“Ciao papà” di Edvige Migliardi, pubblicata sul n. 39 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Edvige Migliardi
23 aprile 2016: sono felice, sto partendo per Trieste. Solo per due giorni: 24 e 25, il 26 sarò già di ritorno. Il lavoro mi aspetta, ma mi sono voluta concedere questa pausa, nonostante le difficoltà economiche e di salute: un viaggio così lungo, ripetuto a due giorni di distanza, è faticoso, ma i miei genitori e le mie nipotine sono là. Non li vedo da febbraio e li rivedrò a luglio. Non voglio aspettare, non riesco. Parto. Con mia sorella mi sono accordata per festeggiare i 60 anni di matrimonio dei nostri genitori. Data dell’anniversario: 21 aprile. Loro non si aspettano la festa che abbiamo organizzato io, Daniela e Simona. Tante telefonate e messaggi tra noi: «Cosa facciamo? Ristorante? Chiesa? Confetti, torta?». Tante idee e finalmente tutto è pronto. Arrivo tardi e con me ho le piccole foto del loro matrimonio da attaccare alle scatoline dei confetti. Siamo eccitate come bambine: mia figlia, a casa, ha già il bouquet di rose bianche da dare alla mia mamma all’ingresso in chiesa. Le due bimbe, Carolina e Laura (nipote e pronipote) porteranno un piccolissimo bouquet uguale alla “sposa” e Sara, la piccolina, avrà una rosa bianca appuntata al vestitino. Andiamo a dormire complottando felici, al mattino presto Daniela ritira la torta. Bella, con la loro foto sopra, giovani e sorridenti 60 anni fa. Iniziamo a vestirci: la mia mamma non sospetta nulla, ma come sua abitudine si fa bella per uscire a pranzo con noi; papà si veste e resta seduto impaziente fino alle 10.45, quando lo chiamiamo per uscire. Il sacerdote ci aspetta per le 12, non vogliamo fare tardi. Siamo elegantissime, io, Daniela e mamma. Usciamo dalla camera e notiamo papà che, mentre si mette il cappello, barcolla, appoggia la fronte allo specchio, tocca l’armadio. Gli chiediamo se sta bene, si gira e subito Daniela nota la bocca storta da un lato «Papà, non ti senti bene?». Gli metto le braccia sotto le ascelle e lui si abbandona a me. Lo facciamo sedere. Io e Daniela ci guardiamo sconvolte, uno sguardo di terrore, paura, agitazione pura. Chiamo mio genero per chiedergli aiuto: speriamo in un malore passeggero, come altre volte, ma ci rendiamo ben presto conto che la cosa è grave. Chiamiamo il 118: lui balbetta, non si regge sulla seggiola, scivola di lato. L’ambulanza lo porta via, Daniela va con lui, io resto con mamma, terrorizzate. Truccate ed eleganti, non osiamo esprimere le nostre paure. Chiamo la chiesa e il ristorante per disdire tutto e arriva la telefonata di Daniela dall’ospedale. «La situazione è gravissima. I medici vogliono intervenire con la trombolisi, una terapia d’attacco che però ha bisogno dell’approvazione dei parenti. Non voglio essere sola a decidere. Vieni subito». Mamma non può restare sola: chiamo mia cognata e le dico di venire al più presto a casa. Poi chiamo un taxi: non riesco a fare il numero, sono terrorizzata. Salgo in macchina e il tassista si rende conto della mia situazione: guida veloce e, arrivati in ospedale, parcheggia e mi accompagna all’ingresso. Io non ce la faccio a rimanere lucida.
Arrivo in reparto e trovo Daniela ad aspettarmi: hanno già fatto la terapia, ora bisogna aspettare, ma le speranze sono poche. 24 ore di attesa! Papà è agitato, non apre gli occhi, non li aprirà mai più. Vuole scendere, andare in bagno, chiama mio fratello, vuole essere aiutato. Uno strazio. Finalmente si quieta, ci mandano a casa. Mamma è sconvolta: le diciamo che avevamo organizzato una festa, ma ormai la felicità del mattino è solo un ricordo. Andiamo a letto, stremate, ma alle due squilla il telefono: è l’ospedale. C’è stato un peggioramento, chiedono se vogliamo andare per vedere papà prima che entri in terapia intensiva. Mamma è terrorizzata, non vuole restare sola, rimango con lei; Daniela corre in ospedale. Io mi arrabbio con mamma: ho paura che papà se ne vada e che io non riesca a vederlo. Daniela torna all’alba: la situazione è precipitata, un embolo polmonare ha peggiorato il quadro generale. La mattina io e lei ritorniamo da papà, in coma: è sopraggiunta una forte emorragia celebrale. I medici ci dicono chiaramente che bisogna solo aspettare che sia tutto finito. Daniela e io rimaniamo quattro giorni accanto a lui: non ci allontaniamo nemmeno per mangiare o andare al bagno. Mio fratello viene per portarci via, ma noi resistiamo: gli parliamo, lo carezziamo. Daniela gli tiene la mano, io gli massaggio, leggera, il cuore. Mentre sono accanto a lui, penso alla nostra vita insieme, di padre e figlia, e mi vengono in mente tanti flash. Tu che mi insegni a nuotare, ricordi? A Torre del Greco. Io, orgogliosa, ho fatto lunghe nuotate con te dopo aver imparato; tu che mi accompagni in pizzeria con le amichette di classe e poi fai finta di non avere i soldi per pagare il conto, tanto per scherzare; tu che, quando partorisco Simona, vieni in clinica per vedere come allatto e io mi arrabbio perché ho vergogna.
Tu che, quando Simona vi dice che sareste diventati bisnonni, le compri un pupazzo rosa che più rosa non si può e ancora non si sa il sesso.
Mi hai aspettata per salutarmi, vero? Daniela mi ha detto che chiedevi: «Quando arriva Edy?».
Sono arrivata giusto in tempo per vederti e farti mangiare la sfogliatella che ti avevo portato. Arrivano Nando, sua moglie, suo figlio con la compagna. Noi ci siamo sempre: abbiamo fatto una notte in bianco vicino a lui, dopo aver chiamato il prete per dargli l’estrema unzione. Le infermiere ci aiutano a pulirgli il sangue che esce a tratti dalla bocca. Mamma, nonostante le condizioni precarie e la paura degli ospedali, viene a salutarlo. Le facciamo capire che c’è poco da fare, la portiamo vicino a lui. Sono ore che lui non reagisce più, ma alla voce di mamma si agita, cerca di parlare: i medici dicono che sono riflessi incondizionati, che non dobbiamo dare peso alla cosa, ma noi sappiamo che lui la sente, riconosce Mamella come la chiamava. Mamma vuole ritornare il giorno dopo: vuole dirgli che se, qualche volta, ha perso la pazienza non era per cattiveria, ma perché anche lei era stanca. Gli rimane vicino, gli stringe la mano, ma non c’è reazione. Lo sedano per non farlo soffrire. Io e Daniela vogliamo restare con lui, abbiamo messo in conto un’altra notte accanto al suo letto, ma i nostri fratelli ci convincono a tornare a casa per riposare, mangiare qualcosa. Andiamo via a malincuore, solo due ore, e lui ci lascia così, mentre è solo. Squilla il telefono di casa: mio fratello, appena arrivato in ospedale, chiama per dirci che papà è andato via, per sempre.
Sette mesi fa, quando è nata la seconda bimba di mia figlia Simona, Sara, aveva gli occhi azzurro cielo come i tuoi e tu orgoglioso le hai detto «Te arrubbat l’uocch mij» (Hai rubato i miei occhi). A noi, oggi, restano gli occhi di Sara come tuo ricordo: ogni volta che li guardo, è come guardare te. Ciao papà.
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