Giulietta e Romeo

Cuore
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“Giulietta e Romeo” di Rosa Russo, pubblicata sul n. 35 di Confidenze, è una delle storie più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo nel blog

 

Storia vera di Pietro T. raccolta da Rosa Russo

 

Quando ho finito di esercitare il mio ruolo, insegnare italiano per quarant’anni in una scuola superiore, e ho visto concludersi nel peggiore dei modi la mia vita di coppia per la dipartita della mia consorte, ho sentito la solitudine sulle spalle. Come una coperta di lana grezza, pesante e mal sopportata. Sono entrato, e non era affatto desiderio mio, in uno stato d’apatia. Avevo sessantacinque anni (ora qualcuno in più) e non erano poi così tanti. Ogni mattina, non appena sveglio, mi chiedevo cosa aspettarmi da quell’interminabile giornata. Erano lì, dodici ore intere, che in qualche modo dovevo pur far passare. Con un barlume di speranza, un briciolo resisteva ancora, speravo arrivasse qualcosa ad “accendermi”. Da fuori. Da chiunque o da qualunque cosa. “Il mio cuore non brilla “, pensavo affranto. E non pensavo che quel foglio bianco, che tenevo davanti per ore e ore, avrei potuto colorarlo io. “Ma come?”continuavo a ripetermi nella mente.

Nel mio passato, all’infuori delle ore che trascorrevo a scuola – e adoravo insegnare – a organizzare il tempo libero, se non esistevano intoppi e inghippi, ci pensava mia moglie. E via per gite, nei weekend o per le vacanze prolungate;  per picnic, con cestini pieni di ogni ben di Dio, negli afosi pomeriggi d’estate; per le tante serate, passate a giocare a carte (sul terrazzo o davanti al caminetto, secondo la stagione). Carmela era straordinaria in queste cose.

Purtroppo, con lei era andata via anche la mia vera ricchezza. Con lei, quel funesto giorno reso ancora più cupo dalle nere nuvole in cielo (oltre a quelle che oscuravano la mia  anima), avevo sepolto il mio amato “giullare”. Concluso il ciclo, scuola e amore, rimasi solo con le mie incombenze. Non tralasciavo la cura personale o di far la spesa, malgrado tutto si deve pur mangiare; né potevo esimermi dal pagare tasse, bollette e affini. Diversamente sarei diventato un evasore e l’onestà è il dovere di ogni cittadino. L’unica cosa che mi concedevo, sebbene non lo sentissi come legna che arde, era comprare la rivista che leggeva mia moglie. Tutto qua. “Quando non si ha nulla da proporre a se stessi si beve dall’esistenza altrui” mi raccontavo. Mi accorgevo che leggere, a volte, mi faceva da anestetizzante. La vite raccontate, quelle di persone sconosciute, entravano nella mia.

 

Meglio del niente. Se a lieto fine, riuscivano a farmi dire: “Meno male” e a strapparmi un sorriso. Mi causavano rabbia e dolore, quelle dove la violenza o la mancanza di rispetto per ogni forma di vita facevano da protagoniste. Non proponevo, già detto, ma scoprivo che i sentimenti li provavo ancora. Per fortuna. A occuparsi della casa ci pensava Shila, una donna di quarant’anni, romena, due volte la settimana. I miei due figli, Simona, anche lei quarantenne, sposata ma senza prole, impegnata tutto il giorno con il suo lavoro in banca, e Michele, più piccolo di tre anni, ingegnere, chi li vedeva? Mi telefonavano, però. Ma non a ritmi serrati come avrei sperato. «Papà, devi capire» e capivo. Anzi no, accettavo. “Ognuno deve pensare alla propria vita”. E me lo ripetevo per crederci davvero.

“Passata la tempesta odo augelli far festa…Ecco il sereno…” recitai qualche tempo dopo. E sorrisi a quel pensiero. Perché arrivò quel regalo tanto atteso e alquanto sperato. Da fuori. Dal caso. Dal destino.

«Signor Pietro, lo sa che lei è un uomo gentile?» sentii dirmi un giorno da Shila. Mi girai a guardarla, volevo essere sicuro che si rivolgesse  a me.  «Lei è troppo buona» pronunciai confuso, rosso in faccia (m’ero sentito avvampare) e con voce appena udibile.

«Signor Pietro, che bella casa è la sua» esclamò la volta successiva. «Grazie, lei è gentile». Il mio tono rimaneva sempre un sussurro. Provavo imbarazzo ma era come se ingurgitassi un tonico e mi rincuoravo. Lei, era evidente, faceva di tutto per farsi notare. Cantava allegre canzoni, osava scollature più ampie, riempiva i vasi del salotto di margherite gialle o fiori di campo. Rimanevo con i piedi ben piantati a terra, ma assorbivo come una spugna l’energia che mi regalava. Un giorno, tutto potevo pensare tranne a quello che mi sarebbe successo da lì a poco. Shila, inaspettatamente, mi abbracciò e mi disse: «Pietro, provi qualcosa?». La sua esuberanza mi fece perdere l’equilibrio e finimmo sul divano. Distesi. E lei sopra di me. Cercò le mie labbra e io non partecipai né protestai. Sembravo mummificato. Cercai di ricompormi quando mi accorsi che non eravamo più soli. Un paio di occhi, oltre i nostri, ci guardavano sconvolti e inorriditi. Erano quelli di mia figlia Simona. Era venuta dopo aver colto un po’ di tristezza nella mia voce, per telefono, la sera prima. Come se quella fosse stata l’unica, e non una delle tante passate, piena di amarezza. La mia. Aveva suonato il campanello, che nessuno aveva sentito, ed era entrata con le chiavi che teneva per ogni evenienza. Non misurò né si limitò con le parole. Uscirono a fiotti violenti, e intenzionate a far danno. Partì con l’incredulità: da me non se lo sarebbe mai aspettato; mi accusò di demenza senile, che mi portava a farmi raggirare; poi il crack, il top, il finale: «Devo cercarti un pensionato».

Offese, che solo mia moglie avrebbe potuto permettersi nel caso mi avesse trovato a letto con l’amante, non meritate.

Non ero un depravato (da come mi guardava sembrava lo pensasse) e me la presi. Sentivo il cervello divampare. Mi scattò l’ira. Mi trovai a urlare urlare urlare, come un pazzo.

 

Simona non si placò, continuava a blaterare, e io anche. Se avesse immaginato come mi sentivo dentro, nell’animo, non avrebbe sparato sentenze ancora prima di leggerne gli atti. Quello che lei aveva visto non aveva sostanza. Era nulla. Io avevo bisogno solo di una cosa, ed era importante: ritrovare me stesso. Io volevo riconciliarmi con il passato. Riacciuffare l’entusiasmo e l’ottimismo che da giovane mi aveva distinto. Avevo accettato che sua madre, mia moglie, riempisse le sue, le nostre, giornate organizzando svaghi, per amore. A lei piaceva. Avevo smesso di fare l’istrione e mi ero arenato. Adesso piovevano le accuse. Chiusi forte a pugno la mie mani, si volevano ribellare agli eventi. Dovevo incanalare al meglio le mia energie per non pentirmi dopo. Così decisi di uscire, respirare, riordinare le idee. Il lutto, per me, comunque, era finito. Preso dall’agitazione, aprii la porta di scatto e via. Corsi giù per le scale, come un ladro colto in flagrante, e mi trovai in strada. O meglio, sotto le ruote di una macchina. Non l’avevo vista, sebbene la notte non fosse ancora calata. Ne passai di belle. Quello che segue mi venne raccontato. Ci fu la corsa in ospedale, qualcuno aveva chiamato il 118. Simona salì sull’ambulanza disperata, non davo segni di vita. Aveva chiamato il fratello pregandolo di raggiungerla e di fare presto. Mentre ero nel nosocomio, affidato alle cure dei medici, Simona raccontò tutto a Michele. Poi, insieme, avevano pregato affinché rimanessi illeso. Dopo un lasso di tempo che a loro sembrò eterno, vennero informati sulla situazione: «Ha subito un trauma cranico, non ci sono fratture solo molte escoriazioni». I miei figli, angosciati e per nulla risollevati, chiesero al medico che cosa si dovevano aspettare. La risposta, pronunciata con voce gentile tenendo conto che quando qualcuno è grave c’è chi patisce, fu: «Lo sapremo nei giorni a venire». Dovevano solo aspettare. Poi…

Aprii gli occhi ed esplorai tutto intorno, mi sentivo confuso. Dov’ero? Chi ero? Perché quell’ago nel braccio? Non riuscivo a darmi riposte, a organizzare i pensieri.

Cercai di parlare ma dalla bocca non uscì nessun suono. Non provavo dolori né sensazioni. Dalle fessure delle tapparelle abbassate filtravano sottili raggi di sole. In essi danzavano pulviscoli dorati. Si poggiarono sulle mie ginocchia, su braccia e mani. Loro c’erano ed erano nel posto giusto. Qual era il mio?

Delle voci mi scossero: «Papà, sei sveglio. Dio sia lodato». Papà… Chi? Non capivo. Chi erano quei due con gli occhi inumiditi? «Chi siete?» chiesi spaventato. In breve seppi come stavano le cose. Alcune, le essenziali.

 

Venni a conoscenza di una vita che non ricordavo, che non sentivo affatto mia. In quel momento ero solo un misero uomo senza un passato, un neonato abbandonato, un nastro senza pellicola impressa. Dopo una settimana trascorsa in ospedale quei due, che dicevano di essere i miei figli, mi portarono a casa. Un dottore aveva loro suggerito che tra i miei affetti più cari avrei riacquistato la memoria. Si trattava di una cosa temporanea, non c’erano organi lesi, per fortuna. Ed eccomi a casa. “Che c’è di mio?” pensai. C’erano foto che mi ritraevano con una donna bionda mentre rideva.

«È la mamma» disse forte Simona. Come a volerlo fissare nella mia mente. C’era la foto di un uomo con dei bambini in braccio. Quello ero io, più di trent’anni prima. Abbastanza cambiato, con molti capelli in più e chili in meno, ma non mi riconobbi. Nemmeno mobili e suppellettili mi suggerivano qualcosa. Anzi sì, non mi piacevano nello stile. “Chi li ha scelti?” meditai. Ma se quella era la mia casa, dovevo partire da lì. Tra quelle mura c’era il mio passato e lo dovevo disseppellire. Estrarlo come il sale dalla miniera. Con pericolo e fatica. Decisi che sarei diventato il detective dello smemorato. Sì. Avrei fatto questo. Simona fu gentile, mi riempì il frigorifero di cibarie scegliendo tra le cose che più mi piacevano. Che era solita prepararmi mia moglie. Non avendo elementi per controbattere mi limitavo ad annuire. Michele si disse a mia disposizione. Sebbene non ricordassi nulla mi lodai. Se quello era il risultato, ero stato un bravo padre. Mi guardai intorno, cercavo, cercavo senza sapere cosa. Mi incuriosì, venni attratto, da una cornice verde e intarsiata. Stava attaccata alla parete dello studio, il posto in cui al momento mi trovavo.

Era una laurea, in Lettere e Filosofia, con un nome: Pietro T.; c’era una data di nascita: 14 luglio del 1945 e una di conseguimento: 14 luglio 1970. Pensai alla casualità della cosa. Mi spostai verso la libreria. Era stracolma di libri, volumi, opere. Su una copertina lessi: “Platone, apologia di Socrate”. C’era da perderci la testa. “Non c’è da stupirsi” pensai, “ sono un laureato”.

 

Aprii un’anta e, sebbene le mani tremassero un poco,  presi un libro a caso. Lo tenni chiuso per un poco stretto tra le dita. Speravo che captasse il mio smarrimento, il mio sentirmi “niente”, e mi rivelasse qualcosa. Cominciai a sfogliarlo. Qualcosa scivolò dalle pagine aperte. La raccolsi e mentre lo facevo sentii un tuffo al cuore. Era un quadernetto con la copertina nera bordata di rosso. Lo riconoscevo, era qualcosa che avevo vissuto, era qualcosa d’importante. Sapevo, me lo dicevano i brividi lungo la schiena, che già lo avevo tenuto, letto, studiato. Se non era fonte, c’era un pezzo del mio passato. Cominciai a leggere: ROMEO: “Non so dirti chi sono, adoperando un nome. Perché il mio nome, o diletta santa, è odioso a me stesso, perché è nemico a te. E non di meno strapperei il voglio dove lo trovassi scritto…”. Continuai, senza più leggere, a recitare. Sapevo quei versi a memoria. Mi fermai quando mi accorsi che Michele sorrideva. Mi spiegò che da ragazzo avevo presieduto a diverse rappresentazioni teatrali. Scolastiche e non. Lo sapeva perché glielo avevo raccontato. «Giulietta e Romeo è stato il tuo trionfo. La tua incoronazione a regista e attore», diceva mio figlio. Poi avevo lasciato. Quella scoperta, sebbene una goccia nell’oceano, mi rese felice. Nella mia memoria qualcosa s’affacciava. Michele, per incoraggiarmi, mi mise a conoscenza di una cosa. Al centro sociale di Sant’Agata li Battiati, (in provincia di Catania, n.d.r) comune in cui abitavo (e dove abito tutt’ora) offrivano dei corsi per gli anziani con voglia di vita. Erano di dizione, recitazione, espressioni corporali, per concludersi con rappresentazioni teatrali.

Perché non provare? Non mi feci pregare. Al centro conobbi Maria, una delle insegnanti, e tutti gli altri frequentatori. Maria fu cordiale e simpatica e, all’incirca, aveva l’età mia. Mi piacque, e io a lei. Cominciai a uscire di casa con passo solerte. La flemma l’avevo lasciata da qualche parte. Ogni giorno ascoltavo, imparavo e insegnavo. Sì, insegnai.

Dai cassetti della memoria riaffiorò quello che un tempo avevo appreso. E non era poco. Così proposi  ai colleghi di allestire “Giulietta e Romeo”. Uno spettacolo teatrale senza molte pretese, dato il poco tempo di preparazione. Solo 15 giorni. Io avrei impersonato il ricco Montecchi, a Maria affidavo il ruolo di Giulietta. Mi premeva, cercarono di dissuadermi, insistetti, li convinsi. GIULIETTA: “Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo stesso. Ovvero, se proprio non lo vuoi fare, giurami soltanto che mi ami, e io smetterò di essere una Capuleti”. Guardai Maria e mi persi nella dolcezza del suo sguardo. Riconquistai la gioia non la memoria, però. Il detective dello smemorato era sempre in azione, ma non  portava nuove. Erano ad attendermi. Un giorno a casa  trovai Simona e con lei una donna. Urlavano. Mia figlia diceva: «Devi scomparire», e l’altra: «Devo prima spiegare». Fu un attimo e ricordai tutto. Venni catapultato a quella sera, di un mese prima, che mi trovava con Simona e Shila in quell’assurda situazione. «Calma, calma» dissi con serenità, «Il detective ha concluso il suo operato». Forse capirono, forse no. Shila tenne a chiarire una cosa: non era una donna poco seria, aveva avuto paura per i suoi figli, rimasti nel suo Paese in condizioni precarie, e li avrebbe voluti aiutare. La ripresi con me, con il plauso di Maria, quando le raccontai la mia vita.

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