All’ombra di un cipresso

Cuore
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È la storia più votata del n. 27: un racconto intimo e delicato che ora trovi qui sul blog

storia vera di Ambra F. raccolta da Francesca Stucchi

Al podere, gli zii e i cugini ce la mettevano tutta per farmi sentire a mio agio. Dovevo ricomporre me stessa. Avevo solo 17 anni, ma avevo già dovuto affrontare prove pesanti 

 

Me ne stavo seduta in cortile sulla ghiaia pungente, respirando ondate di vento e tormenti, all’ombra lunga e sottile del cipresso. Liana mi sollevava la testa col muso, quasi volesse spronarmi ad alzarmi, che il tempo del dolore era finito.

Ero arrivata a Cortona in pieno inverno, il podere degli zii, isolato e superbo, si ergeva in cima alla collina e da lassù dominava la vallata. Da generazioni portavano avanti l’azienda agricola alla vecchia maniera, incuranti dei progressi della società. Il loro mondo era quello, scandito da ritmi naturali e costanti, fatto di mungiture e ceste di olive, di pasta fresca e solchi di aratro, e così doveva restare, anche se la conduzione familiare dell’azienda da anni ormai non pagava più. Una vita lenta e ruvida, come la lingua della mucca. Lo scoprii uno dei primi giorni nella stalla, quando mi avvicinai troppo alle sue narici umide per non darle modo di leccarmi all’improvviso. La mucca comunque mi stava simpatica, mi osservava bonaria e mansueta, incuriosita dalla nuova presenza; non sopportavo invece le pecore che se ne stavano per conto loro in una lanosa indifferenza.

Al podere ero stata accolta con discrezione e rispetto, gli zii e i cugini ce la mettevano tutta per farmi sentire a mio agio. Mi avevano preparato una stanza al piano terra, in quella che era la vecchia officina: un’ampia camera con il soffitto a travi di legno, un letto bianco accanto alla finestra, con un copriletto ricamato a fiori lilla, coordinato col motivo delle tende. Si affacciava sul cortile interno, abbracciato dalle colline toscane, che in inverno si tingono di un caratteristico grigio-blu. Sul far della sera avevo l’impressione di essere atterrata su un altro pianeta. Il piccolo scrittoio di legno rosso accoglieva i miei racconti notturni che prendevano forma su quaderni a righe, alla luce fioca delle candele; ce n’erano in abbondanza nel cassetto sotto la scrivania, le collocavo delicatamente ad una ad una sul candelabro in ceramica blu e restavo ore a guardarle consumarsi lentamente, finché un rigagnolo di cera liquida fuoriusciva dall’incavo e scorreva giù addensandosi sul legno. Lo staccavo con l’unghia prima di chiudere un verso.

Scrivevo poesie intrise di sogni perduti e nostalgie, degne della penna di un vecchio disilluso poeta. Avevo appena compiuto diciassette anni, ma la vita l’avevo già bevuta a sorsate. Avevo perso i miei genitori in un unico maledetto giorno sull’A1. Dopo due impegnative operazioni alle gambe i medici, dicevano di essere orgogliosi della mia camminata incerta ma regolare, non ero nemmeno rimasta indietro con lo studio, nonostante l’incidente, e alla mia età avevo già vinto diverse medaglie alle gare di nuoto. Le avevo portate a Cortona e i cugini mi chiedevano spesso di mostrargliele, come cimeli d’eroe. Mi ero iscritta al Petrarca di Arezzo, uno storico liceo classico in cui tutto sommato mi trovavo bene, avendo frequentato il Manzoni di Lecco con insegnanti di gran lunga più severi. C’era comunque molto da studiare, ma non mi dispiaceva, era la scusa buona per isolarmi senza essere disturbata.

Con l’arrivo della primavera adoravo trascorrere i pomeriggi in cortile, le colline si erano tinte di verde prato, con ampie macchie di fiori gialli. Nel giardino rossi papaveri lievi avevano aperto le danze al vento fresco del nord, che mi portava i profumi delle erbe aromatiche dell’orto. Ero sempre in compagnia di Liana, la giovane cavalla bruna che non mi mollava mai, quasi volesse prendersi cura di me. Stavamo ore in silenzio, sentivo costantemente il suo sguardo amorevole e, sono sicura, lei sentiva il mio altrettanto affettuoso. Avevo la sensazione che anche a lei mancasse qualcuno, scoprii poi che l’anno precedente aveva perso il suo puledrino e la sera, prima del tramonto, nella vecchia stalla agitava il muso tra la paglia, gettandola qua e là, come se cercasse ancora qualche traccia del suo piccolino. Io l’aspettavo fuori e l’accarezzavo a lungo e lei si lasciava coccolare.

Cambiare vita non era stato troppo difficile, ma la voragine che si era aperta nell’asfalto quel gelido ventidue dicembre, quando un pirata della strada aveva centrato la nostra auto, mi aveva fatta sprofondare nelle viscere del mondo. Mi pareva di vivere due vite ormai, una apparente in superficie e una nascosta nelle oscure profondità della terra. “Ombre fumose cambiando forma si avvicinano curiose, quasi vogliano annusarmi, poi s’allontanano dissolvendosi inermi“. Custodivo i miei versi tra le pagine ingiallite di un vecchio vocabolario, sicura che avrei sempre trovato uno spazio vuoto in cui inserirli.

Appena potevo uscivo in giardino, raccoglievo i pensieri, lasciavo fluire le emozioni, respiravo l’odore acre e sincero della campagna e, in qualche recondito angolo di me riuscivo perfino a sentirmi bene. Era lo stesso per Liana, che lanciando un nitrito scuoteva la criniera al vento.

Volevo cavalcarla. Così un giorno chiesi ad Andrea di insegnarmi. Veniva al podere un paio di volte alla settimana e si occupava degli animali, lo zio diceva che li conosceva meglio di chiunque altro per gli studi di veterinaria, ma soprattutto per un istinto naturale e una lunga esperienza sviluppata nella fattoria di famiglia, che contava più di duecento capi di bestiame.

Era un ragazzo allegro, quando arrivava al podere con un cestino di uova fresche portava con sé un’incredibile serenità. Lo salutavo appena, temendo di rovinare quella particolare atmosfera con la mia tristezza. Quel pomeriggio, però, gli sparai la mia richiesta tutta d’un fiato e lui divertito accettò, promettendomi che nel giro di una settimana avrei imparato a cavalcare. Ci volle proprio una promessa di fronte alle mie titubanze e non me la fece mancare. Venne tutti i giorni quella settimana, ci teneva ad insegnarmi qualcosa e quando gli domandai cosa volesse in cambio, mi rispose schietto che avrebbe voluto una mia poesia.

Non era facile scrivere su commissione, ma mi lasciò tema libero e io scrissi, per la prima volta dopo tanto tempo, rime intrecciate di fili di luce e sprazzi d’azzurro. Pagai il mio debito consegnandogli un foglio arrotolato, legato con lo spago in cui avevo inserito un rametto di rosmarino, mentre ero in sella a Liana. Gli zii, visto il mio entusiasmo, avevano deciso di regalarmela per il mio diciottesimo compleanno. Fu il dono più bello che potessi ricevere.

Andrea veniva quasi tutti i giorni e un pomeriggio arrivò a cavallo. Non mi aveva detto che ne aveva uno, un bellissimo cavallo bianco, da principe. Con una buffa smorfia mi fece notare che non gliel’avevo mai chiesto. Cavalcammo lungo la strada sterrata verso le mura della città, ero così felice!

Anche Liana, nonostante l’afa, era contenta, la incoraggiavo accarezzandole la schiena e lei procedeva al trotto orgogliosa. Fu la prima di tante passeggiate nella campagna gialla di grano e girasoli. Andrea mi intratteneva raccontandomi storie medievali ambientate in quei luoghi e aneddoti sugli animali della fattoria. Io ricambiavo con racconti di mitologia greca e dei miei viaggi in Europa.

Rientravamo al tramonto col sole che ci bruciava la faccia prima di tuffarsi dietro le colline. In quelle sere d’estate ci sdraiavamo all’ombra del cipresso, soffiava sempre un venticello fresco che ci scompigliava i capelli e i pensieri. Inebriata di natura, tra leggerissime vibrazioni e profumo di terra e di biada, accolta dall’animo buono di un cavaliere gentile, aprivo il cuore alla mia nuova vita.

Confidenze