L’autrice si presenta: Elisa Vagnarelli. Trentaquattro anni. Vivo a Gubbio. Lettrice appassionata, con una pila di libri sul comodino che non accenna a diminuire, nel tempo libero provo a fare un po’ mie le parole e a metterle su carta. Sembra semplice, quando è il cuore a suggerire. È un po’ più complicato, quando la storia viene fuori da un dolore. “Queste parole sono per Te” è qualcosa del genere. Vuole essere l’omaggio a una persona speciale, che non è più fisicamente accanto a me. È tutto ciò che avrei dovuto dire e che – invece – ho taciuto; pure davanti alla certezza della fine. È un abbraccio con il cuore
L’odore della cucina non è cambiato ancora. Il vecchio orologio a muro è sempre dieci minuti in avanti. Avevi il terrore di ritrovarti in ritardo per qualsiasi cosa. Eri talmente fissata con la puntualità, che il più delle volte finivi per essere in anticipo. Amavi anche farti trovare sempre in ordine, a dispetto delle donne della tua stessa età che, magari, già da tempo avevano scelto di lasciare il mondo come stava. Tu, no. I capelli bianchi dovevano essere sempre nascosti, l’orlo delle gonne andava rifatto almeno una volta al mese. Chissà perché, le tue gonne soffrivano il vizio di allungarsi da sole e di non essere mai all’altezza delle tue aspettative. Il tuo cuscinetto di aghi, la scatola con i fili e quel paio di forbici che t’ho sentito benedire un’infinità di volte, per il loro taglio impeccabile, sono ancora sistemati sopra il davanzale. Che dire delle camicette? Una serie fitta, al profumo di naftalina, è ben ordinata dentro l’armadio. Continuavi a stirare i colletti solo per non far sentire troppo inutile il ferro da stiro, credo. Eri diventata refrattaria all’idea di uscire di casa. Tranne che per andare in giardino; si intende. Ma… i fiori… beh! A quelli è sempre andata a genio la tua vestaglia.
Il bianco alle pareti non c’è più. Ricordi quanto ti ostinavi a farmi credere di averlo appena fatto rinfrescare? Ho sempre fatto finta che fosse vero. Anche la stoffa delle tende non è più la stessa. La polvere, forse per colpa delle finestre tenute troppo aperte, è arrivata ovunque. Nulla è più bello, qui dentro, da quando non ci sei più. Forse è un pensiero un po’ sdolcinato per una come me, ma è vero.
Lascio cadere sul pavimento la cesta dei panni da stendere e accetto l’invito silenzioso delle tua poltrona sgangherata. «Giusto cinque minuti». Me lo dico ad alta voce.
Mi manchi. Tantissimo.
La verità è che non ero proprio pronta a perderti. Non ancora, almeno. Benché novantadue anni sia un’età più che dignitosa e serena, per andarsene. Non si sarebbe potuto certo dire che tu non abbia avuto il tempo per fare qualcosa. Anche rimanendo ad ascoltare la tua lista delle cose ancora da fare e paragonandola con quella delle cose già fatte, non avresti potuto dire che la vita t’abbia fatto un torto.
Che posso dire, io? Credo di poter ammettere, senza passare per una trentatreenne con disturbi mentali, o colpita da insoddisfazione letale, che… ti avevo già immaginata dentro a troppe cose, per riuscire ad ignorare – adesso – il vuoto che hai lasciato. Ecco. A voler far bene due conti, con quella matematica che ti ha sempre fatto un po’ arrabbiare, forse la mia lista di cose da fare con te era decisamente più lunga della tua. Quella di cui, a un certo punto, hai smesso di parlare. I tuoi discorsi hanno subito una virata brusca. Forse è stato allora, che io ho preferito fare finta di niente. Ti ricordi?
Ho perso il conto delle volte in cui mi hai raccontato di quella tua compagna di scuola che, fingendosi una lettrice esperta di mani, aveva detto che non ci sarebbe stato matrimonio per te. Le tue parole sputate con rabbia, come a volerla incolpare del fatto che non sei riuscita per davvero a indossare un vestito bianco. Non hai mai voluto dirmi il nome dell’uomo di cui ti eri innamorata, ma è sempre stato chiaro che tua madre si fosse messa in mezzo, in quel modo imperativo dei tempi tuoi. I tuoi occhi diventavano improvvisamente lucidi e sembrava come se – a un certo punto – le parole non ti fossero più nemmeno tanto amiche. Ho provato a fare domande per capire le tue emozioni, ma non hai mai risposto come si deve. Ok. Forse non posso immaginare fino in fondo la vita, com’era allora. Ma so di vecchie coppie che ce l’hanno fatta a coronare il loro sogno d’amore. Nonostante tutto e tutti. Allora, perché… perché non hai combattuto, per le ragioni del tuo cuore? Avresti evitato un rimpianto. «E se le cose fossero andate a finire male? Se lui non si fosse più preso più cura di me? Cosa avrei fatto, io?». Non stavi cercando delle risposte vere. Non da me, almeno. Ogni volta te ne uscivi fuori con questi interrogativi, ma nulla che potesse farmi capire meglio. «È andata bene come è andata». Sentenziavi; poi. Sbrigativa.
Mi chiedevi di prendere una gelatina di frutta, facevi uno dei tuoi respiri ricchi e aggiungevi: «Ho potuto dedicare tutto il tempo ai miei fiori». La tua vita. Finisco con gli occhi addosso alla felce che avevi sistemato accanto al mobile della televisione. Si è seccata. È una piccola fitta allo stomaco, ma so di averti detto che non me ne sarei presa cura. Non di tutto; almeno. Ho sempre odiato quella pianta. Sempre troppo bisognosa di cure e mai disposta a farsi trovare in bella forma. Adoro le tue rose, invece. E la tua lavanda. Una serie di fotografie sopra la mensola del camino mi racconta di quando il tuo giardino era ancora uno splendore autentico. Sono stata proprio io a scattarle. Avevi insistito tanto. Con quanto orgoglio dicevi: «Oggi un signore si è fermato e mi ha fatto i complimenti per i fiori!» La prima volta ho alzato gli occhi al cielo, sicura di avere a che fare con una bugia. Poi, però… pare fosse vero che alcune macchine si fermassero anche solo per un attimo, per dirti che il tuo pollice era davvero un ottimo pollice verde. Forse, quando ancora non si andava sempre troppo di fretta. Anche adesso, quando capita di dover dare indicazioni per la casa, ci si sente dire: «Quella con il bel giardino?». Sarà difficile farlo tornare bello quanto prima, ma proviamo comunque a mettercela tutta. Un po’ del tuo tocco, un po’ del nostro. Come eravamo rimasti d’accordo. La fotografia di te che annusi una peonia è quella che abbiamo scelto per ricordarti; insieme alle parole che mi facesti leggere una sera, dietro l’immagine di un Angelo Custode. Forse ero troppo stanca per capire che me le stessi suggerendo o, magari, continuavo a non voler credere di essere vicini alla fine. «È arrivata l’ora, Elisa». Avevi aggiunto con una calma che mi aveva spiazzata. Tu. Che odiavi anche solo l’idea di poter beccare un raffreddore. Avresti voluto morire per mano di un malore improvviso, che avesse avuto l’accortezza di farti ritrovare in giardino. Non sei stata la prima a desiderare una morte veloce, in famiglia. Non sarai l’ultima; temo. Sono del parere anch’io. Andarsene, facendo in modo che il mondo se ne accorga solo a cose fatte.
Il più delle volte, però, parlavi della morte come di uno scherzo che a te non sarebbe toccato. Mi ero ritrovata a crederci. Ho continuato a immaginarti dentro agli attimi della mia vita, credendo sul serio che la morte avrebbe dovuto aspettare ancora parecchio per averti. Dicevi con convinzione: «Il segreto di una vita lunga e buona è non pensare al fatto di essere diventati vecchi». Sorridevi. Poi, proprio perché non c’era volta in cui non ti sentissi in dovere di aggiungere qualcosa, specificavi: «Ecco perché amo i miei fiori». Un nuovo sorriso. «Ogni volta che sento la stanchezza farsi prepotente nelle ossa, io la scaccio via. E, invece di mettermi in poltrona, scendo in giardino a prendermi cura dei miei fiori». Devi aver cercato di sfuggire alla stanchezza un’infinità di volte, negli ultimi anni. I tuoi fiori sono sempre rimasti all’altezza dei complimenti che ricevevano. «Adesso, basta! Stavolta, è arrivato il momento». Dicono che si riesca a capire. La poltrona era riuscita a inghiottirti. «Me ne vado serena». Hai ignorato il mio sguardo confuso e le parole arrabbiate; con cui stavo provando a chiederti di farla finita con certi discorsi. «So di essere stata una persona buona. Non ho paura». Mi sono balzati alla mente tutti gli aggettivi che avrei potuto utilizzare per descriverti. Testarda; al limite della cocciutaggine. Risoluta; fin quasi a somigliare ad un Comandante di Stazione. Convinta; contro tutto e tutti, certe volte. Ivi comprese le apparenze. Fiera; di quei tuoi novantadue anni non lasciati scorrere a casaccio. Di quella tua vita comunque piena di bei ricordi, al di là della possibilità di una famiglia tutta tua.
Hai saputo rimboccarti le maniche, all’occorrenza, e sei riuscita a essere madre, suocera, nonna; pur senza aver mai posseduto il ‘titolo’ vero e proprio. Sei stata anche amica e consigliera per tantissime persone; me per prima. Anche se è innegabile il fastidio che mi dava il tuo impicciarti, alle volte. Per quelle cose che avrei preferito non esternare troppo, tu non ti facevi scrupoli e domandavi. Sei stata una persona sincera, anche quando le tue parole si facevano scomode all’orecchio. Proprio così. Ho sempre fatto a morsi con la tua lingua priva di peli e ci sono state occasioni in cui è stato per nulla facile il confronto con te. Penso a tutti i nostri bisticci per stupide “questioni di peso”. Tu, che – vedendomi un po’ più in carne di altre ragazze della mia età – proprio non riuscivi a comprendere il mio disinteresse totale per la bilancia e per quello che avrebbe potuto dirmi, se solo mi fossi degnata di salirci sopra più spesso. Lo specchio raccontava di un’adolescente un po’ rotondetta, ma non tanto male. Stavo bene con me stessa. E quella volta in cui, da grande, ti ho detto che mi sarei voluta trasferire da te? Non sei mai parsa troppo convinta. Anche se sapevi del mio fidanzamento rotto dopo sei anni e di quella proposta di matrimonio fatta, divulgata tra i parenti e ritirata in men che non si dica; allora. Non stavo scegliendo la solitudine per partito preso. Ero piuttosto un cuore ferito, bisognoso di tranquillità e di tutto il tempo del mondo, per potersi rimettere in sesto. «Semmai sceglierò di nuovo di condividere la mia vita con qualcuno, deve essere per amore. Non perché è tempo di pensare a mettere su famiglia. Non a tutti i costi”. Su questo ci siamo sempre assomigliate. Tu non hai mai trovato qualcun altro che potesse sostituire il tuo primo amore, io non avevo ancora la certezza che avrei incontrato un amore speciale; proseguendo per la mia strada. A ripensarci adesso credo tu ne covassi la certezza; invece.
Ci sono voluti sette anni e altre ferite che avrei preferito evitare, ma… è successo. Quando ti ho chiesto se potevamo sistemarci nell’appartamentino sopra casa tua, con l’intenzione di convivere, c’è mancato poco che sparassi in aria fuochi artificiali. Anche se la convivenza non ti è mai parsa un granché come soluzione per una donna, rispetto a ciò che potrebbe essere un matrimonio. Adesso siamo sposati, sai… zia? Ho fatto giusto in tempo a dirtelo, ma tu non sei riuscita a trattenerti abbastanza a lungo da esserci. Non attraverso la formula religiosa che hai sempre considerato l’unica possibile, ma è stato comunque un bel matrimonio. Siamo riusciti ad avere una giornata come piace a noi. Circondati da pochi affetti cari, nella felicità di una festa intima. Ora c’è una bella fede d’oro giallo intorno al mio anulare sinistro e sono certa di aver firmato per il mio “Per Sempre” speciale. Anche se… non si può mai essere certi di nulla in questa vita. Sì! Sono sicura che non saresti riuscita a trattenerti dal dirlo. Mettiamola in questo modo, allora… mi piace pensare che sarà così. Meglio? Certo è che mancavi tu, perché tutto fosse veramente perfetto. Ho continuato a immaginare i mille modi in cui avresti ribadito a tutti che, finalmente, anche io ce l’avevo fatta. Ho continuato a immaginarti sorridente, davanti al fotografo, per una bella foto insieme. Con i capelli in ordine, la camicetta impeccabile e l’orlo della gonna sistemato per l’occasione; ovvio. Mi manca la possibilità di avere quella foto. Io e te vestite a festa, sedute sul divano di casa, tenendoci per mano, proprio come avevi già fatto con mia sorella. Ho provato a scattare una nostra fotografia insieme con la mente, ma non è la stessa cosa. Anche se riesco a vederti sorridente e impeccabile, non riesco a sentire il tuo profumo di violetta. Quello per le occasioni speciali. Non è come sarebbe potuto essere. Se solo la morte avesse potuto aspettare ancora un po’.
Si sono fatte le sette. Ora devo andare. Ho ancora i panni da stendere fuori e brancolo nel buio, pensando a cosa poter mettere in tavola per la cena. «Hai fatto la spesa?» Lo domandavi ogni sera, giusto un attimo prima di ribadire che – volendo – la tua dispensa era ben fornita e a mia completa disposizione. Ci hai contagiato con la tua passione per la minestrina in bianco. Con un filo d’olio, di quello buono del nostro uliveto, e con una manciata di parmigiano. La mangiamo spesso, ma non penso possa essere una buona idea per una cena d’agosto. Che ne diresti, invece, dei tuoi spaghetti con tonno e pangrattato? Li avevo fatti finire nella mezza riga di un racconto, ma il particolare non ti è passato comunque inosservato. È stato quando ancora leggevi praticamente tutto di ciò che scrivevo, prima che la stanchezza arrivasse a convincerti di lasciar perdere anche quello. Chi mi aiuterà a scovare gli errori, d’ora in poi? Riuscirai a essermi ancora vicina in qualche modo, zia?
Dicevi che il mio modo di scrivere somiglia tantissimo a quello del nonno; tuo fratello. Era qualcosa di cui si era dimostrata convinta anche la nonna. Dicevate entrambe che, con la giusta pazienza e con il giusto esercizio, pian pianino sarei riuscita a migliorare. Penso di aver fatto qualche passo in avanti, ma… di strada ce n’è ancora da fare e non ho la certezza di essere all’altezza dei miei progetti. Dici che è normale?
Vorrei poter sentire ancora uno dei tuoi pareri. Vorrei poter ricevere ancora uno dei tuoi complimenti. Sei insieme al nonno e alla nonna, adesso? Siete tutti e tre, nell’ovunque dove provo spesso ad immaginarvi? Forse potreste aiutarmi tutti… perché, no!
Ora stai leggendo, zia? Queste parole sono per te. Leggerai di nuovo, se prometto di scriverti ogni tanto? Potrei provare a raccontarti dei momenti di vita in cui ti avevo già immaginata. Potrebbe essere un buon modo per esserci lo stesso; ti pare?
Ti scriverò; allora.
Ti scriverò; proprio come adesso.
Tu leggimi; però. Leggimi…
E, mi raccomando, stammi bene; zia Rosa!
Statemi bene tutti. A presto.
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