L’autrice di questa storia vera, Maria Fini, è purtroppo venuta a mancare i primi di dicembre del 2018. Vi lasciamo alle sue parole e, a seguire, quelle del figlio Giovanni Negrisolo che ha condiviso con noi il suo ricordo
Giugno
Ero arrivata a Marina Piccola i primi di giugno.
Giulia era venuta a prendermi alla fermata dell’autobus; ci eravamo abbracciate, poi mi aveva tolto di mano la valigia, e si era avviata per la strada già arroventata dal sole.
«Vieni, non è lontano; cinque minuti e ci siamo».
Il bar-tavola calda che gestiva insieme con suo marito si trovava sull’ultimo tratto di strada prima della scalinata che da un boschetto di pini scendeva fino alla spiaggia.
«Sono davvero contenta che tu sia venuta, io e Bruno abbiamo bisogno di una mano, adesso che arriva la bella stagione».
«Sì, sono contenta anche io».
Mentre disfacevo la valigia, Giulia mi guardava senza dire niente.
«Ok, Giulia, ascolta. Io e Stefano non stiamo più insieme. L’ho lasciato a casa e sono partita. Mi ha detto che nel giro di qualche giorno se ne va anche lui e che al mio ritorno non lo ritroverò. Ecco, adesso che te l’ho detto, mi sento meglio. Ti dispiace se non ne parliamo più?».
Ho conosciuto Giorgio dopo una settimana che lavoravo a Marina Piccola. Veniva al bar tutti i giorni, si sedeva ad un tavolino vicino alla veranda; per lo più leggeva o scriveva su un block notes con una strana concentrazione, come se prendesse appunti. Avevo chiesto a Giulia chi fosse.
«Si chiama Giorgio Malvaldi, è un medico in pensione. Abita in quella villa sopra la collina, l’hai mai vista? Quella con il porticato a colonnine. Prima veniva solo l’estate, ma da quando è morta la moglie, poverina, si può dire che si è trasferito qui».
Ero incuriosita da lui. Lo guardavo di sottecchi dal bancone, cercavo di attaccare discorso quando gli portavo il caffè. Avevo calcolato che potesse avere sessant’anni, forse di più. Veniva al bar con il suo cane, che si accucciava ai suoi piedi e stava lì tutto il tempo. Non parlava mai al telefono, non salutava mai nessuno.
«Sai com’è morta sua moglie?».
«Non lo so di preciso, penso fosse malata. Ma perché ti interessa tanto? Quello non dà mai retta a nessuno… Ah, senti, l’amico di Bruno, Luigi, quello che è venuto ieri, hai presente? Ha chiesto a Bruno di te, mi sa che hai fatto colpo. Perché non ci fai un pensierino? È un bel ragazzo, no?».
«Senti Giulia, non ho la testa per queste cose; non sono dell’umore per uscire con nessuno».
«Pensi ancora a Stefano, vero?».
«Non lo so».
«L’hai sentito? Sai se se n’è andato davvero?».
«No. Non lo so». Giulia non aveva insistito. Non avevo notizie di Stefano; non lo avevo chiamato né lo aveva fatto lui. A volte mi passavano davanti agli occhi immagini degli ultimi tempi insieme: lui sempre indaffarato, distante; lui con lo sguardo sfuggente, anche quando parlava con me. E infine, lui seduto sul letto, i gomiti appoggiati alle ginocchia, la testa bassa, nel nostro ultimo giorno insieme.
Spesso nel primo pomeriggio andavo in spiaggia; avevo scoperto un caletta nascosta, circondata dagli scogli e dalla pineta che scendeva fino al mare. Mi piaceva starmene appoggiata ad uno scoglio, con i piedi nell’acqua, riparata dal sole dall’ombra dei pini. A quell’ora non c’era mai nessuno. L’azzurro dell’acqua si frammentava in riverberi di luce contro le miei mani; sentivo solo lo sciacquio delle piccole onde contro i piedi, il fruscio misterioso della pineta alle mie spalle.
Luglio
La prima volta che Giorgio mi ha rivolto la parola è stata su quella spiaggetta.
Un pomeriggio avevo trovato riparo in una radura della pineta da una pioggia improvvisa. Avevo sentito qualcuno gridare dalla spiaggia, e subito dopo un rumore di passi che si avvicinavano.
«Mi scusi, non volevo disturbarla, ha visto il mio cane?».
«No, ma è da poco che sono qui, forse è sceso sulla spiaggia».
«Vengo da lì, chissà dove si è cacciato». Si era guardato intorno e poi, come colpito da un pensiero, mi aveva teso la mano «Sono Giorgio. Lei lavora al Bar di Giulia e Bruno, vero?».
«Sì. Sono Maria».
Era rimasto in piedi, si guardava attorno.
«Wolf è un cane tranquillo, ma sulla spiaggia non riesco a tenerlo; gli piace correre e litigare con le onde».
Mi aveva sorriso con uno strano sorriso timido. Dopo poco, Wolf ci aveva raggiunti, eccitato dalla corsa, ansimante. Lui lo aveva calmato accarezzandogli il muso e le orecchie. Lo aveva legato al guinzaglio e dopo poco erano andati via.
Giorgio e Wolf venivano alla spiaggetta quasi tutti i pomeriggi. Spesso li trovavo già lì; scendendo dalla scalinata, prima ancora di vederli, sentivo le loro grida provenire dalla spiaggia. Giorgio mi scorgeva da lontano; camminava verso di me guardandomi negli occhi e solo quando era di fronte a me mi salutava. Quello sguardo silenzioso mi metteva una strana inquietudine, come se temessi che durante quei cinquanta passi o poco più che ci separavano lui potesse realizzare l’assurdità di passare il suo tempo con me e decidere di non tornare più.
L’agitazione si calmava solo quando lo rivedevo; ma il giorno dopo, già all’ora di pranzo cominciavo a sentire la stessa ansia.
Il pomeriggio, sulla spiaggia, si ricomponeva quella specie di magia che ci univa quando parlavamo e quando stavamo in silenzio, quando giocavamo con Wolf e quando, distesi sulla sabbia o sotto un albero, aspettavamo soltanto che passasse il tempo, come se anche quello stare lì senza fare niente avesse per noi un valore inestimabile.
Nelle giornate più calde ci riparavamo all’ombra della pineta; la luce violenta del pomeriggio si faceva strada tra il fitto degli alberi, ci raggiungeva a tratti nell’ondeggiare dei rami sopra di noi.
«A che pensi?».
«A niente. Anzi, no, a te».
«A me?». Il mio cuore aveva mancato un battito, in una sospensione istantanea del tempo.
«Sì, mi chiedo perché sei qui».
«Qui a Marina Piccola o qui con te?».
«Tutte e due le cose».
«Mi piace parlare con te; mi sembra facile raccontarti le cose, come se in qualche modo tu le sapessi già e io non dovessi fare la solita fatica di spiegare, di giustificarmi…».
«Giustificarti? E perché?».
«Non lo so. È come se mi sentissi sempre in colpa per qualcosa. Adesso sono qui e dovrei essere a casa mia ad aspettare la nomina per la supplenza, come ho fatto negli ultimi sette anni. Parlo con te, ma forse dovrei farmi delle domande sul perché la mia storia è finita e magari cercare di ricucirla, ammesso che si possa fare…».
«È questo quello che vuoi? Tornare ad insegnare? E tornare con Stefano?». Lo guardavo cercando di scorgere nei suoi occhi il dispiacere; avrei voluto che mi fermasse, che mi dicesse: «Basta con il passato, basta con la scuola». Soprattutto, basta con Stefano.
«Hai fatto un salto fuori da tutto questo, hai avuto coraggio. Hai dimostrato a te stessa di potercela fare. Adesso puoi anche tornare indietro, o cercare un’altra strada, è lo stesso. Nel senso che sei tu ad essere cambiata».
«Non voglio tornare indietro». Voglio stare con te.
«Va bene».
Potresti prendermi le mani e dirmi che questo pomeriggio durerà per sempre, che anche tu senti quello che sento io…
Potresti dirmi che non mi lascerai mai sola.
Invece lui non mi diceva quasi niente della sua vita. Se cercavo di saperne di più mi fermava subito, mi diceva che non era importante. A volte mi stringeva le mani ed io indovinavo in quella stretta la preghiera di non fargli domande. Non so se in quei momenti indovinasse il tumulto che avevo dentro, se percepisse il tremito delle mie mani.
«Io comunque… Ascoltami».
«Dimmi». I suoi occhi grigi mi scrutavano. «Io comunque voglio stare con te».
Dopo quella assurda dichiarazione non si fece vedere per tre giorni. La mattina lo aspettavo al bar; lavoravo con una sorta di concentrazione guardinga, con lo sguardo sempre verso l’ingresso, e il cuore congelato. Il pomeriggio scendevo sulla spiaggia con l’ansia che mi divorava e accelerava e rallentava i miei passi in un’alternanza dolorosa di speranza e senso di perdita.
Rimanevo in spiaggia fino a quando la speranza di vederlo arrivare, che mi aveva avvolta come un velo fin dalla mattina, si strappava in brandelli portati via dal vento. La delusione ricopriva di grigio il cielo e la pineta. Il muro compatto degli alberi incombeva alle mie spalle, all’improvviso minaccioso. E anche il mare, azzurro e morbido sotto la luce abbacinante, rimandava bagliori di metallo che mi ferivano gli occhi.
Al terzo giorno non ce l’ho fatta più e sono andata a cercarlo.
Camminavo controcorrente per la strada piena di gente, lo sguardo fisso sulla collina, cercando di scorgere una luce accesa, senza vedere niente.
Poi il trambusto della strada era cessato di colpo; salivo sulla collina in un silenzio irreale; le voci e i rumori mi arrivavano dal basso attutite dal bosco e si dissolvevano in echi indistinti, in piccoli gridi simili a rami spezzati o versi di animali notturni. Le luci della casa occhieggiavano tra gli alberi, mi venivano incontro ondeggiando al ritmo dei miei passi.
A un tratto me la sono ritrovata davanti, grande e bassa nello spiazzo erboso della radura. Tra gli archi del portico delle lanterne mandavano un bagliore che si ravvivava ad ogni folata di vento. Non sentivo alcun suono provenire dall’interno. Stavo lì, nel buio, incerta tra l’andare via e il farmi coraggio e bussare, quando dal retro della casa è spuntato Wolf che abbaiando mi è saltato addosso. Poco dopo si è aperta una porta e la luce dell’interno ha illuminato lo spiazzo.
«Maria…Che ci fai qui?».
La sua figura alta si stagliava in controluce nel vano della porta; pure nella confusione del momento, riuscivo a cogliere un tono allarmato nella sua voce.
«Ciao, Giorgio. Non ti ho più visto, pensavo che fosse successo qualcosa o che… fossi andato via».
«No, sono stato qui, solo che avevo un po’ di cose da fare. Entra».
La casa era come me l’ero immaginata: il portico girava tutto intorno e sotto gli archi si aprivano le porte che davano direttamente alle stanze. La stanza più grande era una specie di sala che serviva da cucina e studio, ingombra di carte, atlanti, mappe appese alle pareti e tantissimi libri, per lo più trattati di medicina.
«Vieni, scusa per il disordine».
«Scusa tu per l’ora».
«Non ti preoccupare, soffro d’insonnia».
C’era un lampo divertito nel suo sguardo, forse mi stava prendendo in giro, ma era tale il sollievo di averlo ritrovato che non mi importava. Avevo gli occhi chiusi e sentivo il suo respiro sulla fronte. Mi sfiorava il viso con le dita: prima le palpebre, poi il naso, il contorno delle orecchie. Mi accarezzava i capelli ad uno ad uno, ed era come se cercasse qualcosa, l’indizio decisivo in una mappa del tesoro, il punto di un percorso interrotto e per miracolo ritrovato. Io non osavo muovermi; sapevo che se avessi aperto gli occhi la magia si sarebbe dissolta e non sarei più riuscita ad trattenerla, come quei sogni dell’alba che sembrano vividi e veri, ma che al risveglio non riesci più ad afferrare. Le sue dita seguivano il contorno delle labbra. Era un bacio, quello? Sì, anche se la sua bocca non toccava la mia, e non c’era altro contatto tra di noi che i suoi polpastrelli sulla mia pelle. Il suo alito mi accarezzava il viso a piccole onde calde, e la risacca mi trascinava in un brivido che si ripeteva a ogni respiro.
«Ho sessantaquattro anni e tu trenta».
Eravamo abbracciati, nel silenzio della notte, la stanza immersa nel buio. Le sue braccia mi avvolgevano completamente, sentivo la stoffa fresca della sua camicia contro la guancia, il suo mento appoggiato sui capelli.
«Che importa? L’età è soltanto un numero».
«No, non è soltanto un numero. La mia vita io l’ho vissuta, la tua deve ancora cominciare. Hai tante cose da fare; devi pensare al lavoro, per esempio. E poi, non vuoi sposarti, avere dei figli? Sono tutte cose che io non ti posso dare, lo capisci?».
«Io voglio stare con te, non mi importa per quanto tempo. E perché non può essere per sempre? Tu non devi promettermi niente, a me basta sapere che ci sei adesso e che non devo avere paura che domani non ci sarai più. È troppo chiederti di esserci oggi, e domani?».
Il suo respiro era diventato più profondo, come un sospiro trattenuto. Si era spostato sul divano, le sue braccia avevano allentato la stretta.
«Stanotte dormi qui, è tardi per tornare giù. O vuoi che ti accompagni?».
«No, voglio restare».
Sentivo il panico salire su per le gambe, serrarmi la gola.
Adesso si alzerà dal divano e mi dirà che non dobbiamo vederci più…
«Dimmi che ci sarai anche domani».
Non riuscivo a controllare l’urgenza nella mia voce, non mi importava che lui se ne accorgesse.
«Ci sarò anche domani».
«Me lo prometti?».
«Sì».
Agosto
Dopo quel sì, ci siamo visti tutti i giorni. Il pomeriggio scendevamo alla spiaggetta, ci sdraiavamo all’ombra dei pini; qualche volta facevamo il bagno; ci immergevamo nell’acqua caldissima del primo pomeriggio. Passeggiavamo lungo la riva senza incontrare nessuno per lunghi tratti. Il mare scintillava sotto ondate di luce calda; in lontananza passavano i pescherecci e i traghetti verso le isole, smuovevano onde che arrivavano fino ai nostri piedi con piccoli sbuffi di schiuma. Camminando mi attirava verso di sé e io poggiavo la testa sul suo petto, tiepido di sole. Gli arrivavo appena alle spalle, il suo abbraccio mi avvolgeva tutta. Tutto il resto era lontanissimo da noi. Il pensiero di Stefano svaniva non appena si affacciava alla mente. Mi pareva di non avere avuto una vita prima di lui, e che non ne avrei avuta un’altra dopo.
I nostri baci salmastri invadevano tutti gli spazi della mia mente, e occupavano tutti i ricordi quando ci separavamo.
La sera dopo il lavoro andavo a casa sua.
Ogni volta che salivo per la collina provavo la stessa sensazione della prima volta: l’ansia accelerava i miei passi; il cuore batteva con colpi sordi e quasi dolorosi. Quando arrivavo in cima, mi fermavo per calmare il respiro. La casa mi appariva sempre all’improvviso, come se spuntasse dal nulla tra gli alberi. Wolf mi correva incontro galoppando giù per la collina. A volte Giorgio mi aspettava sulla soglia, alto e chiaro contro il buio alle sue spalle. Altre volte lo trovavo in cucina, affaccendato per la cena.
Mangiavamo fuori, su un tavolino di plastica da giardino. Quando pioveva stavamo sotto il portico; guardavamo il boschetto piegarsi sotto la pioggia, gli alberi ondeggiare sulle nostre teste.
Dopo cena, spesso facevamo una passeggiata nei dintorni della casa. Dietro casa, la collina saliva ancora; più in alto, il bosco di pini si diradava, lasciava spazio ad ampie radure. Ci voltavamo a guardare il mare sconfinato sotto di noi, nero nella notte come un drappo di velluto dispiegato da un promontorio all’altro.
Nelle notti di luna piena arrivavamo fino ad una chiesetta posta in cima, circondata da sterpi e cespugli incolti.
Ci sedevamo sulle mattonelle del portico, tenendoci per mano, nel silenzio profondo della notte.
«Che sarà di noi quando tutto questo finirà?».
«Maria, avevamo promesso di non parlarne».
«Dimmi solo questo: dopo l’estate ci rivedremo? O tu tornerai alla tua vita, e io alla mia, e di tutto questo ci rimarrà solo il ricordo?».
«Maria…».
«Scusami, non dovrei chiedertelo, lo so».
«Credo che tu dovresti pensare a ricostruire la tua vita. Io ti sarei solo d’intralcio. Che cosa posso darti, io?».
«E io, ti sto dando qualcosa?».
«Tu mi hai riportato alla vita, quando ormai pensavo di non potermi aspettare più niente di bello».
«Ma perché dici così? Perché pensi di non meritare l’amore di qualcuno? Io…».
«No, non dirlo. Non dire cose di cui ti potresti pentire. Tu tornerai alla tua vita” Mi aveva appoggiato il dito sulle labbra per zittire tutte le mie proteste “E io ti lascerò andare, è questa la prova d’amore che ti do».
Il suo sguardo lampeggiava nel buio. «E tu devi promettermi che non mi cercherai. È questa la prova che io chiedo a te».
Da allora, non abbiamo più parlato del futuro. Ho cercato di farmi bastare quello che avevamo, il nostro presente, le nostre cene, le passeggiate.
La notte dormivamo abbracciati; il vento della sera entrava dalle finestre aperte. Io dormivo poco; mi svegliava ogni fruscio, ogni più piccolo rumore del boschetto appena al di là della finestra. Fluttuavo tra sonno e veglia fino all’alba. Poi preparavo il caffè e andavo al lavoro, mentre Giorgio dormiva ancora. Wolf, già sveglio, mi gironzolava intorno in silenzio. Poi si accucciava sulla veranda e mi vedeva scendere giù per la collina, agitando la coda in segno di saluto.
Io correvo nel sottobosco; l’aria ancora fresca della mattina mi sferzava la faccia, mi svegliava del tutto prima di arrivare in paese.
Dovevo avere l’aria stravolta in quelle mattine, perché Giulia mi guardava stupita e quasi allarmata. Ma non mi diceva niente né mi ha mai chiesto perché non dormivo più nella stanzetta dietro al bar.
Settembre
Il cortile è deserto; alle due del pomeriggio ha un aspetto desolato, come sfinito dal caldo ancora opprimente, che il violento temporale riesce appena a mitigare. Attraverso il viale tra le aiuole quasi di corsa. Intanto la pioggia scroscia tra la chioma dei tigli del giardinetto condominiale; non cerco neanche più di evitare le pozze d’acqua che si sono formate tra le mattonelle sconnesse, ci affondo i piedi coperti solo dai sandali ormai fradici, con l’acqua che mi schizza fino alle ginocchia.
Non so come, arrivo al portone; la pioggia rimbomba sulla pensilina di plexiglass, con un fragore che però sembra già attutito, come l’eco di una tempesta lontana.
Davanti a me, il muro d’acqua dissimula le forme degli alberi e dei cespugli, confonde le sagome delle panchine. Ogni forma di vita sembra scomparsa, o nascosta; il fiumiciattolo che si è formato trascina davanti ai miei piedi pezzi di rami, foglie, sassi divelti da chissà dove. Mi strizzo i capelli, cerco di asciugarmi la faccia con le mani. Ho l’assurda convinzione che pioverà per sempre, che io resterò qui, sola al mondo, per sempre. Poi qualcosa mi scuote, il rumore di un ramo spezzato, forse, o lo scalpiccio di passi affrettati oltre il muro di cinta. Con le dita intorpidite cerco di infilare la chiave nella serratura. La casa è vuota; sapevo che Stefano era andato via, ma averne la conferma mi colpisce come uno schiaffo.
Sono tornata a casa e sono sola.
Non so di preciso che giorno è, ma di certo è l’ultimo giorno dell’estate.
L’autrice di questa storia, Maria Fini, è venuta a mancare i primi di dicembre del 2018. Ci racconta chi era Giovanni Negrisolo, suo figlio: Maria Fini è nata a San Giovanni Rotondo (FG) il giorno 11 agosto 1968. Si è laureata in Giurisprudenza presso la LUISS – Guido Carli di Roma con tesi sul diritto di cronaca e ha poi conseguito il Dottorato in Diritto e Procedura Penale. Ha esercitato la professione di giudice onorario e di insegnante, prima di vincere il concorso per segretario comunale, professione esercitata da ultimo. Ha sempre coltivato la passione per la scrittura e per la lettura, prediligendo la poesia italiana moderna e contemporanea. Si è classificata al primo posto nella edizione 2013 del Premio Nazionale di Poesia “Vincenzo Travaglini” bandito dall’associazione Agorà di Fara San Martino (CH) con la poesia Ho lasciato qualche impronta, e al secondo posto nella edizione 2014 dello stesso Premio, con la poesia Le cime degli alberi. Nel 2013 è risultata tra i dieci finalisti della XIX edizione del Premio Letterario Energhia di Matera, nella sezione “I Brevissimi – Domenico Bia”, con il racconto Nice. Nel 2014 si è classificata al terzo posto del Concorso internazionale di poesia “Dolce sole” di Gissi (CH) con la poesia Sono triste della tristezza degli altri. Nel 2015 si è classificata al terzo posto nella XVII edizione del Premio letterario internazionale “Donna” di Fasano, con la poesia La parola alle cose. Nel 2017 si è classificata al secondo posto con la poesia Il tempo corre a scatti e ha ricevuto il premio alla cultura nel 1° Concorso internazionale di poesia “Poesiando” organizzato dall’Associazione Culturale Kalè di San Giovanni Rotondo (FG). Ha ricevuto menzioni d’onore e attestazioni di merito in vari altri concorsi letterari. Nell’ottobre del 2018 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesia “Nel punto più profondo” (Edizioni “Il Saggio”) da cui è stato tratto questo breve resoconto della sua vita che, purtroppo, ha avuto termine il 2.12.2018 a San Giovanni Rotondo.
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