Tra le storie vere apprezzate dalle lettrici questa settimana, la più votata è “La fotografa” di Guglielmo Pizzinelli, pubblicata sul n. 46 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Jacques M. raccolta da Guglielmo Pizzinelli
Per essere già maggio, quel sabato era freddo e piovoso, mentre scendevo con passo cauto per quella stradina acciottolata verso il centro di Trieste. Con quelle strade inclinate verso il porto e il mare, la città mi ricordava molto Genova, dove avevo vissuto qualche anno. Nei giorni di bel tempo, mi avventuravo invece in passeggiate panoramiche nei dintorni o sull’altipiano carsico, in cerca d’ispirazione. Stavo infatti seguendo un corso articolato di fotografia, e quel sabato era l’ultima giornata. Gettai un’occhiata all’orologio: ero in leggero ritardo. C’era anche l’inaugurazione di una mostra al centro “Contemporary” con le fotografie dei diplomati al corso dell’anno prima. Mi affrettai giù per la tortuosa strada e arrivai alla scuola, dove seguii la mia lezione. Al termine, ci avviammo alla spicciolata, con qualche compagno di corso, alla mostra. Quando entrai nel salone dell’esposizione, c’erano una cinquantina di persone che si alternavano davanti alle pareti dov’erano appese le fotografie.
La sala era illuminata fievolmente e le persone non restavano che un paio di minuti a guardare le foto. Alcuni si fermavano a esaminare quelle che secondo loro erano più particolari. Scorsi un po’ velocemente le foto della lunga parete di fondo, fino a una – un azzardato controluce – davanti a cui stazionava una donna che poteva avere sì e no trent’anni. Aveva un viso quasi perfetto, regolare, con zigomi aggressivi ed eleganti allo stesso tempo. Stava telefonando, parlava in tono sommesso ma rapido dentro il microfono degli auricolari. Sembrava descrivere all’interlocutore quel controluce che raffigurava architetture classiche e più moderne nel tipico contesto urbano di Parigi, la mia città natale.
Ero un po’ incantato dai suoi lunghissimi capelli biondo scuri e a un tratto mi accorsi che lei aveva smesso di conversare al telefono e mi stava fissando con intensità. Non appena spostai lo sguardo sui suoi occhi azzurri, lei lo distolse e si allontanò. Imbarazzato, proseguii il mio tour finché una signora un po’ cicciottella stretta in un tubino azzurro non cominciò a parlare con voce rauca e fastidiosa al microfono, introducendo i premiati.
Improvvisamente annoiato e non molto impressionato dalla mostra, decisi di andarmene e uscii. Pioveva ancora e c’era un po’ di vento. Proseguii lungo la via verso il centro e d’istinto entrai in una confortevole e ampia caffetteria da tè in cui non c’erano che pochi avventori e una musica soffusa e rilassante. Sedetti a un tavolo contro la parete di fondo e ordinai un tè e un croissant. Ero ancora a metà della brioche, quando la donna che avevo osservato alla mostra entrò nel locale. Aveva i lunghi capelli biondi fradici, le guance arrossate e lo zainetto che gocciolava. Con lei c’erano un giovane, probabilmente della stessa età, con un berretto di cotone scuro e un giubbino blu intenso, e dietro una ragazza indiana che indossava un abito colorato corto, da cui sbucavano lunghissime gambe scure e perfette. Seguii con lo sguardo il terzetto, che attraversava la sala togliendosi le giacchette umide e prendeva posto a un tavolo a qualche metro, ma dritto davanti al mio.
La ragazza bionda e l’amica indiana estrassero degli iPad, e si misero a mostrare una serie di scatti fotografici al giovane che annuiva e puntava il dito evidenziando i particolari. Arrivò poi la cameriera con le loro ordinazioni e, mentre le serviva, la bionda si girò un poco e mi scorse. Spostò allora un po’ la sedia, in modo da non doversi girare troppo per osservarmi e mi restituì lo sguardo, con quei suoi occhi intensi e limpidi. E a un tratto, le sfuggì un sorriso. Effimero e tiepido, ma sincero, non affettato. Trasmetteva vanità e curiosità. Sorrisi di rimando e poi abbassai lo sguardo sul cellulare su cui erano arrivate due notifiche. Le lessi distrattamente, e un attimo dopo, avvertii una presenza accanto a me. Quella donna, che odorava di pioggia e di lavanda, era accanto al mio tavolo. Indossava un vestito di stoffa coloniale, grigio e sabbia e portava sneakers alla moda con calzini corti scuri. Sopra al vestito, aveva una felpa di cotone a maglie larghe, beige.
«Lei era alla mostra di fotografie» disse, come se fosse un poliziotto. «È quello che guardava me e non le foto».
Esitai, poi risposi che non capivo se era un rimprovero o una dichiarazione d’orgoglio. Lei prese posto sulla sedia di fronte a me, con un fugace «Posso?» e prima che potessi fare un cenno continuò: «Grazie. Sa, io e i miei amici ci chiedevamo se lei non fosse un fotografo famoso». Stava seduta dritta, ma con naturalezza.
«Fotografo sì, famoso non penso».
«Ecco, infatti» disse, e io non capii se c’era dell’ironia. Vidi che al polso portava un orologio dall’aspetto maschile, da sub. Mi chiese se avessi seguito il corso e io dissi che sì, che ero nel gruppo “esperti.”
Lei solo “avanzati”, disse. «Stava guardando la mia foto, sa? Quel controluce» disse in tono casuale. Risposi che secondo me era molto bella, fissandola negli occhi, non sapendo più se parlassi della foto o di lei.
Fece una smorfietta buffa. E mi rivelò che stava facendo praticantato da uno dei migliori fotografi pubblicitari del nord Italia. «Davvero? Campagne, cataloghi o ritratti? In cosa si specializza?».
Rispose che era più orientata ai paesaggi e che voleva fare tutto un percorso, magari allestendo mostre anche sue. Per poi trasferirsi al nord, in Scandinavia, e ritrarre quei luoghi per farne un libro. «Poi magari fermarmi, che so, a Bergen. E là aprire uno studio, forse».
Poi si rassettò un poco i capelli umidi, con un gesto sensuale. «È mai stato in Norvegia, lei? Sembra francese, dall’accento».
Dissi che c’ero stato saltuariamente per lavoro, ma che non potevo dire di conoscerla. E sì, ero di Parigi. Le chiesi se volesse che ordinassi qualcosa per lei.
«No, grazie» rispose.
Sorseggiai il tè e le chiesi come mai aveva lasciato da soli i suoi amici. Lei m’ignorò e continuò: «Lo sa, in realtà io adoro le giornate di pioggia. Lei no?».
Non tanto, pensai.
Un movimento attirò il mio sguardo e vidi la sua amica che faceva gesti interrogativi del tipo “ma che diavolo stai facendo?”.
Vedendomi confuso, disse di non far loro caso: «Sono un po’ matti. Anch’io, credo, visto che li frequento». Poi mi chiese quanto mi sarei fermato ancora a Trieste. Sorseggiai il mio tè per un momento, guardandola stare dritta come una maestrina e mi chiesi come dovevo stare io; così, passai a raddrizzare furtivamente la schiena e le spalle.
«Qualche mese ancora. Conto di trasferirmi in Toscana dopo l’estate».
«Non so se sia una buona idea per un francese. Più per gli inglesi, la Toscana, non crede?» replicò.
Feci una smorfia da attore francese e sbuffai: «La sua è un’osservazione un tantino snob. Come mai è venuta a sedersi al mio tavolo?».
Lei arrossì, improvvisamente imbarazzata. Abbassò lo sguardo sulla mano curata. «È per via di come mi guardava, alla mostra. Mi piaceva». Si soffermò a osservarmi, concentrata. Mi chiese dove abitassi, a Trieste. Le dissi il quartiere, non la via. Mi chiese dove avessi intenzioni di stabilirmi, in Toscana.
«In provincia di Siena, credo».
«Ho una cara amica che abita nel Chianti. Perché non nel Chianti?».
Scossi la testa. Non mi attraeva quanto la Val D’Orcia.
«Parlo molto bene francese» disse. E in un francese davvero ottimo, mi raccontò che da piccola era stata praticamente tenuta ogni anno, per sei mesi, da una zia di Lione. Poi era tornata in Italia per seguire il liceo e quindi il Dams.
«Lei quanti anni ha?». Risposi che ne avevo 50.
«Non li dimostra. Direbbe che io ne ho 32?».
Non mi sembrava affatto, le dissi.
«Ecco, ha praticamente detto che sembro vecchia, lo so». Scossi la testa, ma lei continuò, sempre in francese: «Mi vede così, tutta infradiciata, che le attacco un bottone come una pazza. Con questa testa che fa paura». Alzò gli occhi su di me e sorrise languida: «Chiedo perdono, non devo essere un bello spettacolo, tutto sommato».
Le risposi che era un bello spettacolo, tutto sommato, anche con i capelli bagnati e che i suoi occhi erano meravigliosi, così luminosi. Lei rise e ringraziò con una tipica smorfia molto francese.
«È sposato, lei?».
«Si definirebbe curiosa, lei?» ribattei. Poi annuii, e dissi che ero fidanzato, e che lei era in Canada per una cattedra temporanea all’Università.
Lei annuì. «È innamorato della sua fidanzata? O è una domanda troppo indiscreta?».
Risposi che alla prima indiscrezione l’avrei ammonita ma glissai sulla risposta vera e lei finse di non accorgersene. In realtà, la mia relazione con Lauren era un colabrodo e stare lontani non faceva altro che giovarci.
Lei spinse le mani avanti sul tavolino, e all’improvviso desiderai chiederle dove avesse acquistato quello strano “Diver” che portava al polso, e che non era per nulla femminile.
«Sa» proseguì imperterrita: «Di solito non sono eccessivamente importuna. Come adesso, dico». Fece una pausa, per vedere se la smentivo oppure no, ma io non mi lasciai sfuggire il minimo indizio; così riprese: «Sono venuta al suo tavolo perché mi è sembrato che lei alla mostra volesse chiedermi qualcosa. Non so, il modo in cui mi fissava. Lei ha un viso assolutamente trasparente».
Dissi che aveva ragione, che lei mi aveva incuriosito molto ed ero contento che fosse venuta al mio tavolo.
«E quindi, dato che il mio istinto ha avuto ragione, eccomi: cosa voleva chiedermi?».
Risposi che lì per lì avevo pensato di chiederle il nome e cosa facesse nella vita. Ma scelsi di dire altro: «Non so, forse se aveva mai prestato il volto come modella per delle pose fotografiche».
Inclinò la testa, e in italiano rispose che le sembrava una cosa buffa. E che però aveva l’impressione che non fosse questo ciò a cui stavo pensando, mentre la guardavo alla mostra. Aveva ragione, non lo era.
«Lei mi piace. Voglio dire, la trovo interessante. Ha dell’attore di cinema, più che del fotografo. Penserà di me che sono sfacciata, ma mi sto esercitando a essere più socievole. La mia amica Lara», fece un cenno alla ragazza bruna, «dice che sono una persona terribilmente asociale. Ma mi dice che lo sono perché sono anche un’artista. Sarà una deformazione professionale, no? Anche quella di riconoscere magari l’attore che è in lei, non le pare?».
Attese conferma silenziosamente, mentre nella mia testa stava passando severo il pensiero che, a 50 anni suonati, stavo provando il desiderio di conoscere meglio quella donna che ne aveva 18 meno di me. Una sensazione che solo il giorno prima avrei definito ridicola, fuori luogo, da vecchi sbalestrati.
Le dissi di no, assolutamente, tutto il contrario: la trovavo molto spigliata e socievole. E poi aggiunsi: “Intrigante e sensuale per certi aspetti”.
Lei rise.
Le dissi il mio nome e le chiesi il suo.
Sospirò. «Il mio nome di battesimo è Selvaggia. Non è un nome ridicolo?».
Le dissi che era un gran bel nome e lei scosse il capo, sorridendo. Poi chiesi se le succedeva spesso di provare l’impulso di avvicinare uomini più anziani di lei.
«Mah, è una cosa che devo aver preso da mia madre. A lei sì che succedeva spesso. Lei era una donna molto più passionale, era un’estroversa. Papà era introverso, invece».
Vedendola rattristarsi un poco a quel pensiero, corsi a rimediare e mi scusai per averle fatto una domanda che forse sembrava inopportuna.
Ma lei alzò gli occhi al soffitto, finse di rifletterci e poi mi guardò con espressione soddisfatta, e disse: «No, non è vero che l’ho preso da lei. L’ho inventato. Volevo solo vedere che faccia avrebbe fatto. Ma papà sì che era introverso».
Scoppiammo a ridere, io risi molto più forte di lei. Finita l’ilarità restammo qualche istante a fissarci con il sorriso stampato sulle labbra, per il nostro scambio di battute infantile e giocoso. Mi piacque.
«Lei è uno dei parigini più simpatici che abbia conosciuto. Mi dispiace che non fossero tutti come lei». E lo disse sorridendo in un modo che mi incantò.
In quel momento fu come se tutto quanto nel caffè si silenziasse e si bloccasse e restasse appeso nell’aria.
I miei occhi indugiarono nei suoi e i suoi nei miei, e io sentii i brividi di qualcosa a cui non sapevo dare un nome, ma che era un sentimento e una sensazione che non avvertivo e non provavo più da tantissimo tempo.
«Quando?» disse lei, e io chiusi gli occhi e cercai di snebbiare la mia mente da tutte quelle sensazioni.
Quando? Sapevo cosa volesse dire…
D’un tratto sentii una presenza davanti a me, e mi accorsi che Selvaggia stava rivolgendo lo sguardo alla sua amica bruna.
«È ora di andare» disse l’indiana alta. «Faremo tardi, altrimenti» aggiunse come a giustificarsi per l’interruzione.
Aveva l’espressione austera, le labbra corrucciate e occhieggiava l’amica come a chiederle cosa stesse facendo con me.
Provai un sottile senso d’imbarazzo e al tempo stesso d’irritazione per quell’invasione della nostra privacy. Ma l’attimo era andato, passato, sfumato.
Selvaggia annuì. «Sì, Lara. Arrivo, un secondo».
Lara si allontanò senza un cenno verso il ragazzo che era venuto con loro, mentre Selvaggia si alzava, ricomponendo in qualche modo i suoi vestiti.
«È stato un piacere conoscerla» disse. Solo in quel momento capii che probabilmente non ci saremmo mai più rivisti. Un lampo di paura irrazionale mi attraversò il cervello e senza capire come, mi stavo già chiedendo come avrei potuto ricontattarla, ma non dissi nulla.
Lei mi sorrise, e si chinò sul tavolino con in mano una penna apparsa dal nulla. Su un lembo di un tovagliolino scrisse un numero di cellulare. Annuii in silenzio.
Lei si raddrizzò e fece un cenno di saluto. Mi alzai anch’io per stringerle la mano, ma lei si avvicinò così tanto a me che non c’era spazio per tenderla.
«Se non fossi fidanzato, le direi che lei possiede una bellezza affascinante, irresistibile».
Lei sorrise come se le avessi rivelato un’assurdità. Si avvicinò con la bocca al mio orecchio e sussurrò: «Be’, non vale. L’ha appena fatto». E andò via.
E io seppi che l’avrei chiamata il giorno seguente.
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