Vi riproponiamo sul blog la storia vera di Giovanna Sica pubblicata sul numero 30 e più votata dalle lettrici.
Storia vera di Maria T. raccolta da Giovanna Sica
Ho freddo. Ho caldo. Mi metto a pancia sotto. Mi giro su un fianco. Mi volto subito dall’altra parte perché non sopporto di vederlo. Nel letto. Di fianco a me. Andrea. Mio marito.
Non riuscirò mai a prendere sonno, stanotte. Lui, mio marito, si è addormentato appena ha messo la testa sul cuscino. Eppure, abbiamo litigato per due ore dopo aver messo a letto i bambini. Ce ne siamo dette di tutti i colori. Io, soprattutto. Perché, si sa, le donne sono sempre quelle più brave ad infierire.
Sarà pure perché, azzardo, sono io quella che è stata tradita. Ingannata. Quella che dedica tutto il suo tempo al marito e ai figli. E stasera, come se avessi preso uno schiaffo forte in pieno viso, mi sono scossa. Ho scoperto che non è vero niente. Che era un film solo mio. Non esiste nessuna famiglia. Nessun progetto condiviso. Esistiamo io e i miei bambini. L’uomo che ho sposato nove anni fa è un impostore.
Son tante le cose che mi fanno impazzire ora. Mi fa impazzire non essermi accorta di nulla. Mio marito ha avuto una relazione con un’altra donna e io non mi sono accorta di nulla. Io ho sputato sangue dagli occhi per tenere tutto assieme, l’anno scorso, mentre lui era a New York per lavoro. I figli, lo studio legale, la casa. La spesa, le bollette. Le feste e gli allenamenti a cui dovevo portare e andare a riprendermi i bambini. E lui, chissà quante volte, mi faceva la telefonatina serale e poi correva dalla sua amante.
Io non sono uscita nemmeno una sera, nel periodo in cui lui non c’era. Avrei potuto chiamare la babysitter e concedermi un film al cinema. Un aperitivo in centro. Ma non sopportavo l’idea di non stare con Bea e Luca nell’unico momento della giornata in cui avevo del tempo a disposizione. Dopo cena io e i miei figli guardavamo la televisione nel lettone. Quando si addormentavano li portavo nelle loro camerette e poi chiudevo a chiave tutte le porte per paura dei ladri. A volte tornavano da me. Li rimettevo nei lettini e gli facevo un po’ compagnia; mi appisolavo vicino a loro senza accorgermene. Mi risvegliavo dopo ore con la schiena a pezzi e non riuscivo più a prender sonno.
Mi manca l’aria. Ora mi alzo e vado in giardino ad accendermi una sigaretta. Peccato che abbia smesso di fumare da un pezzo, e non credo salterebbe fuori una paglia da questa casa, pure se buttassi sottosopra tutti i cassetti. Da ragazza nascondevo sigarette dappertutto: fra i panni, dentro le bomboniere, sopra gli armadi, ma era una vita fa. Allora c’erano ancora un sacco di pagine bianche per scrivere i sogni. Stanotte invece, è già successo tutto. Il quaderno è finito. Questa è una nottata che non passa.
Beatrice e Luca. Sette e cinque anni. I miei figli. Stanotte dormono beati, per l’ultima volta. Mamma e papà sono nel lettone. Sanno che se hanno bisogno, basta un sussurro. Uno starnuto. Un gemito soffocato dal sonno. Mamma li sente sempre. Papà no, però basta che mamma gli dia una gomitata e pure lui si butta subito giù dal letto. Ma da domani cambierà tutto. Il loro papà lascerà questa casa. E sarò io la cattiva che lo metterà alla porta, quella che avrà scelto di distruggere la famiglia, quella che non può passarci sopra. Mi sento un topo in trappola.
Sento il sangue che mi sbatte nelle tempie. Forse mi sta venendo un accidenti e sto per morire. No, no, no! Io ho due figli da crescere, non mi posso permettere di morire per colpa di questo stronzo che mi dorme a fianco! Come lo dirò ai bambini? Con che parole gli spiegherò che io ora lo detesto, il loro papà, che il solo vederlo mi dà la nausea, e che vorrei spaccargli una sedia addosso e poi riempirlo di pugni? Come si fa in questi casi? Io mi conosco, non ce la posso fare a recitare la parte della separata in casa. Io non riesco neanche a guardarle in faccia le persone che mi hanno fatto del male, come posso continuare a stare con mio marito?
«È stato uno sbaglio. Perdonami. Per me non ha significato nulla. Ero solo. Stavo lontano. Perdonami. Non buttiamo tutto all’aria» mi ha detto stasera Andrea. E io ripetevo le sue parole nella mia testa e mi chiedevo: “Dove le ho già sentite? In quale film di quart’ordine? Quale amica le urlava furibonda davanti a un caffè?“. Non buttiamo tutto all’aria. Mi partiva da sola nel cervello, questa frase. Non ero in grado di fermarla. Di farla a pezzi. «Brutto stronzo» gli ho risposto, «ma come, tu ti fai l’amante nell’anno in cui lavori fuori, mentre io mi spacco la schiena per portare avanti la famiglia, e ora sarebbe anche mia la responsabilità di aver sfasciato il nostro matrimonio? Ah, sì, perché ora sono io a decidere; non sei tu che te ne stai andando, sono io che ti sto cacciando».
«Che diamine, mandare tutto all’aria per una storiella»: mi sembra già di sentirla, mia suocera. Tanto lei era ai Caraibi a fare il bagno nell’oceano quando Beatrice ha avuto la varicella e l’ho dovuta tenere quindici giorni chiusa in casa penalizzando anche il fratello.
Tanto lei non si è persa neanche una partita di burraco con le amiche per stare un po’ coi nipoti. Tanto lei di mariti ne ha cambiati tre e me lo dovevo aspettare che l’attitudine a mettere le corna fosse ereditaria. E mia madre, invece? Mia madre che ha sopportato per tutta la vita gli “innumerevoli svaghi” che si è preso mio padre, che dirà mia madre? «Figlia mia, sopporta. Fallo per i tuoi figli. Gli uomini rimangono bambini a vita». Vaffanculo, mamma! Tu e la tua patetica rassegnazione. Vaffanculo! Sei tu che mi ha tirata su così. Impiantandomi nel cervello l’idea che bisogna sempre fare quello che vogliono gli uomini. Assecondarli. Accontentarli. Perdonarli. Accudirli. Io manco ce lo volevo mandare mio marito a lavorare in America per un anno. Non era mica obbligatorio. Non avrebbe mica perso il posto. Ma era un’occasione per la sua carriera. Una splendida occasione. E quell’idea malata che tu mi hai messo in testa da bambina ha avuto la meglio.
Avrei potuto dire: «No, non ce la posso fare per un intero anno a portare avanti la famiglia da sola. Lavoro anch’io. Tutto il giorno. Magari la tua splendida occasione la coglierai quando i figli saranno più grandi». E invece ho detto sì. E invece ho detto vai. Ho fatto la cosa giusta. Per lui. Perché io sono stata programmata per far stare bene gli altri, non me stessa e, a quarantatré anni, che vuoi cambiare più.
Hanno suonato al citofono. Un unico trillo, conciso. Ma chi diavolo sarà alle due di notte? Mi alzo per andare a rispondere. Il cuore me lo sento nel collo. Sbatte. Scoppia. Magari è la sua amante che è venuta fino a casa mia come una furia per reclamare il suo uomo, per dirmi: «Ma quale storiella, Maria, noi ci amiamo, Andrea vuole stare con me, sei tu che devi toglierti di mezzo, tu e i tuoi figli».
Pronto. Pronto, chi è? Dall’altra parte solo un sibilo. Una provocazione? Un dispetto? Macché. Solo vento, giù in strada. Secondo me non ha citofonato proprio nessuno. Sono io che sto impazzendo. Forse mi sono addormentata e nemmeno me ne sono accorta.
Il citofono era il solo il richiamo del mio inconscio: «Sveglia, Maria, sveglia! È una vita che dormi. Ti sei buttata anima e corpo nella parte della brava mamma e moglie devota, e non ti sei mai chiesta, in tutti questi anni, cosa avrebbe fatto piacere a te, come donna, come essere umano. Che fai nel tempo libero, Maria? Ce l’hai del tempo libero, Maria? Vai a correre? Vai al cinema con un’amica? Ce le hai ancora le amiche? Come immaginavo. Non hai più niente. Solo la tua famiglia. E da domani, solo i tuoi figli». La cosa che mi fa più rabbia è non essermi accorta di nulla. Io mi fidavo di lui, maledizione! Io ho sempre pensato di sapergli leggere i pensieri in faccia, a mio marito. Sono incazzata nera. Con me stessa che sono una povera ingenua. Con Andrea che mi ha tradita e ingannata per tutti questi mesi. Che è tornato qui, in casa nostra, nel nostro letto, a fare l’amore con me come se non fosse mai successo nulla. Ce l’ho a morte con l’amore. Non mi fiderò mai più dell’amore. Lo sappiamo solo io e il Padreterno quanto mi è costato caro portare avanti la famiglia da sola per un anno.
E non parlo neanche tanto della fatica fisica, che pure mi ha sfiancata, ma, soprattutto, sono i stati i pensieri a consumarmi. La preoccupazione per Bea che da bambina solare e spensierata che era, è diventata taciturna, malinconica. La stanchezza. Tutta la stanchezza per le nottate passate a vegliare su di lei e suo fratello, quando hanno avuto l’influenza, il mal di pancia, il mal d’orecchie. Se avevano la febbre, puntavo la sveglia ogni ora per paura di addormentarmi e non accorgermi che, magari, era salita la temperatura e dovevo dargli l’antipiretico; ma poi la toglievo sempre prima che suonava, perché tanto non riuscivo a chiudere occhio nemmeno cinque minuti.
E comunque la mattina, dormito o non dormito, bisognava tirarsi su dal letto, organizzarsi fra nonna e babysitter e poi correre allo studio, possibilmente sorridente e concentrata sulle cause che avrei dovuto discutere in tribunale. Forse, chissà, sto arrivando a pensare che sarebbe stato meglio non scoprirlo affatto, che è pure una storia passata, mi sembra di aver capito. E dire che io non sono certo quel tipo di moglie che va a controllare messaggi ed email.
È stato lui, il messaggio, che mi è esploso in mano come una bomba. Andrea dal salotto mi ha detto di portargli il telefono. Lo aveva lasciato in bagno. Maledetti smartphone. Era proprio necessario quella cosa che quando ti arriva un messaggio, oltre al suono della notifica, le parole scorrono in alto, sul display, una dopo l’altra? E quelle che son apparse a me stasera, sul telefono di mio marito, erano senza scampo. Senza possibilità di fraintendimenti. “Con nessun altro ho fatto l’amore come con te. Non riesco a dimenticarti”. Mittente: Monica. Un nome che non mi diceva nulla, forse non conosco nessuno che si chiama così. Ah, sì, l’istruttrice di pilates, ma sono anni che non la vedo più. Monica. Monica che aveva fatto l’amore con mio marito. Monica che non riusciva a dimenticarlo. Una cascata di vetri mi si è frantumata in testa. Sopra c’era scritto Monica. Il mondo può venir giù in tanti modi. Il mio, si era rotto così. Sotto un nome di donna che non conoscevo, perché non poteva essere la mia vecchia insegnante di pilates a farmi questo.
Immaginavo la sua faccia sguaiata. Il trucco pesante fin dal mattino. I vestiti attillati impregnati di un profumo fastidioso. Le maglie scollate che mettevano in mostra due seni esagerati. Nella mia testa Monica era una donna volgare e aveva la mia stessa età. Forse, anche qualche anno in più. Sposata, con figli. Come me. Per il resto, era l’opposto di me. Di me che di giorno son sempre con le stringate ai piedi e senza trucco. Di me che mi vesto, soprattutto al lavoro, in modo che i miei colleghi si concentrino sulla mia bocca mentre parlo. Di me che da quando sto con Andrea non ho fatto mai più l’amore con nessun altro, e ce ne sono state eccome di occasioni. Una volta, stava per succedere qualcosa con un mio amico. Lui aveva smesso di guardarmi con occhi innocenti. O forse, era innamorato di me da sempre ma io non me ne ero mai voluta accorgere. Comunque, al matrimonio di Lisa e Giovanni io ero senza famiglia e passammo tutta la giornata assieme. I brindisi. I balli. Le risate. Quando mi riaccompagnò a casa, in macchina, si avvicinò per baciarmi.
Io mi allontanai, gli dissi che sarebbe stato uno sbaglio. Mentii. Io lo desideravo quel bacio da Federico. Poi non so come sarebbe andata a finire, ma io in quel momento feci un grande sforzo a ritrarmi.
Luca sta piangendo. Mi alzo e vado nella sua cameretta. Mi infilo nel suo lettino, gli faccio una carezza. Piangiucchia nel sonno. È tutto sudato. Forse sta già sognando la brutta vita che ci aspetta da domani. Come ci organizzeremo con le recite di fine anno? Andremo entrambi, io e Andrea, ma non ci metteremo vicino? Andrà uno solo dei due? Ci siederemo vicini fingendo con gli altri genitori che stiamo ancora assieme? E le vacanze estive, come faremo? Abbiamo pure dato già la caparra per quella meravigliosa casetta proprio sulla spiaggia.
Guardo le stelle luminose sul soffitto. I giocattoli sparpagliati in giro. L’orsacchiotto preferito di mio figlio sul tappeto di Spiderman. Come son belle le camerette dei bambini. Così incontaminate. Così perfette. Miniere di sogni. Di magiche storie ancora da raccontare. Ora vorrei anch’io essere piccola come mio figlio e non sentire addosso il peso di questa orrenda decisione da adulta.
Vado in cucina. Metto su l’acqua per farmi una tisana per dormire. Tiglio e melissa? Mettiamoci pure il biancospino per l’agitazione nervosa. Accendo il telefono. Ora scrivo un post su Facebook. Uno di quei post avvelenati e pieni di risentimento che a volte mi capita di leggere. Sì, ora prendo e sputtano mio marito nel Web. Lo devono sapere tutti che uomo meschino è Andrea G.
Maria, stai delirando! Mi parte una vocina nella testa. Se scrivi un post per colpire lui, domani, la prima a sapere che vi siete lasciati sarà Beatrice. Ti sei scordata che le mamme delle sue amichette sono tutte fra i tuoi contatti Fb? Vuoi che tua figlia sappia così che la sua famiglia sta andando a pezzi?
Allora scrivo un post sul tradimento in generale. Sulla superficialità degli uomini. Su questa nottata che non passa. Maria, un post sul tradimento in generale? Ma ti senti? Secondo te è possibile parlare del tradimento in generale? Secondo te una si mette alle tre di notte a scrivere un post su qualcosa che non la riguarda da vicino, così, tanto per fare conversazione con qualche altro sfigato sveglio pure lui a pensare nel buio. Maria, spegni il cellulare. E vattene a dormire.
Ho 32 aggiornamenti da fare. Così mi dice il telefono.
Non sei informato, stupido giocattolo tecnologico.
Ne ho trentatré, di aggiornamenti, da fare.
Ti sei dimenticato il più importante.
Ho la mia vita tutta da aggiornare. Da aggiustare.
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