Anima

Cuore
Ascolta la storia

Riproponiamo online la storia più apprezzata del n. 46 di Confidenze. Continua a votare le tue storie preferite, sulla Pagina Facebook

 

Occhi neri grandi in un corpo minuscolo, Duša veniva dalla Bosnia in guerra, era stata accolta dai miei genitori, non sapeva se i suoi cari erano ancora vivi. È rimasta quattro anni, cambiando nel profondo i nostri cuori. Soprattutto il mio

STORIA VERA DI MASSIMO B. RACCOLTA DA TIZIANA PASETTI

 

I vigneti grondano oro, grappoli, chicchi d’uva. La mia estate è sempre finita così, in un tripudio di profumi e di allegria. Tutta la famiglia riunita nella tenuta dei nonni, eredità lontanissima, perduta in un tempo immemorabile. Tra le viti, chiazze di pergole e filari, ci ritrovavamo dopo le vacanze passate al mare e i racconti, le risate, i progetti si confondevano riempiendo di vita le colline a sud di Roma, quelle dove i senatori dell’Impero venivano a respirare aria salubre, a guardare dai belvedere naturali la distesa infinita della grande città. Avevo da poco compiuto 19 anni nell’estate del 1993. Avevo fatto gli esami di maturità e con i miei amici avevamo passato giorni bellissimi a gridare finalmente la nostra libertà. L’inizio dell’università ci sembrava ancora lontanissimo. Per la prima volta non ero stato insieme ai miei in Sardegna e la vendemmia era l’occasione per rivedere anche mia madre e mio padre, dopo una manciata di settimane che sembravano anni.

Arrivai in ritardo quella mattina, ma fu sufficiente un attimo per capire che era accaduto qualcosa. Le voci erano diverse, c’era meno movimento.

«Che succede qui?» domandai allegramente fermandomi dietro mia madre e passando velocemente lo sguardo su tutti i presenti. Non capivo il perché fossero tutti riuniti nella veranda della colazione, a quell’ora di solito si era in piena opera di raccolta. Mia madre mi afferrò le mani e mi attirò a sé per baciarmi. Poi si voltò di nuovo e io mi limitai a seguire la direzione del suo sguardo, dello sguardo di tutti. Un paio di occhi neri, grandissimi. Una cascata di capelli castani. Un corpo minuscolo, rannicchiato su una sedia di legno. «Massimo, lei è Duša». A parlare fu mio padre, che le stava seduto accanto e le teneva la mano. Intorno, decine di pacchi ancora incartati e infiocchetta ti. Duša non li guardava.

Non guardava nulla, in realtà.
Quando quella sera facemmo ritorno a casa, Duša si addormentò in macchina, anche se il tratto di strada era breve. «Che facciamo, la svegliamo?» chiese mia madre toccandole con delicatezza una spalla.

«No, aspetta». Mi avvicinai. «La prendo in braccio e la porto io». Il corpo non oppose resistenza. Non pesava nulla.

Ossa e pelle.

Mia madre e mio padre avevano risposto a un appello della Croce Rossa Internazionale e insieme a dei carissimi amici sardi si erano resi disponibili ad accogliere un bambino dalla Bosnia. La guerra stava devastando l’ormai ex Jugoslavia senza risparmiare nessuno e invece passava senza lasciare segni nei nostri giorni. Mentre io vivevo la mia estate gloriosa a pochi passi da quella terra, migliaia di persone avevano perso la vita o magari, e in fondo era anche peggio, gli affetti più cari.

Duša aveva 12 anni nell’estate del 1993. Viveva a Monstar, nella Bosnia del sud, ed era a pochi metri dal Ponte Vecchio quando, nel maggio dello stesso anno, i serbi lo avevano fatto saltare in aria. Una mattina di fine agosto un gruppo di volontari aveva ottenuto il permesso di portare fuori da quell’inferno due pullman con 90 bambini da salvare. Solo un’ora di tempo dal momento dell’arrivo dei volontari a quello della partenza. Un’ora per correre a chiamare i genitori, o chi per loro, un’ora per dire: «Decidete. In Italia ci saranno persone che si prenderanno cura dei vostri figli». Un’ora per mettere in una valigia tutta una vita. E poi correre tenendo stretta una manina ancora per pochi minuti ancora. E un bacio sulla fronte. «Dio ti benedica, ti voglio bene», «Allah veglierà su di te.Ti porterò nel cuore». La mamma di Duša cristiana, il papà musulmano. Un amore senza limiti di cielo.

Duša non parlava italiano. Passò le prime settimane a mordersi le mani e ad attendere l’arrivo di Brana, la mediatrice culturale che cercava di dare conforto a quei bambini che da un momento all’altro erano stati strappati, anche se per il loro bene, alle famiglie. Le comunicazioni con gli abitanti di Mostar erano praticamente impossibili, non potevamo soddisfare l’unica richiesta di Duša: «Voglio mamma, voglio papà». Conoscevo la generosità dei miei genitori, ma le attenzioni che dedicarono a quella bimba erano qualcosa che potevo definire solo amore: si prodigarono in ogni modo per farla integrare nella nostra comunità, le fecero cominciare la scuola, la iscrissero al gruppo di scout che faceva riferimento alla nostra parrocchia. Ogni giorno inventavano per lei un mondo buono, lontano dalle bombe, dall’odio e dagli orrori che aveva visto. Mi ero iscritto alla facoltà di Medicina in- tanto, ma la nuova vita, le lezioni, non impedirono a Duša di diventare il centro dei miei giorni. La tristezza aveva lasciato un po’ di spazio al più bel sorriso che io avessi mai visto, le ferite che i denti avevano provocato alle mani si erano rimarginate. Duša chiedeva sempre a Brana di cercare i suoi genitori, di far aver loro sue notizie, ma comunque dormiva di notte, aveva messo su peso e conosciuto delle amiche e un nuovo fratello, io.

È rimasta con noi quasi quattro anni. Quattro anni di coraggio: si è svegliata ogni giorno in un mondo che comunicava con Marte, ma non le permetteva di sapere se la mamma e il papà, la sorella maggiore e i suoi nonni erano ancora vivi. Non riuscimmo a impedirle di vedere le immagini tremende che i nostri telegiornali mandarono dopo l’eccidio di Srebrenica, nel luglio del 1995 e fu quella l’unica volta che la vedemmo cedere: cadde in ginocchio e le sfuggì un grido che non dimenticherò mai. Non era il grido di una ragazzina di 14 anni, ma il lamento disperato e deluso di un Cristo sulla croce.

Fu a Natale dello stesso anno che Brana arrivò di corsa, trafelata. «Duša» disse piano e le porse una lettera. La rivedo come fosse adesso, ormai più alta, con i lunghi capelli tagliati alla moda, i vestiti uguali a quelli delle sue amiche. Duša aprì piano quel foglio piegato in due: era ancora così giovane, era già così capace di controllare il terrore. Era già così in grado di scongelare un cuore e correre fra le braccia di mio padre e di mia madre e dire: «Mamma Anna, papà Pietro, la mia mamma e il mio papà e mia sorella sono vivi». Aspettammo giugno, la fine della scuola. Poi partimmo tutti e quattro. Duša poteva tornare a casa. Quando dopo una settimana rientrammo in Italia solo noi tre, non riuscimmo a dirci una parola. Il significato del nome Duša è anima. La nostra era rimasta con Duša, in quella terra ferita e bellissima.

Duša è tornata ogni estate, poi. Mamma Anna e mamma Kalina sono diventate sorelle e a settembre papà Jasen veniva ad aiutare papà Pietro per la vendemmia, anche loro erano diventati come fratelli. «Ti insegno come curare l’uva per fare la rakija, la nostra grappa».

Su insistenza dei miei genitori, e grazie all’altruismo e all’abnegazione di Kalina e Jasen, finito il liceo a Mostar, Duša venne a studiare in Italia e tornò a stare a casa con i miei genitori. Scelse Medicina. «Voglio diventare pediatra come Massimo». Avevo preso quella specializzazione perché le mani martoriate di Duša le portavo tatuate nel cuore.

I vigneti grondano oro, grappoli, chicchi d’uva. La mia estate è sempre finita così, in un tripudio di profumi e di allegria. Tutta la famiglia è riunita nella tenuta dei nonni, eredità lontanissima. «Papà!». La voce di Mira, mia figlia, mi riporta al presente. «Arrivo».

Mi affretto e raggiungo il grande gruppo, riunito sotto la veranda dove si fa colazione. La confusione di voci rende impossibile capire chi stia dicendo cosa. Cerco un paio di occhi. Neri. Li trovo. Mia moglie. La mia anima. Duša.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Confidenze