L’autrice si presenta: Mi piace osservare la gente e per deformazione professionale, sono una giornalista, prendere appunti. Le mie storie nascono così: dal caos di pagine scarabocchiate. Un giorno spero di pubblicare una raccolta di racconti, ma per il momento sto ancora mettendo ordine tra le tante cose scritte
Nella testa i rintocchi di una campana, questa mattina suona a morto. Vestita di nero e a passi lenti cammino per la città come fossi a un corteo funebre. Non c’è folla dietro di me. Sono sola. Vado incontro alla sorte di un’altra giornata uguale, la stessa da due anni a questa parte. Sento il peso di dover salutare qualcuno, ma dal riflesso che appare in una vetrina so che addio devo dirlo a me stessa. Quando si muore non si dovrebbe sentire più nulla. Io invece sento tutto: il traffico frenetico della città, il sangue che ancora ribolle nelle vene e la vita che scorre veloce, come in un centro commerciale nel periodo dei saldi. Allora non sono morta! La mia è solo una morte apparente, un coma farmacologico dal quale devo svegliarmi.
Mi sento depressa, scarica, costretta a muovermi su un tapis roulant. Non c’è arrivo solo un poderoso dispendio di energie. Ma poi svanisce anche la voglia di correre. Ogni giorno riparto da capo, con tutto da rifare, senza vedere mai una fine. Insieme al peso delle buste della spesa mi porto quello del quotidiano, che grava addosso come un macigno. Bollette da pagare, curricula da scrivere, notti insonni e stipendi mai ricevuti. Eppure continuo, a schiena dritta come mi hanno insegnato. Sono grande ormai.
Mi convinco e lo faccio. Preparo una valigia di libri, qualche scatola di panni, degli album dei ricordi e vado a vivere da sola. Mi sono appena laureata. Infilo tutto in trenta metri quadrati, ma sono felice. Lascio la valigia vuota vicino alla porta d’ingresso e mi ambiento. Non c’è tempo da perdere. Il mondo là fuori ti vuole scattante e sempre sul pezzo, soprattutto se vuoi fare la giornalista. Dopo quasi dieci anni di gavetta capisco che non è abbastanza, non è mai abbastanza, allora mi pago un master. Nonostante il sacrificio e le finanze al rosso sono ancora felice. Finalmente lo stage. L’ennesimo. Ma questo non è come gli altri. Questo è il più importante. Mi sveglio la mattina soddisfatta di andare al lavoro. Anzi ringrazio che sia successo proprio a me. Torno la sera tardi, ma non importa io sono ancora felice.
Nessuno stipendio, né tantomeno un piccolo rimborso spese. Stringo i denti e investo i pochi soldi a disposizione per l’abbonamento dell’autobus e pranzi con i colleghi, per non sembrare del tutto un’aliena. E insieme a me stringono i denti anche i miei affetti. La mia famiglia mi aiuta più del dovuto, tirano la cinghia e tappano i buchi. Anche loro investono nel sogno.
Lo stage arriva dopo un anno dalla laurea, ma quello che c’è stato prima lo ho già dimenticato: le delusioni, i pochi soldi, i tanti colloqui e le fregature. Mi convinco che è fatta, sono orgogliosa di me stessa. Il resto andrà a posto. Il lavoro sarà ripagato, deve essere ripagato. Passano sei mesi, il contratto scade e tutto termina con un grazie e la solita frase: “in bocca al lupo, ce la farai”. Ma io sono ancora felice, ho una nuova esperienza in tasca e tanta voglia di fare.
Mi rimetto in moto. Non li conto nemmeno più i curricula inviati. Ma non importa, io sono ancora felice. Un altro “le faremo sapere” arriva veloce e indolore come quando ti strappano la ceretta per i baffetti. Un colpo secco ed è fatta. Ma invece di ritrovarmi con la pelle liscia mi sento irritata. I colloqui sono così, passi una settimana a scegliere come vestirti, ti svegli due ore prima e poi il tutto si conclude in mezz’ora. L’ansia da prestazione dopo un po’ svanisce. Ma arriva la batosta di contratti in nero, o mal pagati. Accetto. Lo faccio quasi sempre. Poco, alla fine, è meglio di niente.
Nelle email nessuna risposta. Solo domande. Ma le domande ormai le spedisco e basta, ho smesso di farle a me stessa. La risposta non mi piacerebbe. Tra gli scatoloni dimenticati nell’armadio inizia a mancarmi un pezzo: la mia indipendenza.
Guardo il pc a ripetizione ma, a parte le promozioni di Zalando e qualche pubblicità su come fare soldi facili comodamente da casa, nella posta non c’è nulla. Nessuna risposta. Forse è destino. Magari coincidenze, le stesse che mi portano a leggere l’oroscopo ogni mattina, cercando di adattarlo al mio essere. Ma sono ancora felice. Non mi manca nulla. Ho una casa. Sto meglio di molti miei coetanei.
E poi penso che sono solo a metà strada. Sono sudata e i piedi fanno male. Ma io sono ancora felice. Vado avanti. Mi dicono che là fuori è tosta. Ma non sapete quanto è dura qui dentro. Quando si rincorre un sogno bisogna aver pazienza, me lo ripeto in continuazione. Ma poi la vita reale non è proprio come ci aspettiamo, nessuno ci fornisce le istruzioni per l’uso. Bisogna tentare.
I giorni passano e vedo solo l’acqua della lavatrice rotta che si ostina a perdere e a gocciolare sul pavimento. E quella mini pozzanghera sembra ora un oceano nel quale affogare. Ci affogo appesantita dagli scatoloni mai svuotati, dai pensieri e dalle scadenze che impongo a me stessa. Mi siedo per terra, sopra l’acqua, e aspetto. Ma nemmeno io so più cosa.
I giornali, le riviste, i tg riportano esperienze di giovani trentenni strozzati dal mondo del lavoro. Continui stage, contratti part time, contratti di collaborazione, contratti a chiamata e lavoro gratuito, che ti spiegano essere formazione. Ma non è altro che volontariato. La sera ci sorrido su con qualche amico, parliamo dei conti da pagare e buttiamo giù sorsi di birra. Per lo più si sta a casa, uscire per locali costa e il mese è ancora lungo. Ma non importa, io sono ancora felice.
La mattina mi sveglio con i pensieri un po’ assonnati, ma non tradisco la mia routine: caffè e curricula. Ne invio ancora e ancora. Non solo inerenti alla mia posizione, inizio ad abbassare il tiro e a scegliere posizioni poco vicine ai miei studi, ma magari più fruttuose.
E mentre cammino in questa città meravigliosa in cui ho scelto di vivere penso che dovrei andarmene. Non lo so magari all’estero. Fare una prova. Ma riniziare in un altro paese mi spaventa. Questo è quello che mi dico. Ma sapete qual è la verità? È che non voglio andarmene, mi piace tremendamente casa mia. Mi piace la mia lingua, la stessa per la quale ho scelto appena diciannovenne di studiare italianistica e mi piace raccontare le mie storie qui.
Forse sono pigra e poco coraggiosa per questo sogno. I miei coetanei intanto emigrano all’estero. Mi rialzo e torno a studiare, a fare corsi, e qualche lavoretto per arrotondare senza allontanarmi mai dal sogno scelto da bambina.
Un trillo e il telefono si illumina. Un’email nella posta e non è una pubblicità. Non questa volta. Un’azienda mi fissa un colloquio. Dopo il solito “le faremo sapere” arriva finalmente un contratto e a me sembra di aver vinto alla lotteria. Collaborazione di sei mesi, part time. Va bene. Per ironia della sorte adesso cerco offerte di lavoro per gli altri. Mi occupo di questo. Dopo tanti curricula inviati qualcosa devo pure aver imparato. Spulcio i siti tutto il giorno, la mia mansione consiste in questo. Rimpasto le offerte e le trascrivo per fornire informazioni ai tanti che cercano un’occupazione. Mi ripeto che è solo una cosa momentanea. Ma sono felice. Mi sveglio la mattina e vado al lavoro. Mi mancava questa sensazione. Cerco di svolgere la mia attività al meglio, con impegno e seguendo i consigli dei colleghi. Passa un mese, anzi vola. Arriva il giorno dello stipendio e mi viene da sorridere. Ovviamente i soldi sono già quasi tutti destinati, ma sono felice. Questa volta posso farcela da sola. Entro in quella stanza. Nemmeno il tempo di afferrare lo stipendio e mi ritrovo “con una mano davanti e una di dietro”, come direbbe mia nonna. Le parole pronunciate sono più o meno queste: “grazie per tutto, ma la nostra collaborazione finisce qui”. Scusa? Non capisco. Mi sento la testa ovattata. Non afferro. Riesco solo a storcere la bocca. Chiedo spiegazioni imbarazzata. “Non possiamo più pagare una collaborazione”, dice, “sai la crisi”, dice e…. Non ascolto più nulla. Vorrei solo scappare. È uno scherzo. Non può succedere. Sono passati solo due mesi. Me ne torno a casa sconsolata e ancora non capisco. Sto in silenzio. La lavatrice continua a perdere. L’acqua mi copre le caviglie, ma io mi sento affondare. Affogo. Ora non lo so se sono felice, non lo so più.
Nella testa i rintocchi di una campana, questa mattina suona a morto. Vestita di nero e a passi lenti cammino per la città come fossi a un corteo funebre. Non c’è folla dietro di me. Sono sola. Vado incontro alla sorte di un’altra giornata uguale, la stessa da due anni a questa parte. Sento il peso di dover salutare qualcuno, ma dal riflesso che appare in una vetrina so che addio devo dirlo a me stessa. Quando si muore non si dovrebbe sentire più nulla. Io invece sento tutto: il traffico frenetico della città, il sangue che ancora ribolle nelle vene e la vita che scorre veloce, come in un centro commerciale nel periodo dei saldi. Allora non sono morta! La mia è solo una morte apparente, un coma farmacologico dal quale devo svegliarmi. A forza di morire dentro mi sono scordata di vivere.
Devo aggiustare la lavatrice, togliermi il pigiama e asciugarmi da tutta questa acqua. Riprendo fiato e smetto di stare in apnea. Non posso affogare. Torno alla routine: caffè e curricula. Ma non importa, io sono ancora felice. Me lo ripeto come un mantra. IO-SONO-ANCORA-FELICE. E così mi rimetto a nuotare nel mare dei tanti “le faremo sapere” e con me nuotano anche i miei pensieri. Il resto andrà a posto. Io sono ancora felice. Non ho tempo per annegare. Devo imparare a stare a galla.
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