La Pozza di San Giuseppe

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L’autrice si presenta: Valeria Monti. Vivo, con mio marito e i nostri tre figli, in un paesino immerso nella campagna lodigiana, che è anche il luogo in cui è ambientata questa storia. Tutto nasce dal ricordo di un evento che mi ha sempre affascinato: l’incontro tra un aviatore inglese e una bambina con le trecce, sullo sfondo della seconda guerra mondiale. Quella bambina era mia madre. Adoro scrivere e quando lo faccio mi firmo con il suo cognome, perché è da lei che ho ereditato la grande passione per i libri e la “testa fra le nuvole”, due caratteristiche che spero non mi abbandoneranno mai.

 

Storia vera di Maria M. raccolta da Valeria Monti

I ricordi nella mente sbiadiscono, con il passare degli anni, ma ci sono momenti della mia vita che conservo ancora nitidi nella memoria, come limpidi cristalli depositati sul fondo del mio cuore. Sono ricordi che hanno i colori del verde e dell’azzurro, le tonalità che assumevano le placide acque della Pozza di San Giuseppe, il laghetto dove ero solita giocare da bambina.

Mia madre doveva occuparsi della mia sorellina più piccola, cagionevole di salute, e in un periodo di difficoltà e miseria fu costretta a prendere una decisione dura, seppur temporanea: lasciare ai suoi genitori il compito di crescermi. Nonostante questa separazione forzata, ho un bellissimo ricordo di nonna Colomba e nonno Giuseppe; erano persone buone e premurose che hanno in tutti i modi cercato di colmare il vuoto creato dalla lontananza dei miei genitori. Mi hanno sempre assicurato un abbraccio affettuoso e un pasto in tavola ogni sera.

Mi trovavo proprio a casa dei nonni, quando fu annunciata l’entrata in guerra del nostro paese. Non era facile capire che cosa fosse “la guerra” guardandola attraverso i miei occhi di bambina. Cominciai a vedere soldati armati ovunque, anche nel nostro piccolo paese. Presto il cibo iniziò a scarseggiare e gli uomini furono costretti a partire per andare chissà dove, lasciando la famiglia, la casa, il lavoro. Anche mio padre fu chiamato alle armi e ciò rese ancora più difficile e dolorosa la vita di mia madre, sola e con un’altra figlia da crescere. Per questa ragione fu deciso che, finché ci sarebbe stata la guerra, io sarei rimasta con i nonni.

Man mano che gli anni passavano, fui educata a dare una mano in casa: mi occupavo degli animali della cascina e dell’orto, fonti di cibo importantissime, poiché ogni cosa veniva “razionata” dal regime. Aiutavo le donne nelle faccende domestiche e nella sorveglianza dei bambini più piccoli. Frequentare la scuola era quasi impossibile, perché troppo distante da casa e l’unico mezzo di trasporto a disposizione era la vecchia bicicletta del nonno.

Quando avevo del tempo libero e i nonni me lo permettevano, correvo a perdifiato nei prati dietro casa, fino a raggiungere la “Pozza di San Giuseppe”, un laghetto di acqua sorgiva dalle mille sfumature di colore, rubate al cielo e agli alberi che lo circondavano. La pozza era stata dedicata al santo protettore di tutti i padri di famiglia e andarci rappresentava, per me, un modo per restare vicino al mio papà, che si trovava lontano, almeno con il pensiero o la preghiera. Quando ero lì, intrecciavo collane di margherite, pescavo rane e andavo a cercare le more. Era il mio piccolo angolo di paradiso, il mio rifugio dal mondo dei grandi che spesso mi spaventava e la guerra non mi sembrava più così terribile.

Fu una notte, nell’agosto del 1944, che accadde qualcosa d’inaspettato. Era una delle tante notti rese ancora più nere dal coprifuoco; gli aeroplani alleati e quelli tedeschi, infatti, sorvolavano senza sosta i cieli italiani, pronti a bombardare ogni minimo barlume comparisse all’orizzonte. Fummo svegliati da un forte boato e subito tutti pensammo al peggio. Lo spavento fu grande per tutti, ma i miei nonni, come sempre, seppero tranquillizzarmi con la loro calma e il loro affetto.

«Mariuccina torna a dormire, non ci pensare», mi disse la nonna. Come sempre ubbidii, ma fu dura riprendere sonno, quella notte. Nei giorni successivi, una strana tensione aleggiava in casa nostra, ma sapevo che era proibito chiedere qualsiasi cosa, qualsiasi chiarimento. Il via vai continuo dei soldati tedeschi nella campagna, dietro casa, mi fece capire che doveva essere accaduto qualcosa di grave. Quando poi, un pomeriggio, mi fu proibito di andare a giocare alla Pozza di San Giuseppe, ebbi la certezza che quel qualcosa doveva riguardare proprio quel luogo. Una sera, vidi il nonno andare verso il fienile, con una ciotola di polenta in mano. Presa dalla curiosità per quel gesto insolito, lo seguii oltre il cortile, su per una scala fino a una stanza nascosta da una catasta di legna. Quando sbirciai oltre le assi, lo vidi, al chiarore di una candela: un uomo con il viso tumefatto, le braccia e le mani fasciate, sdraiato su un vecchio materasso. Spaventata, corsi via, con le gambe tremanti e il cuore che batteva all’impazzata. Chi era? E perché il nonno lo stava aiutando? Capii che non era nostro nemico; il nonno non lo avrebbe tenuto nascosto e curato come un animale ferito. Se quell’uomo doveva restare nascosto era perché i soldati non lo dovevano trovare. E se lo avessero scoperto, che cosa sarebbe successo a lui o a noi?

Dopo qualche settimana, tornando dalla pozza con un cestino pieno di rane, trovai il misterioso uomo in cortile, seduto sulla panca di legno vicino alla porta d’ingresso. Indossava i vecchi abiti del nonno, aveva ancora un braccio fasciato e dei lividi in volto, ma sembrava stare bene. Era strano trovarlo fuori, alla luce del sole, dove tutti potevano vederlo. Mi avvicinai cauta e quando l’uomo puntò i suoi occhi azzurri su di me, ne rimasi talmente sorpresa che feci cadere a terra il cestino, facendo scappare le rane. L’uomo allora balzò in piedi e iniziò a rincorrere gli animali per tutto il cortile. Io rimasi immobile, inebetita da quella scena surreale e, allo stesso tempo, divertente. Lo sentii pronunciare parole in una lingua incomprensibile e, presa dallo stesso entusiasmo, cominciai anch’io a dar la caccia alle bestie saltellanti. Quando finalmente riuscimmo a rinchiuderle nel cestino, il misterioso forestiero mi disse ridendo: «Ciao»; io invece gli sorrisi appena e scappai via, senza dire una parola.

La nonna mi raccontò che l’uomo era un soldato inglese, caduto con il suo aereo vicino alla pozza di San Giuseppe. Si chiamava Andrew, che in italiano significa Andrea, e si trovava in Italia per aiutarci.

«Mariuccina, non devi dirlo a nessuno», mi ordinò, seria in volto. «Se lo vengono a sapere i fascisti o i tedeschi ci prendono tutti».

«Quanto tempo resterà qui?» le chiesi.

«Chi può saperlo? Finché ci sarà la guerra, dovrà restare nascosto».

Il rischio che stavamo correndo era molto alto e anche se ero ancora una bambina, sapevo che la minima parola con qualcuno poteva attirare l’attenzione dei soldati tedeschi. Non solo erano previste punizioni severe per chi avesse prestato aiuto ai soldati inglesi o americani su suolo italiano, ma erano anche state promesse ricompense in denaro per la loro cattura. Il nonno però non si piegò mai a quella bassezza. Non barattò mai per soldi una vita umana.

I giorni passavano e la fine della guerra sembrava sempre più lontana. Appena potevo, andavo alla pozza e mentre raccoglievo fiori o mentre pescavo, pensavo a mio padre e a quanto avrei voluto riabbracciarlo. Andrew, nel frattempo, aveva imparato qualche parola d’italiano e a volte, quando la situazione non era troppo rischiosa, usciva in cortile. Era molto bravo a disegnare e a incidere il legno: aveva fatto delle bellissime statuine di animali con cui mi divertivo a giocare. Non potendo aiutare gli uomini nei campi, dava una mano come poteva: puliva il pollaio, faceva delle riparazioni o spaccava la legna.

Quando comprendere la reciproca lingua divenne più facile, scoprimmo che a casa sua, in Inghilterra, Andrew aveva una moglie e una figlia che aveva all’incirca la mia età. Ma non c’era modo di comunicare con loro. Dovevamo solo aspettare e pazientare perché un giorno, speravamo, la guerra sarebbe finita e tutte le famiglie si sarebbero finalmente ricongiunte. A volte, lo sorprendevo a fissare il cielo; forse sognava di tornare lassù, con il suo aeroplano, per volare dalla sua amata moglie e dalla sua bambina. Sapevo che stava soffrendo e che aveva paura, come tutti noi. In quei momenti, mi ritrovavo a pensare che forse anche il mio papà, ovunque si trovasse, qualche volta si fermava a guardare il cielo, sognando di tornare da me. Il nostro rapporto stava diventando, con il tempo, sempre più amichevole: Andrew m’insegnava alcune parole in inglese, giocava con me e a volte mi prendeva in giro tirandomi le trecce. In qualche modo, stavamo prendendo l’uno dall’altro quello che la guerra stava cercando spietatamente di portarci via: le attenzioni di un padre e la vicinanza di una figlia da crescere.

Quando con i nonni, andavo in paese, restavo in silenzio, per paura che nei miei occhi la gente potesse leggere il mio enorme segreto. Tremavo di paura, tutte le volte che un soldato tedesco mi guardava, ma quando a farlo era Andrew, con il suo sorriso amichevole, sapevo che non avevo nulla da temere.

Andrew rimase nascosto in casa nostra per quasi due anni. Quando il 25 aprile del 1945 fu annunciata la fine della guerra, il cielo sembrò improvvisamente più azzurro. Mio padre sarebbe finalmente tornato a casa e anche Andrew poteva intraprendere il viaggio che lo avrebbe portato a riabbracciare i suoi cari. Non dimenticherò mai il giorno in cui ci salutò. «Ciao, Mariuccina», mi disse, tirandomi una treccia. Poi, mi regalò un piccolo aeroplano intagliato nel legno. Fu mio nonno ad accompagnarlo alla più vicina stazione ferroviaria; gli diede un sacchetto con qualche soldo e un foglietto, dove aveva annotato il nostro nome e il nostro indirizzo, per non dimenticarlo.

«Scrivici appena arrivi», si raccomandò. Mio nonno mi raccontò che l’ultima parola di Andrew, prima di salire sul treno, fu un «Grazie», pronunciato tra le lacrime.

Nelle settimane successive anch’io presi un treno, per tornare in città, da mia madre, da mia sorella e… da mio padre. Era, infatti, rientrato a casa, provato dalla guerra, ma vivo. Ero felice, perché i miei desideri si erano esauditi e le mie preghiere erano state ascoltate. I mesi però passarono e di Andrew non si ebbe alcuna notizia. Dopo circa un anno, venni a sapere che mio nonno si era recato personalmente all’ambasciata per avere informazioni su un aviatore inglese, rientrato in patria dall’Italia, ma non ebbe risposta. Nessuno di noi ha mai saputo se Andrew sia riuscito a tornare a casa sua, in Inghilterra, attraversando i territori ancora devastati dal conflitto. Sono andata molte volte indietro con la memoria, a quei giorni terribili, segnati dal dolore, dalla paura e dalla miseria, dove il riflesso del cielo in uno specchio d’acqua sapeva aprire il cuore alla speranza. Quella pozza è rimasta immutata, nel tempo, con i suoi colori e la sua pace. Ancora oggi, con quell’immagine nella mia mente, mi piace pensare che Andrew, nonostante tutto, sia riuscito a riabbracciare la sua bambina, come io ho riabbracciato mio padre.

E che anche lui abbia potuto conquistare la sua tanto sospirata pace.

 

 

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