Lo guardo di Cristina Giotti

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L’autrice, Cristina Giotti, si presenta: Nata a Palermo, ci sono rimasta fino a quando mi assumono con la qualifica di capostazione presso le Ferrovie dello Stato di Trieste. Mi laureo anni dopo in Materie Letterarie. Mamma di due meravigliosi ragazzi che adoro, impegnati entrambi nella realizzazione dei loro sogni: agente immobiliare nonché chef e sommelier ad alti livelli il primogenito, notaio in attesa di sede la secondogenita. Forse gli studi e gli approfondimenti psicologici, sicuramente un’indole altruistica e una innata empatia, fanno di me una persona disponibile e pronta all’ascolto. Adoro viaggiare, scoprire nuove culture, assaporare nuovi cibi, angoli reconditi e mete rinomate, ma tanto ogni viaggio è una avventura da assaporare fino in fondo. Adoro ballare, soprattutto i caraibici, perché mi danno una grande carica vitale e mi piace tanto ascoltare musica, dalla classica al pop, dai cantautori impegnati al jazz. Scrivere per me è un’abitudine di sempre e forse anche un modo per fissare i ricordi, ma anche per fare chiarezza in un dedalo di situazioni dalle quali non è certo stato facile districarsi.

 

Ma con chi sono stata io per due anni e mezzo? Lo guardo, guardo i suoi occhi di ghiaccio, impassibili, freddi, glaciali e non lo riconosco. È distante anni luce, è un perfetto estraneo. Da lui non me lo sarei mai aspettato, o meglio, non volevo credere assolutamente al mio infallibile istinto. Gli avevo servito la verità su un vassoio, doveva solo confermare. Ma lui negava. Sempre.

«Ma no Icci, così mi chiamava sempre, che vai a pensare». E rideva. Si prendeva gioco di me.

«Guarda che ho letto, mentre eri su Facebook e parlavi con Luigi, che gli hai chiesto se avesse visto la foto di Giulia con le beccacce!».

«Ma guarda che Giulia è la cagna di Aurelio». Andavano sempre a caccia insieme Aurelio, Luigi e Michele.

Michele un ragazzone alto 1.86, occhioni verdi enormi, labbra carnose, giovane, troppo giovane per me. Mi aveva contattato su Facebook e me lo ritrovai una sera nello stesso locale dove sapeva che sarei andata a ballare caraibici. La mia grande passione il ballo.

«Ciao, mi riconosci?».

«No, chi sei?». Offeso fingesti di andartene. «No, aspetta, scusami, non sono fisionomista…».

In effetti non ti avevo mai visto se non in quella foto pubblicata sul social. Come avrei potuto riconoscerti? Da quel momento, dovunque andassi, tu eri sempre lì. Non ti bastava mai il tempo di stare con me. Di cercarmi. Di incrociarmi ovunque fossi. Cominciammo a uscire e dopo una settimana capitolai.

«Diciotto anni di differenza, troppi, un numero spropositato». Ti dicevo non convinta di iniziare una relazione. «Ma che dici. Tu sei una bella donna, nemmeno dimostri gli anni che hai».

Così erano trascorri due anni e mezzo. E adesso ci ritrovavamo seduti sul divano, uno accanto all’altra, ma distanti anni luce, a discutere sulla cagna Giulia. E ridevi, mi prendevi in giro per la mia assurda gelosia. Si è vero da siciliana quale sono la gelosia è nel DNA. Ma l’istinto, l’empatia sono un’altra cosa. Io sapevo che c’era un’altra. I segnali c’erano tutti. Eri freddo, stavamo sempre meno insieme. Dalla caccia, la tua passione, tornavi sempre più tardi, soprattutto se mi dicevi che andavi a San Mauro. Avrei voluto entrare in Polizia da giovane e gli studi di psicologia mi hanno aiutato ad amplificare la mia naturale empatia e la naturale tendenza ad approfondire, ad indagare, a capire…

L’indomani chiamai Aurelio. Lo invitai a venire a trovarmi a casa. Finsi di sapere tutto su Giulia. Fu facile, troppo facile, quasi un gioco da bambini. «Lui, era Michele ovviamente, se n’è fregato che Giulia piacesse a me. Si è messo a fare il simpaticone, a farla ridere, a scherzarci sempre. Addirittura le ha insegnato a sparare. E l’ha invitata più volte a venire a caccia con noi».

Masticava astio e invidia Aurelio. Ma in fondo aveva anche ragione. Alla fine Michele se l’era presa lui Giulia.

«Guarda, ho fatto delle foto fuori dal bar dove lavora». Continua Aurelio ormai livido. E me la mostra: una ragazza giovane, un po’ in carne, capelli ricci, niente di speciale. Un viso quasi contadinesco. Avevo saputo quello che volevo.

«Michele, stasera dobbiamo vederci». Ti telefonai subito, non potevo aspettare. Ti vomitai addosso tutta la mia delusione, tutta la mia rabbia, tutta la mia disillusione.

«Sapevo che avevi un’altra, i segnali c’erano tutti, ma tu no, sempre a negare. Sempre a farmi passare per paranoica. Hai mentito, spudoratamente per quasi due mesi. Perché? Ti avevo persino detto che, secondo me ti eri messo con Giulia o Valeria. Ma tu no. Sempre a negare. Sempre a prendermi in giro, quando invece non ti alteravi per quelle mie insinuazioni!».

«Non ho fatto l’amore con lei. Lei è vergine. E poi siamo stati anche in albergo in Sila e non abbiamo fatto nulla. E poi lo sai io non riesco a farlo con una conosciuta da poco». E riuscivi anche a guardarmi fisso negli occhi mentre mi propinavi quelle inutili menzogne.

Nausea, fortissima che mi saliva dalle viscere. Voglia di prenderti a ceffoni, io che odio la violenza. Ribrezzo per quelle tue mani che mi toccavano il braccio nell’inutile tentativo di trattenermi mentre stavo andando via.

«Ma chi sei? Con chi sono stata in questi anni?». Dov’era finito il Michele sempre attento e premuroso che voleva sempre condividere tutto, che mi aiutava nel sistemare qualsiasi cosa in casa, che veniva con me per la spesa e in ogni dove pur di stare insieme a me? Un estraneo, praticamente uno sconosciuto che adesso era seduto in macchina con me. Continuava a propinarmi menzogne, offendendo la mia intelligenza e la mia sensibilità.

«Sta zitto per favore, almeno abbi la dignità di zittirti», che tra di noi non poteva esserci nulla di duraturo lo sapevo dall’inizio e te lo dissi in più occasioni. «Basta almeno abbi la decenza di non parlare».

Allora, stranamente, tacesti. Mi prendesti il braccio e mi attirasti a te. Con forza. Con prepotenza. Con arroganza. Incurante delle mie parole, del mio inutile tentativo di divincolarmi. Abbiamo fatto l’amore, con foga, con passione, forse tutta quella che non c’era più da tempo. Sono tornata a casa, quasi barcollando. Ubriaca di te. Arrabbiata con me stessa. Com’ero fragile allora. Com’ero ancora vulnerabile. Non riuscivo, malgrado tutto a staccarmi da te. Non so come potessi ancora averti vicino e godere pensando che l’avevi già fatto con lei. Dopo quella prima sera avresti voluto rifarlo. Io mi sentivo in colpa per lei. Tu impassibile. Provavo vergogna per te. Per la tua mancanza di rispetto per Giulia. Tu impassibile e soddisfatto, hai anche insistito per rifarlo.

Caduta la maschera ti trovavo misero e meschino. Un estraneo eri ormai per me. Più ti guardavo, più mi rendevo conto che eri un perfetto sconosciuto. Un bugiardo e della peggiore specie.

«Accompagnami alla macchina, ti dissi «e non voglio rivederti mai più. Cancella il mio numero di telefono e cancellami anche da Facebook».

Uno sprazzo di rinsavimento, di orgoglio o di autostima. Ma è durata poco. L’indomani era San Valentino. Voleva rivedermi. Gli ho dato buca. Molto orgogliosa di me. Allora cominciasti a cercarmi, a circuirmi, a raggiungermi nei posti dove mi trovavo in quel momento.

«Ma cosa vuoi ancora da me? Hai Giulia ormai stai con lei!».

“«Adesso la chiamo e glielo dico» mi dicevo sempre più spesso. Dio quanti pensieri stupidi, inutili, assurdi. Come avevo fatto a scendere così in basso? La mia dignità dov’era finita? I miei principi morali poi…

Ho pianto tanto in quei giorni, proprio come una disperata. Non lo amavo Michele. Così come, oltre il mio ex marito e Virgilio, non ero più riuscita ad amare nessuno. Ed allora perché quelle lacrime? Perché tutta quella disperazione?

«Mamma, riprenditi» mi diceva mia figlia Roberta in quei giorni bui. Mi aveva fatto sfogare la mia piccola grande donna vedendomi abbattuta in quel modo. Aveva ragione. Non ne valeva la pena. In effetti lo sapevo che non sarebbe durata.

«Michele non innamorarti di me. Anche se io dovessi perdere la testa, resta tu sempre coi piedi piantati per terra». Belle parole, sagge, indubbiamente ineccepibili e gliele dicevo convinta i primi tempi in cui stavamo insieme. Ma allora perché ero così abbattuta. Se non era amore cos’era, orgoglio ferito? Paura di stare da sola? Non riuscivo a comprendere. È durata poco quell’altalena distruttiva di sentimenti contrastanti. Poi sono rinsavita. Ho dovuto farlo. Per me. Per i miei figli. Perché non ne valeva la pena.

Sono ormai passati anni da allora. La tua storia con Giulia è finita. Ti ha mollato dopo che siete stati a Londra. Abbiamo ripreso ad uscire perché tu eri depresso. Ti sei ripreso e hai ricominciato a pretendere di fare sesso con me. Ecco la parola chiave: Sesso. Senza amore, sentimento, solo sesso e basta. Tra un’altra tua relazione finita e un’ altra che verrà, con te ci sarà solo sesso. Ma le regole sono cambiate. Adesso sono io che decido se, come e quando.

C’è un altro nella mia vita. Una storia fatta solo di incontri molto sporadici, ma appaganti. Senza coinvolgimenti sentimentali. Ma con rispetto e chiarezza. Massima chiarezza. Anche lui è molto più giovane di me. Tu forse un giorno hai intuito che ci fosse qualcosa fra di noi. Ho negato. Non avevi diritto ad alcuna spiegazione. Perché mai avrei dovuto dartene?

Ho sempre sostenuto che gli uomini fanno solo sesso, ma che se s’innamorano fanno l’amore. Bene, io ormai sono  tanti anni che, da questo punto di vista, mi sento un uomo. Libera, senza legami. Impegnata solo a raccogliere il buono che una relazione con un uomo possa darmi.

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