L’autrice, che ha partecipato a ConfyLab con questa storia, si presenta cosi: “Da cinque mesi tutto risulta naturale, fluido, senza resistenze. In una creatività libera come un ragazzo. Che si mostra sulle immagini fotografiche e sul sito di Sonia Fattori. Che modifica nel progetto della Scuola Holden. Che riempie in un quotidiano pieno di disegni e di gioia. Dimenticavo… Sono nata il nove febbraio del ’57 nella città stellata. Occhi grandi. Passo fermo. Mani salde. Che straordinaria, minuscola alchimia si andrà svelando?”
La misura del silenzio. Come un capello che si arrotola ostinato e sinuoso in fondo alla coppa di un lavandino. Sono passati quattordici anni, seimiladuecentocinque giorni. Una vita intera. Da quando ho detto no a due settimane dal matrimonio. Poi, un anno attaccata alla speranza accorata e inutile di un ritorno. E la discesa all’inferno dello strappo, dell’abbandono, dell’incapacità mutilata di avere cura di me. Non so cosa mai accadde in fondo al mio cuore, che timore si mosse a dire “Ti scelgo” all’unico uomo che mi aveva preso l’anima. Quello che sapeva tenermi il sorriso sulle punte delle dita. Colui che mi raccoglieva tutta in un abbraccio. Chi mi chiamava amore e c’era tutto il senso di una prima volta. Quando vinceva con forza la vita. E io imparavo a trovare il senso di un perdono in molti aspetti della mia esistenza. Scrivere? Non per fermare il tempo. Ma per fissare la forza travolgente di un’emozione. Fissarla. Fissarla. La gioia. Ho perso le parole della gioia, dei momenti felici di felicità, dei miei dei suoi, fiori rarissimi, impalpabili come in ogni uomo e in ogni donna. Fissare per non perdere. Ora non posso ricordare. Perché il ricordo, porta quel senso di perdita che diventa non solo dolore, ma anche colpa o rimorso. A me resta il senso di una straordinarietà che non ho saputo e potuto né accogliere, né conservare. Non avevo mai visto… Così, e così tanto… di tutto, di straordinario, negli occhi di un uomo. Né tanta conoscenza, né tanta saggezza, pulita da sovrastrutture inutili; come in una, moltissime vite in esperienza e, in quella scelta, la parte migliore di tutte. Non riesco a spiegare. Nemmeno quanto, nemmeno come sono stata amata, né da chi. Io che non avevo mai vissuto, ma solo immaginato di vivere in una scrittura che ogni tanto parlava di amore, senza in realtà averlo mai conosciuto. E così, vivere “nel troppo tardi”, in un tempo traslato che coinvolge non solo me stessa ma tutto il resto. Ogni angolo, ogni lato ne sono impregnati, come da resina. La malinconia, l’amante della sera. “L’acquario di Genova che non vedrò. La cava con il suo paese abbandonato. Le valli, i luoghi, tantissimi, che avevo scoperto, a me mostrati per amore. Quel dono così unico non ha traduzione, soffio sottilmente, ma è ancora doloroso, proprio assolutamente mio. Il dolore. Nemmeno questo, come tutto quel verde palpitante di vita autentica, nessuno me lo può rubare. Non credo sarebbe così tenace se moltissimo non mi fosse stato generosamente dato.” Leggo in quei fogli lontani nel tempo. … Prima arrabbiata, nel mio silenzio, e poi intontitaconfusainaffidabiledisalecome pietrificata e il vuoto senza eco di una cisterna. “È un rimando all’esistenza e quindi all’amore”. Che soffrissi di una patologia psichiatrica, io non lo sapevo. Ora dico “sono una bipolare” ed è come un neo vicino alla tempia. Quando sono allegra ci scherzo su, è un fiore assurdo all’occhiello. Quando ci siamo lasciati è stata la follia. Da allora, da anni, sola, percorro due strade. Due donne, l’una con la psicoterapia, l’altra con la terapia farmacologica. La norma, l’equilibrio, il lavoro, gli amici, l’affitto e le bollette da pagare. Una vita normale. Ho tentato con qualche uomo di ricostruire una storia importante e dei progetti. Ma lascio, il più delle volte. O vengo lasciata. Senza discutere, senza parola, senza traccia. So che di fronte alla responsabilità, io mi sottraggo. Entro nel buio, come una ladra. Rotolo in un sonno senza ombre. Ho scritto la mia vita sulla pelle; come un balsamo prezioso e profumato, parole scivolano tenui e come seta. Penso a lui che mi ha amato per amore e non avrebbe mai accettato di amarmi per dovere. Né forse lo avrei voluto io. Mentre mi sento una donna di nebbia. A volte fragile e lontana. Ritirata in uno spazio vuoto. Senza dolore e senza gioia. A dirmi parole che non ho più sentito. In carezze che non ho più avuto, né dato. Il vuoto accogliente come un guscio, liscio come una pelle d’uovo. Dopo di lui, storie senza senso e il timore, devastante, di soffrire ancora. Impedirsi di amare, come un respiro trattenuto, come una luce spenta in fondo ad un corridoio. Ho cinquantaquattro anni. Sola e senza un figlio, so riempire il mio spazio dell’anima soltanto con la scrittura di lago e di fiume e che un po’ mi assomiglia. Tenera, mansueta anche in qualsiasi guerra io racconti. Trovo tepore e balsamo nel costruire case di forza e di amore. Dire. Sola come una piena, sola come una regina. “L’amore è silenzio. È così, l’amore è silenzio.” È profondamente vero. Ho costantemente abbracciato e mandato via. Raccolto e perduto. Amato e odiato. Costruito e distrutto. Di fuoco che scalda e di gelo. Di terra e di sale. Costantemente. Fino allo sfinimento. Trattenuto e allontanato. In grani perlati, tra le dita perdere l’oro di una sabbia sottile e da sempre cercata. Preziosissima. Nel greto di un fiume come avessi incontrato il mio grembo, dove morire in ogni convinzione. Nulla era quanto appariva. Era quello che era. Un vero costantemente partorito alla luce di una realtà inattaccabile, dolcemente fortemente palpitante. Come finalmente un dono toccato, preso, acquisito. E dove nascevo in qualche modo intatta. Fino a quando ho potuto. “Amore, mi hanno detto che ci sono fiori nel deserto che durano una notte sola, è vero? E una bellissima città abbandonata in mezzo al nulla. Non avrei mai creduto che il deserto fosse così vivo. Ma è veramente così?” Non ricordo il nome, non ricordo più nulla. Sì, mi ero sentita dire, ci sono stato, descrizioni e progetti e risate. “Ma veramente, ma veramente tornerei con te in qualsiasi parte di mondo, basta che lo desideri. Amore sei bellissima quando sento che finalmente desideri quanto hai sempre desiderato.” Desideravo è vero desideravo desiderata. Finalmente al mondo, tra le uniche braccia realmente abbracciate, musica alla radio e di nuovo le lacrime, ora di un testo: “traduci, per piacere”…e poi tre baci al profumo del pane appena sfornato, “guardati, sei buffa, hai la faccia sporca di farina. Ti amo da morire si dice così, ma è sbagliato, che ti amo da vivere ti amo da vivere, quando ridi, ridi proprio tutta”. Non ho mai imparato a fare il pane come avresti voluto. La rosa del deserto continuo a rotolarla tra i palmi non ho nemmeno chiesto il permesso, se posso toccare questo oggetto così minuscolo, è come concentrico. Mi manca la sua bellezza della sua parte più bella, quella luce d’intelligenza pura. Come i fiori impossibili, i nomi delle città, la guida pacata di notte. “Sto crollando dal sonno.” “Dormi, ti chiamo, amore, quando arriviamo a casa, dormi, ti chiamo, amore.” E quel prato pieno di lucciole, un tappeto illuminato a giorno, e il desiderio, ogni libertà di desiderare come il desiderio. Vivere. Dormo sola. Non respiro contro un altro respiro. Il mio letto è la mia isola. Né mescolo i miei sogni della notte a quelli dell’altro. Che non racconto al mattino, che non preparo prima di dormire. Tremo al pensiero della mia pelle contro di un uomo, una notte e una notte ancora e nel contempo ne ho una profondissima nostalgia. Nella solitudine il mio corpo si è andato dilatando, come ad invadere lo spazio in un letto troppo grande. Grandi i seni, tornite le gambe, prominente l’addome. Largo il corpo che nessuno contiene, è un corpo che non fa ombra. Il timbro dell’ordine emotivo: un’altra delle esperienze che ritrovo dopo aver spento la Olivetti TOP 100, con la differenza che spegnevo le luci su una piccola casa profumata. – “Amore, lavora tranquilla, vado a leggermi Focus di là.” -Poi ero io a piombare nel letto, “fammi vedere, dimmi”, ed era poi sfogliare il giornale insieme, e quel guardarsi l’un l’altro e guardare chiacchierando, “amore, vuoi dare un’occhiata a questo articolo?” Mentre ero piena di quello che sentivo e trovava minuscole espressioni che avevo il diritto di fissare e poi l’amore che capita con la dolcezza che non prevedi, a gesti lenti, senza fretta, con una dolcezza infinita. Le mani la pelle il sesso che dicono prima di tutto ti amo. Questa sera ci amiamo così, in un sussurro, lentamente, che non è necessario il piacere come orgasmo, ma il piacere della tenerezza, tenerezza in tenerezza, in quel dolce movimento ritmico e lento occhi caldi nel mio colore e occhi chiari nel suo colore. Così reciprocamente compresi, una volta l’uno dentro l’altra, ed io intorno a lui e lui attorno a me. In se stessi, l’accoglienza infinita dell’altro. Scrittura luminosa, pallida assenza. Sopra ogni cosa ricordo la paura. Quella di scegliere in un anello, la mia vita con lui. Dividere il passo e la casata, la cucina e il poggiolo, l’ombra e il respiro. Ora non esiste un dire. Quella manciata di numeri rossi capitati a lui per caso, tra le mani ad una pesca di paese. “Molta fortuna e guardandovi insieme anche molto amore” ci disse la signora del chiosco, una donna di mezza età, scura e sorridente. Stretta sotto il suo abbraccio, come a possedere tutte le stelle e la luna, stavo radiosa e quieta, inconsapevole della guerra che avrei di lì a poco scatenato. Tenero amore, appassionato e vero. Unico amore. Passare dal tuo cuore al mio. Infinitamente come ad un passaggio. Stretto ed obbligato. Maturante e liberatorio. Libero e forte come l’oceano. Terra promessa e mai calpestata. Canto ed aurora. Ambra luminosa ed oscura. Non c’è paese più incantato che ci si ritrovi a scoprire se non il sito stupefatto e inconsapevole della propria anima. E amata riamando, e ricevendo e restituendo manciate di doni, in profonda tenera tragica consapevolezza, io andavo scoprendo parti chiare e parti violacee di me. Come in ogni autentico amore. Che fare, in una storia importante, se non si aprono porte di ombra e di corallo su quello che siamo? Ed io andavo scoprendo, passo dopo passo, la mia potenza e i miei limiti. Amore di una terra lontana e vicinissimo. Amore cercato da sempre, amore che non potevo dire. Amore come l’acqua di una fontana e territorio vasto e inesplorato. Amore dagli occhi color caramello e dalla bocca dolce e forte come miele di castagno. Amore dalle parole come un segreto, amore di un piacere urlato. Amore che non posso più dimenticare, amore che segna il mio confine. Amore come una madre in piedi che non potevamo riconoscere né rinnegare. Amore dalle promesse che non ho mantenuto. Amore sulla musica delle tue parole. Amore con un profumo che ricordo ancora. Amore che non ho più rivisitato. Passo leggera da una stanza all’altra… Sulla musica di Enya, sui ricordi che sono tornati nitidi come i colori decisi di vecchie diapositive, sulla sua figura che è così profondamente impressa, marchio luminoso e potente, in fondo al mio cuore. Riconsegnare trepidamente quanto ho ricevuto, trasformarlo in segno che un soffio non cancella. La mia scrittura è tremante come un passero. In fondo non possiedo altro, mentre le lacrime scivolano lentamente. Quella musica mi accompagna a ricordare. Le corse e gli abbracci in una casa piccola dove trovavo il senso dei miei primi Natali. “On your shore” tradotto teneramente dalla sua voce sussurrata. Con lui ho cavalcato il grande cavallo dell’immodestia. Ho desiderato con tutta la forza del desiderio. Ho creato un legame che prima non c’era e accarezzato la stoffa del piacere fisico. Ho sentito scorrere il sangue nelle mie vene e battere il cuore all’impazzata che non sapevo come. Ho conosciuto i piccoli morsi di una gelosia immotivata e ho guardato il mio uomo con occhi larghi e chiari. Ho sentito mio, il suo mondo come se mi appartenesse. E fatta entrare la mia vita tra le sue mani belle come una catena. Ho pregato un Dio che non conoscevo e sono entrata in guerra quando era tutto facile e di una difficoltà estrema. Decidere, scegliere, essere al centro, fare, costruire, responsabilità ed azioni, ed io non sapevo come. Amare per la prima volta. Mentre ascoltavo la lingua sconosciuta dell’amore in un paese ospitale e straniero. Non ero pronta: di fronte al mare più bello della mia vita, ho girato le spalle e me ne sono andata. Ad una savana, ho scelto il deserto; alla ricchezza, la povertà; alla generosità, la sterilità; ad una stella luminosa, l’oscurità; alla musica, il silenzio. Scrivo ora con una tenerezza che mi viene da lontano e che palpita come una colomba. Scrivo senza domandarmi il perché, sospinta da una perfetta onda in piena. Con lui ho conosciuto tutto quello che dovevo sapere. Abbassare una cortina di parole taciute. Come un singhiozzo trattenuto, una tenera ferita aperta su una pelle di bambino. Non l’ho più rivisto ed abitiamo ad un passo. Non so della sua vita; eravamo oro fuso nella stessa coppa e ora viviamo due esistenze che non si incontreranno più, come rette intersecanti. Destinata a respirare ed a invecchiare senza più rivederlo. Starà amando, lavorando, vivendo, accarezzando, ridendo. Mentre io cammino nello spazio bianco dell’amore perduto. Inconcluso, che non è mai sfiorito. Lattescente come una possibilità. Non so quello che sarei diventata se lo avessi sposato. Non so come sarebbe stata la mia vita. Come avrei potuto stare. Conosco soltanto l’esperienza di quei quattro anni con lui che sono stati la mia unica famiglia. Il dono prezioso che avevo ricevuto. “… Stasera respira il vento. Ma così sottovoce che forse non esiste.”
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