Storia vera di Elisabetta L. raccolta da Marina Zinzani
È un sabato mattina, e ne approfitto per fare un po’ di cose. Sono in centro, ho intenzione di visitare un negozio appena aperto, e devo fare anche un salto in posta. C’è gente, prendo il numero e mi siedo, in attesa. Davanti a me c’è una donna dai capelli lunghi, quando si alza per andare allo sportello, la riconosco: è Lisa! Ne seguo i movimenti, aspetto che si giri e poi la saluto con la mano. Ci abbracciamo, è tanto che non ci vediamo. Ecco, lei mi ha aspettato e abbiamo deciso di prenderci un caffè in un bar accanto alla posta. Abbiamo un sacco di cose da raccontarci, sono passati almeno dieci anni da quando ci siamo viste l’ultima volta. Facevamo parte di una grande comitiva, si usciva il sabato, la domenica, ho ricordi molto belli di questo gruppo, e con lei mi ero trovata subito bene.
Ordiniamo due cappuccini e qualche pasticcino. Ogni tanto un momento fra donne ci vuole, una pausa piacevole sulla scia dei ricordi. ”Hai rivisto qualcuno? Lo sai che Beatrice è andata a vivere a Londra? E sai che Tommaso adesso fa il giornalista, chi lo avrebbe detto? Invece Serena ha sposato un uomo importante, si è trasferita a Roma”. I discorsi si accavallano e i ricordi arrivano. Ho davvero piacere di aver ritrovato Lisa. Abitiamo nella stessa città ma ci siamo perse di vista, il nostro gruppo si è sciolto, chi si è sposato, chi è andato a vivere altrove, chi semplicemente ha cambiato giro.
Il cappuccino arriva, i pasticcini che abbiamo ordinato sono il tocco dolce a questo incontro non previsto. Mentre lei parla io penso che è stato un peccato perdersi in questi anni, che possiamo scambiarci il numero di telefono, vederci qualche volta, anche con i relativi compagni. Vedo la fede al dito, e comprendo che si è sposata, come me.
«Ti ricordi del cugino di Roberto? Ecco, un giorno Roberto me lo presenta, e da lì è nata la nostra storia, quasi un colpo di fulmine. Conosciuto ad aprile, e a maggio dell’anno dopo ci siamo sposati. Poi sono nate le bambine, Jessica e Ludovica, le mie due pesti. Guarda» mi dice facendomi vedere le foto sullo smartphone.
«Bellissime! Quanti anni hanno?» chiedo.
«Quattro anni la più piccola e sei anni la più grande. Sono due amori. Mi fanno un po’ spazientire delle volte…» dice sorridendo, con un’espressione di orgoglio e soddisfazione. Anch’io sorrido, partecipe della felicità che traspare dai suoi occhi.
Ecco la domanda. La solita domanda. Lei avrà pensato: sono sposati da cinque anni, non hanno ancora avuto un figlio, cosa aspettano? E poi non siamo più giovanissime, noi due. Questa mattina ora mi sembra meno serena. È finito all’improvviso il momento magico con lei. Devo rispondere. A quando un figlio?
Devo applicare la regola. Una regola costata lacrime e sangue. Una regola nata un anno fa, per caso. Quasi una piccola bacchetta magica che mi ha fatto uscire, almeno in parte, dall’imbarazzo in cui cadevo tutte le volte. Le persone, parenti, conoscenti, amici, vogliono sapere perché non ho ancora figli. Alla faccia della discrezione. Vogliono sapere perché non ne ho avuti finora, cosa aspetto? Non voglio averne? Sono sterile? O lo è mio marito? È un fatto economico? Oppure perché il mondo è brutto ed è meglio non aver figli?
Pochi mesi dopo il matrimonio è iniziato questo moto lento, ma continuo, e poi sempre più pressante, di sguardi, di domande appena accennate e poi di interrogativi più diretti e precisi, e tutti a chiedermi perché non avevamo ancora avuto bambini.
I nostri genitori, visibilmente in attesa della grande notizia. Le mie amiche, tutte con figli. La vicina di casa impicciona, che incontro sul pianerottolo. La fornaia, che oltre al vendermi il pane non condivide niente con me, ma anche lei vuole sapere. È una piccola ferita che crea disagio, fino ad allargarsi, e ti senti diversa quando arriva Natale e ti trovi attorno i parenti, tutti con bambini, e anche lì, senza nessuna sensibilità, ti chiedono quando arriverà un figlio. Ci si rinchiude, ed è facile cadere in una spirale di sottile sofferenza. Anche se c’è molto di peggio, certo. C’è sempre qualcosa di peggio.
Poi un giorno, ho trovato la formula magica. Ne parlavo con una lontana parente, Eleonora. Una donna di rara sensibilità. Non so perché mi ero aperta con lei, manifestando il mio stato d’animo. Le spiegavo che io non ho mai raccontato a nessuno perché non avessimo figli, ma tutti sembravano in dovere di entrare nella mia sfera personale, come se la cosa li riguardasse.
«Vedi, tutte queste persone che ti chiedono perché non hai bambini non sanno niente di te, essenzialmente. Anzi, di voi due. Non sanno se non hai figli perché non riesci ad averne, e magari li desideri tremendamente, ma non arrivano. E ci stai male, in silenzio. Non sanno se tu vuoi averne e tuo marito no, perché succede anche questo, la donna ha un istinto materno, e l’uomo la asseconda spesso, ma non tutti gli uomini se la sentono. E allo stesso modo non sanno se tu non hai nessuno dietro le spalle che ti aiuti, che si prenda il bambino quando è ammalato, quando esce da scuola, quando è da portare ai corsi il pomeriggio, e se voi due lavorate e non c’è nessun nonno che può aiutarvi come fate? Aggiungiamo anche che i figli costano, avete fatto un mutuo, occorrono due stipendi. Quindi, la gente non sa nulla di te e chiede. Allora tu devi pensare questo, quando te lo chiedono: “Questa persona è superficiale, e non può mettermi a disagio con la sua domanda inopportuna”».
Ecco quello che penso ora, davanti a Lisa. In questo momento si sta comportando da persona superficiale. Non discreta. Prendo forza, e dico: «Sono cose personali, Lisa, e anche un po’ complicate».
Vedo il suo sguardo perplesso, forse contrariato. Guardo l’orologio, e penso che dovrò continuare il mio giro. Lei lo capisce e poco dopo ci congediamo.
La mattinata può essere ancora piacevole. Niente può ferirmi. Ho la regola di Eleonora. ●
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