L’autrice si presenta: Sono Chiara. Ho ventitré anni. Al momento lavoro come commessa in una gioielleria, e studio giurisprudenza a Roma. Sono iperattiva. Amo muovermi, uscire, stare con le persone, chiacchierare, lavorare a contatto con il pubblico. Forse perché sono cresciuta al mercato, dove mia madre ha un banco di intimo e maglieria, e a diciotto anni, terminato il liceo classico, mi sono potuta dividere tra giornate trascorse ad aiutare nell’attività di figlia e lavoretti saltuari come hostess e commessa. Quando resto da sola, in silenzio, dopo lunghe e rumorose giornate, prendo la penna e scrivo. Mi rifugio tra i fogli. I miei sogni? Magari occuparmi dell’area delle risorse umane, o di assistenza legale, o magari insegnante di educazione civica e diritto… non so! Per ora vivo alla giornata, dagli articoli di legge, agli articoli di giornale e riviste, agli articoli di pezzi di intimo o gioielli che vendo
La mia storia. Dovrei fare un collage. Un insieme di tanti piccoli momenti che ogni giorno creano la mia storia. Ma io non sono stata mai un’artista. Sono pessima a fare collage, non ho senso delle proporzioni e se mi deste in mano un pennello lo guarderei e mi chiederei dove sia l’inchiostro per scrivere. Sono sempre stata più brava con le parole. Ecco perché per la mia storia vi presento un’immagine, non ve la disegno, ma ve la racconto. Immaginatevi mia madre, una mamma che a un certo punto si rende conto che la sua bimba di sei anni, al primo anno di elementari, ha problemi a esprimersi: le mancano alcune lettere. Cosa comune in molti bimbi. Questa bimba un pò timida e introversa (un pò per usare un eufemismo) si vergogna così tanto di sbagliare le parole, di dire “panna” invece e di “palla” che preferisce starsene da sola, in silenzio e lontana dalla mischia di bimbi che giocano, e guardare gli amichetti, pensare. Forse è alle elementari che ho imparato a essere riflessiva. A volte anche troppo. Comunque… la mia storia comincia quando mia mamma comincia a regalarmi libri, dicendomi «Dai chiara. Leggi. Leggi ad alta voce. Leggi e parla».E io leggevo. Leggevo a casa, a ricreazione, ad alta voce. Leggevo i cartelloni pubblicitari mentre passavamo in macchina. Leggevo il foglietto illustrativo delle medicine di nonna che trovavo a casa. Leggevo i libri delle superiori di mio fratello. Ancora ricordo il primo libro che mi regalò mia madre per risolvere i miei problemi: “La timida Timmy”. Proprio ora mentre scrivo ripenso a quella copertina gialla e blu, con raffigurata una bimba dalla guance rosse. Era la storia di Timmy, bambina di sei anni alle prese con il primo anno di elementari e, come suggerisce il titolo, estremamente timida. Ci furono altri libri. Altre storie. Ma quello è e sarà sempre il mio libro. In pole position sfreccia superando i saggi di filosofia, gli autori latini e greci e la poesia spagnola. La timida Timmy li batte tutti. La timida Timmy ero io. Io che come Timmy a fine storia non ero più timida. Non ero più introversa. Parlavo. A ricreazione giocavo anche io al gioco dell’oca. Che conquista quando mi sono potuta permettere il gran lusso di leggere per la prima volta “a mente” perché ormai avevo imparato a dire bene tutte le lettere! Ormai tutte le lettere dell’alfabeto erano mie! «E quanto mi sono costate Chiarè! Le lire volate tra logopedia e libri! Ogni due giorni mi finivi un libricino» non fa che ripetermi mia madre ogni volta che si lamenta del mio essere ormai logorroica. La mia storia continua quando un giorno a sette anni, dopo un anno di intense letture appunto, mi sono detta “ma se gli altri scrivono allora posso scrivere anche io” e mi feci regalare un diario, uno di quelli per bambini che si comprano dal giornalaio, con lucchetto e pagine profumate. E scrivevo. Scrivevo la mia giornata. Parlavo di cosa avevo detto all’amichetta con cui avevo litigato. Scrivevo ogni volta in cui mi accadeva qualcosa di bello o brutto. Come papà che tornava a casa con una Polly Pocket. Come il compagno che mi aveva preso in giro per i miei occhiali e per la mia ciccia (eh si, diciamo che da piccola alimentavo molto il commercio di merendine e patatine). Come la maestra che mi diceva «Chiara sei proprio portata per la scrittura. Farai il liceo classico scommettiamo?» e aveva ragione. Perché la mia storia continua al liceo classico. Anni duri. Dura e severa la scuola dove andavo, duro lo studio e duro il carattere che dovevi avere per andare avanti. E per qualche tempo tornai a chiudermi in me, a essere quella bimba introversa e taciturna che per studiare non usciva, aveva smesso lo sport, aveva paura di prendere un brutto voto… ero di nuovo la Timmy delle prime pagine del libro. Che cosa ho fatto? Stavolta invece di mamma sono stata io a farmi un regalo. Mi sono fatta coraggio e ho cominciato a scrivere per gli altri. Scrivevo sul giornalino del liceo. Avevo creato una rubrica di poesia. Prendevo testi di autori latini e greci e li “adattavo” a noi giovani, cercavo di renderli compatibili con i problemi di noi adolescenti. Nulla di particolarmente oneroso. Forse anche inutile visto che sicuramente la mia cerchia di lettori era particolarmente ristretta (chi a ricreazione legge il giornalino invece di andare a comprare una gustosa e sbrodolosa pizza rossa?). Ma intanto ero tornata a essere di nuovo la Chiara che vuole parlare. La Chiara che vuole parlare agli altri e uscire dal guscio. Da lì in poi non ho più smesso. Vuoi Instagram, vuoi il cominciare a lavorare con il pubblico: commessa, hostess, barista, e chi più ne ha più ne metta… le tasse universitarie e l’abbonamento in palestra non si pagano da soli d’altronde, e purtroppo il giornalino non mi ha resa molto famosa. A proposito di Instagram… lo ammetto, all’inizio anche io passai per la fase bimba minkia: selfie stupidi e senza senso e poi… poi per fortuna un giorno riguardi il tuo profilo e dici: “ma questa non sono io”. Per fortuna cominci ad applicare il concetto di “evoluzione” di Darwin e ti evolvi. Ora uso Instagram come quel famoso diario che avevo alle elementari, ma senza pagine profumate. Pubblico poesie, foto “intelligenti” (o quasi, ogni tanto il selfie ci sta dai!), riflessioni. Ogni volta che voglio parlare, scrivo. Pubblico. Ogni volta che mi sento triste o scoraggiata ripenso a quella Chiara che con una penna in mano si sentiva forte come Mila quando schiaccia e fa innamorare Shiro. La mia storia continua ogni volta in cui ho imparato a non stare zitta. Che sia all’università. Con le amiche. Con un ragazzo. Al lavoro. La mia storia è ogni volta in cui ripenso alla Chiara di sei anni che non riusciva a parlare. O alla Chiara del liceo che aveva paura di rispondere ai professori. La mia storia è ogni volta che mi metto a scrivere perché ne ho bisogno. Mi sono accorta di non amare più il mio ex quando ho realizzato che non stavo più parlando. Che non stavo più scrivendo. Ho capito che qualunque sarà la mia strada dovrò lavorare con le persone. Per le persone. Perché voglio parlare. Voglio ascoltare. Ho capito che ogni volta in cui sono giù di corda devo scrivere. Scrivere è il mio farmaco, il mio antidolorifico. Il mio paracetamolo. Il mio cioccolato fondente. E più scrivo più sto bene. Più sto bene più ho voglia di scrivere. Poi chiudere la penna o la connessione dati del tablet e uscire. Muovermi. Parlare con tutti. Perché quando “parli” scrivi senza saperlo. Racconti la tua storia agli altri. Quando parli leggi: leggi ascoltando le storie delle persone che si aprono con te. Insomma, la mia storia sono io che leggo e scrivo. Che parlo e ascolto. E dopo aver letto ciò che ho scritto mi dico: Quanto hai scritto! Bene ora trova il coraggio di dirlo! Trova il coraggio di fare ciò che vuoi. Studiare. Lavorare. Uscire. Ballare. Piangi Chiara. Ridi. Esprimiti. Parla. E scrivi. Scrivi perché quando scrivi trovi coraggio. Scrivi perché quando scrivi sei davvero te stessa. Polemica? Forse! Pesante? A volte. Ma parlo. Sono io. La mia storia sono io che vi racconto la mia storia. E voi che la leggete.
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