“Mi ha toccato il cuore” scrive Barbara sulla pagina Facebook riferendosi “Alla stazione” di Serena Mini, la storia vera più apprezzata della settimana. Selezionata da ConfyLab, il nostro laboratorio di scrittura estivo, è stata pubblicata sul n. 43 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog
Ho appena offerto un caffè a un ragazzo straniero. Lui mi guarda sorpreso, quasi con incredulità. Ma poco dopo a stupirmi è lui, con un gesto di riconoscenza che abbraccia il mondo
Storia vera di Serena Mini
Entro nel bar della stazione, voglio un caffè doppio, ho sonno e per fortuna non fa ancora caldo, ultimamente gli ormoni mi fanno brutti scherzi con piccole fiammelle caldissime che mi salgono su dal centro della pancia fino a invadermi ogni centimetro quadrato di pelle. Penso che ancora non si sono fatte vive e tiro un sospiro di sollievo.
C’è gente, tanta, inciampo nelle rotelle di un trolley nero trainato da una signora robusta e dalla family al suo seguito mentre lei agile si muove schivando le persone che si incrociano in ogni direzione. È più brava di me penso.
Vado alla cassa, c’è la coda, pare infinita, ma con un sospiro silente mi metto in fila. Sento i miei occhi stanchi di una notte insonne che mi si era appiccicata addosso insieme al caldo non dandomi pace tranne giusto tre ore. Forse meno. Mi guardo ancora intorno, mi aggiusto gli auricolari mentre osservo le persone, i turisti, le tante valigie enormi e rigide, quelle che sanno di viaggi lunghi in aereo, di Paesi lontani e di oceani attraversati in alta quota.
Avrei voglia anch’ io di un viaggio lungo, lunghissimo, con tante ore di volo fino a raggiungere l’altro emisfero, in Australia o in Giappone, mondi lontani da tutto dove respiri un’aria diversa e nuova. Sospiro pensando ai miei ragazzi, gliel’ho promesso: appena potrò, appena mi sarò ricostruita, appena avrò la possibilità ci andremo insieme, noi tre, prenderemo un aereo e voleremo via, lontani e felici alla scoperta del mondo. Sorrido al pensiero, avverrà, gliel’ho promesso e le promesse si mantengono. Tolgo gli auricolari.
La fila scorre, la ragazza alla cassa parla inglese che Dio la benedica, almeno non facciamo sempre la figura dei sottosviluppati come me medesima.
Adesso sta al ragazzo davanti a me, alto, altissimo, sarà più di un metro e 90, due spalle che fanno muro, una pelle scura liscia bellissima come solo i giovani e sportivi possono avere, penso che se non ha fatto basket è un campione mancato con quell’altezza. Anche lui con una valigia grande che accosta di lato a sé.
Ordina il suo caffè, lungo, non vuole altro.
Si accinge a pagare e tira fuori una banconota da 100 euro. La ragazza lo guarda e cortesemente gli chiede se ha moneta perché non ha resto. Lui fa cenno di no, la ragazza gli ripete che non ha resto e non sa come fare, lui paziente tira fuori la carta di credito ma niente, la ragazza gli dice che il pos non funziona. Credo non sia vero, ma sorvolo. Noto che sta per rinunciare lui, cortese e gentilissimo. “Io voglio il mio caffè” penso, e mentre sento la stanchezza del sonno arretrato farsi viva e insistente provo uno slancio di empatia per quel suo mancato caffè, ho due euro in mano, tanto che mi faccio avanti con la ragazza e le dico: «Due caffè grazie, lo pago io per il ragazzo». Lui nel frattempo si è fatto da parte e sta rimettendo banconota e carta nel portafoglio; secondo me sta pensando al valore insulso di un pezzo di carta così se non ci può prendere manco un caffè. Sono sicura l’abbia pensato. La ragazza lo chiama, lui si gira, e lei in un inglese celestialmente perfetto gli spiega che avevo pagato io il suo caffè, mentre gli porge lo scontrino. Lui pare non capire, mi guarda sorpreso, vedo passare nei suoi occhi neri un lampo di incredulità che mi fa quasi tenerezza, gli sorrido e in italiano (rivendico la bellezza della mia lingua madre ovunque, mi dovrebbero pagare per questo servizio umanitario e universale) gli dico che è tutto ok, che mi dispiaceva non potesse prendersi il suo caffè.
La ragazza solerte traduce, mentre la fila ricomincia a scorrere, sono arrivati dei gruppi di cinesi assai rumorosi, con più valigie dei loro corpi e un inglese pessimo, mentre lei cerca di capire pazientemente cosa le stiano chiedendo. Ci spostiamo per fare spazio, io veloce senza bagaglio lui più lentamente mentre cerca di districarsi. Mi guarda e mi sorride di un sorriso bellissimo, “che denti bianchi perfetti ha” penso, mi ringrazia ancora e dice un sacco di altre cose di cui intuisco il significato ma rispondere diventa arduo. Rimedio pure io col sorriso e gli dico che l’ho fatto volentieri.
Gli vorrei raccontare dell’usanza bellissima di Napoli chiamata “caffè sospeso”, quel caffè lasciato pagato per chi per un motivo o un altro non può prenderselo, ma non oso azzardare la spiegazione, appena posso farò un corso intensivo full immersion d’inglese, giuro lo faccio.
La mia lista delle promesse si allunga. Ci salutiamo, mentre ci dirigiamo verso il bancone del bar a ordinare il sospirato caffè. Con un po’ di fatica mi inserisco fra due persone che hanno finito di fare colazione mentre con la coda dell’occhio lo vedo che lui si sposta verso l’estremità opposta più libera. Ordino e quando mi mettono la tazzina davanti non mi sembra vero. Con calma me lo gusto mentre osservo che anche lui ha finalmente la sua tazza in mano. Ci sorridiamo a distanza con un accenno di cin cin. Come dire, alla nostra, ce l’abbiamo fatta. Mi sembra un auspicio bellissimo e non so spiegarmi perché.
Bevo il caffè e mentre mi avvio per andare alla porta d’uscita ci salutiamo ancora. Vado fuori a fumarmi una sigaretta, esco nel sole di una giornata che promette luce e calore mentre intorno a me c’è un via vai di gente incredibile. L’accendo e aspiro la prima boccata soffiando il fumo in alto lentamente, non ho fretta, mi godo quel momento. Penso anche che nella lista c’è la promessa di smettere, una cosa per volta manterrò tutto. Finisco la sigaretta, la butto nel cestino e faccio per avviarmi verso la fermata dell’autobus quando lo vedo venirmi incontro. Cammina veloce ma senza fretta mentre allunga il braccio in un gesto di richiamo.
Mi si avvicina, gli sorrido sorpresa e lui con un inglese lentissimo aiutandosi con i gesti mi dice ancora grazie, di aver trovato un negozio che gli ha cambiato i soldi e che mi ha preso un pensiero, un piccolissimo pensiero per me. Io quasi penso di aver capito male, lo guardo meravigliata, nel dubbio sincero di non aver compreso. Lui mentre parla mi porge un cuore di vetro con la scritta I Love Fi. Resto basita, ancora sorpresa, senza parole.
Lo guardo e mi dice, lentamente, una frase:
«When I think of Florence I will always remember you of your smile» («Quando penserò a Firenze, mi ricorderò sempre del tuo sorriso»).
Sento un formicolio alla base del naso, gli angoli degli occhi mi pungono diventando umidi, sto per commuovermi. Guardo la sua mano dalle dita lunghe che prendono la mia e mettono nel centro del mio palmo quel piccolo cuore di vetro, sono in tilt di pensieri e parole, resto in silenzio mentre mi commuovo sul serio adesso. Ho gli occhi con le lacrime ferme sul ciglio. Gli dico ancora grazie e con naturalezza come succedono le cose semplici ci abbracciamo, lui si piega quasi a metà, odora di fresco e mi lascio avvolgere da quelle braccia lunghe dalla pelle scura bellissima, da quella gentilezza fatta di sguardi parole e gesti che quando la incontri scioglie resistenze e apre il cuore in un linguaggio universale.
Restiamo così, due sconosciuti, uniti dentro un istante fatto di bellezza ed emozione, da un abbraccio e un caffè. Si creano forse così le memorie, quelle piccole ma infinite fra le cose belle da tenere, da ricordare, quelle che anche in momenti tristi ti riportano attimi di felicità. Ci stacchiamo lenti, un ultimo sguardo lucido, ci auguriamo buona fortuna. Resto ferma mentre stringo in mano il cuore di vetro e lo guardo andare via. Non so il suo nome, sorrido e penso non abbia importanza.
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