non riuscivo a muovermi. «Ludovica, mi sfuggi, e lo capisco. Eppure non riesco a star lontano da te. Ci ho provato, mille volte mi sono ripetuto che sei una donna impegnata e presto avrai un marito. E nonostante tutto, davvero, non e la faccio».

Compii uno sforzo immane e alzai gli occhi a guardarlo. Sorrideva senza scoprire i denti che io sapevo essere bianchissimi. Lo vidi avvicinare il volto al mio, poi percepii il calore della sua bocca, un tocco morbido, delicato. Non c’era seduzione, né aggressività. Fu solo dolce, come una carezza di cioccolato.

Mi ritrassi subito, e lo guardai a occhi sbarrati. Non riuscii a fuggire, benché sapessi che avrei dovuto. Il giorno seguente ricevetti i suoi primi messaggi. Arrivò quello del buongiorno, poi quello della buonanotte. Non mi chiedeva nulla, non mi faceva pressioni. Quei gesti di affetto mi dicevano solo “Io ci sono”.

Eppure io stavo male. Mi sentivo gravata dalla colpa. Mi avevano insegnato il rispetto e la fedeltà. Mi avevano insegnato che l’amore è sacrificio. Mi avevano insegnato a non cadere in tentazione. E io mi stavo scagliando contro tutti quei precetti. Li stavo calpestando senza esitazione, in nome di un’attrazione che ancora non sapevo definire. Dopo una settimana il mio fisico non resse più. Ero ormai terrorizzata all’idea di quello che stavo facendo. Avevo la sensazione che chiunque potesse leggermi in viso il tradimento. Il pensiero che i miei sentimenti per Tommaso venissero a conoscenza di altri era un peso intollerabile. Svenni mentre uscivo dal lavoro.

Franco non venne al pronto soccorso, liquidò il mio malessere come stanchezza e si rituffò nei propri impegni. Fu Tommaso a presentarsi lì, poco dopo che l’ambulanza mi ebbe depositata tra quelle mura bianche.

Ero in ritardo all’appuntamento con un potenziale acquirente, tanto bastò a far scattare la telefonata preoccupata e la corsa successiva fino all’ospedale.

I miei genitori lo guardarono sgomenti. Non capivano cosa volesse quell’estraneo dalla pelle nera che si permetteva d’invadere la privacy della figlia. Io lo sapevo bene, invece. Mi sentii morire, soffocata dalla felicità e dall’imbarazzo. Era la prima volta che provavo sensazioni tanto intense e contrastanti. Il suo sguardo teso mi fece violenza al cuore. Mi dimisero con una rapida diagnosi: principio di esaurimento nervoso. Passai giorni febbrili a casa, preda dell’agitazione e del rimorso, sorvegliata speciale sotto lo sguardo indagatore di mia madre, una donna decisamente troppo perspicace.

Dopo una settimana Tommaso mi chiese d’incontrarci. Accettai, decisa a chiarire la situazione una volta per tutte. Volevo anche cambiare agenzia per la vendita della casa di nonna. Lui mi accolse con un’espressione seria e tirata che mi fece trasalire. Non l’avevo mai visto così.

«Ho capito una cosa» sussurrò, incapace di esprimere i propri pensieri ad alta voce. «Comprendo che ti sto facendo male e che dovrei smettere di sentirti. Dio sa quanto mi costa dirtelo, ma non voglio ferirti». Un sorriso tirato.

Quelle parole mi affondarono dentro come un coltello. Avevo rimuginato per giorni su frasi simili che avrei potuto dirgli, ma ora sentirle davvero, e dalle sue labbra, mi fece male. Chinai lo sguardo, cercando di sciogliere il groppo che avevo in gola. Avrei voluto piangere, ma non osavo. Le sue dita mi sollevarono gentilmente il mento. Cioccolato e vaniglia. Mi sorrise ancora. «Se mi dirai che eri felice prima di conoscermi, mi tirerò indietro senza rimorsi». Silenzio. E rumore dentro di me. Dischiuse le labbra, gli occhi sgomenti di fronte a quella risposta che non arrivava. Riuscì a leggerla in me senza bisogno di parole: non avevo mai conosciuto la vera felicità prima d’incontrarlo. Quando mi portò a casa sua, mi avvinghiai a lui in un disperato bisogno di sentirlo mio.

Ero affamata. Bruciavo. Domani ci sarebbe stato di nuovo il senso di colpa, ma adesso non m’importava di nulla che non fosse la sua pelle scura, una pelle che mi parlava di un bambino un tempo indesiderato, adottato decenni prima da una famiglia italiana, un bambino che aveva affrontato molto dolore e che adesso voleva conoscere l’amore e la felicità.

Impiegai un mese ad affrontare la realtà. Furono trenta giorni di fughe dagli occhi accusatori di mia mamma e dalle stupite pressioni di Franco, che non comprendeva la mia mancanza d’intimità, di contatto, di affetto. Poi cedetti: diedi un nome al mio tradimento e lo chiamai amore.

Affrontai la bufera cercando di tenere la testa alta, anche se non fu facile. Mi piegarono, m’insultarono, mi dissero che non meritavo quello che avevo avuto fino a quel momento, che ero una figlia e una donna indegna, mi dissero anche cose ben peggiori. Ma io non cedetti.

 

Cercai di tenere Tommaso fuori dalla tempesta. Temevo che avrebbe peggiorato la situazione. Lui, però, ci fu sempre, con me e per me, pronto a darmi sostegno quando ne avevo bisogno, e a lasciarmi piangere senza una parola nel momento in cui le lacrime erano la sola valvola di sfogo. Dopo mesi di battaglie, gli animi iniziarono a calmarsi, almeno da parte dei miei genitori. Franco, com’era ovvio, non mi perdonò mai, né parve capire il motivo del mio gesto irrazionale. Trovai infine il coraggio di portare Tommaso dai miei. Lo accolsero con freddezza, ma non lo respinsero. Gli sorrisi a fine serata, fiera del suo coraggio e della sua composta cortesia. Era pronto a stare sulla graticola, pur di avermi accanto. Iniziammo a sistemare la casa di nonna. Ci sarebbero voluti anni, forse, e tutti i nostri risparmi, ma alla fine quella bicocca cadente che ci aveva fatti incontrare sarebbe stata il nostro nido. Non avrei mai scelto un altro luogo per vivere insieme a Tommaso.

Era difficile lavorare senza pensare ai giudizi della gente, a quegli sguardi cattivi che sembravano scottare sulla pelle. Eppure tenemmo duro. Quando gli rivelai di essere incinta, lui si portò la mia mano alle labbra. La baciò e poi ne inspirò a fondo l’aroma. I suoi occhi scuri mi sorrisero. «Sai di vaniglia». Non risposi, ma gli passai le dita tra i capelli, beandomi del contrasto tra i colori delle nostre pelli. Non c’era nulla di più bello al mondo. Eravamo completi insieme, come vaniglia e cioccolato.

 

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