Anime gemelle

Cuore
Ascolta la storia

La storia preferita del n. 43 è un commovente racconto a tema adozioni. Ora lo puoi leggere qui

Io e mia sorella siamo nate in una favela di San Paolo e il nostro legame è sempre stato fortissimo, facevamo tutto insieme. Quando ci hanno separate per darci in adozione, una parte di me si è spenta per sempre. Ma non ho mai perso la speranza di ritrovarla

Storia vera di Greice Vitòria R. raccolta da Alessandra Mazzara

 

 

Ho letto da qualche parte che se una persona è destinata a te, dopo un lungo tempo di separazione la vita prima o poi farà in modo che questa torni.

Ammetto di aver trovato subito l’idea improponibile: tutto ciò vorrebbe dire essere inconsapevolmente guidati da un destino che, come pedine, ci muove e sposta a suo piacimento sul grande tabellone della nostra esistenza. Beh, inconcepibile. Perché, se questo fosse vero, dove inizierebbe, allora, la nostra libertà, che ne sarebbe del principio di autodeterminazione?

Questa storia non faceva proprio per me. Sapete, sono sempre stata una donna molto razionale, ferma nella certezza che solo in quello che vediamo e tocchiamo possiamo credere.

Però.

Però accade che un giorno, inaspettatamente, in una mattina d’estate il fato, gli dei, l’universo, qualcosa che sta al di sopra di ogni nostro umano controllo decise di posare il suo sguardo benevolo su di me.

Sì, il destino può scombinare i piani, la vita davvero può concederti l’occasione di rivivere qualcosa – qualcuno – riportandoti esattamente al punto in cui tutto era stato interrotto.

Dovetti ricredermi.

E solo allora la mia vita cambiò.

 

È il tre luglio del 1983 ed è appena sorto il sole quando vengo al mondo, in una baracca fatta di eternit e materiali di scarto, su un fetido letto nella favela di Vila Heliópolis in Rua Saõ Vinceinte de Paula a San Paolo, in Brasile. È mia nonna, Paula Cecilia, che mi tira fuori dal corpo di mia madre, la mia bisnonna, Lidia Greice, che taglia il mio cordone, la trisavola, Raissa Vitória, che mi lava e mi veste.

È inverno. Le case sono fatiscenti e il gelo penetra le ossa, fino a spezzarle. La trisavola mi copre per bene, anche se la coperta è uno straccio da buttare. Sono tutte donne nella stanza: la più vecchia non ha ancora compiuto cinquant’anni. Mia madre, la più giovane, ne ha appena diciotto e io sono la sua quarta figlia. Prima di me, tre maschi che adesso gironzolano per la favela, chissà con chi e a fare chissà cosa per le strade di questo posto dimenticato da Dio, dove le fogne sono a cielo aperto e tutto è precario, dagli allacciamenti elettrici alla disponibilità di acqua potabile. Perfino la vita, qui, è precaria. Per questo iniziamo a sfornare bambini così presto. Perché la morte è dietro ogni angolo: negli spigoli appuntiti dei cancelli arrugginiti, nell’igiene inesistente, nei vaccini che non ci somministrano, nelle malattie che non curiamo perché soldi per pagare i farmaci non ne abbiamo. Quindi la prendiamo a morsi, quella vita che ci resta. Tutta, fino all’ultimo pezzo.

“Maschio o femmina?”, chiede mia madre con un filo di voce. È semi seduta sul letto. Sudata, i lunghi capelli ricci e neri appiccicati sulla fronte, sembra ancora più piccola.

“Femmina!”, urla la nonna. Ha trentadue anni, un coloratissimo turbante le raccoglie i capelli ravvivandole il viso bellissimo, color caffellatte. Ai polsi tiene un centinaio di bracciali che tintinnano ad ogni movimento delle braccia.

Mamma sta quasi per allargare le braccia per accogliermi quando una contrazione le mozza il fiato e in un attimo un’altra creatura esce fuori dal suo corpo.

Un’altra femmina.

Siamo uguali, due perfette gemelle omozigote. Occhi verdi, pelle color cioccolata, capelli neri, crespi e ricci.

“Raissa Vitória”, dice nonna rivolgendosi alla sua, di nonna. Si chiamano per nome, da sempre. “Tocca a voi decidere come chiamarle. Siete la più anziana”

La trisavola allora si alza e si avvicina a noi, trascinandosi dietro una scia di tabacco e incenso. Ci indica col dito indice pieno di anelli da quattro soldi, scandendo bene i nomi. Due per ciascuna, come si usa qui. “Greice Vitória e Cecilia Raissa”

La trisavola ha mischiato i nomi di tutte loro, creando due coppie nuove di donne che portano dentro di sé il ricordo di un legame di sangue che durerà per sempre.

Io sono Greice Vitória.

E questa è la mia storia.

Non passa molto tempo prima che io capisca che quella in cui sono capitata è una famiglia disfunzionale. Che quelli che entrano ed escono dalla baracca non sono “amici della mamma”. Che il lavoro di papà è poco raccomandato e che si porta dietro i tre figli maggiori per tramandarglielo. Non credo ad una sola parola di quello che mi dicono. È per questo che ho deciso di andare di nascosto dalla Senhora Taissa Tuane, a sei baracche da casa. Lei sa tutto di tutti e ha un potere di controllo sulle baracche limitrofe indiscusso.

Mia sorella mi stringe la manina e mi cammina accanto, tirando di tanto in tanto calci a dei sassolini. Abbiamo sette anni e non c’è cosa che io faccia senza di lei o libertà che lei si prenda senza di me. Il nostro legame è così forte da sentire l’una il dolore dell’altra prima ancora che la malattia si presenti. Se sta male lei, sto male io. Se sto male io, sta male lei. Gemelle non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Dopo di noi sono arrivati altri due fratellini a distanza di due anni ciascuno, David Duilio e Gustavo Henrique. Mamma si occupa davvero poco di tutti noi figli. Spesso dimentica di accompagnarci a scuola, di cucinare, e noi restiamo con le pance che borbottano e tante domande che frullano nella testa, con lei se sdraiata sul divano a fumare sigarette una dopo l’altra. Quindi, sono io che mi occupo di mia sorella e dei due più piccoli, io che preparo il pranzo con quel poco che trovo in dispensa, io che cambio i panni sporchi, io che metto le pezze fredde sulle loro fronti quando scottano, mentre mamma e le nonne fumano, o bevono, o perdono il tempo in stupide chiacchiere, o intrattengono quelli là, “gli amici”.

“Voglio sapere cosa fanno mamma e le nonne con quegli uomini che, a tutte le ore, entrano senza permesso nella nostra baracca”

Taissa Tuane, enorme sulla sua sedia sgangherata, la faccia piena di peli e gli abiti succinti, con gli occhi segnati da uno spesso strato di matita nera e le labbra carnose e rosse, sembra uno di quegli esseri spaventosi che abitano gli incubi. Raissa Vitória ha paura e si nasconde dietro di me. Non ho ancora finito di parlare che la Senhora scoppia a ridere, mostrando le gengive prive di denti e facendo traballare quel suo enorme seno stretto dall’abito succinto.

“Quello che fanno tutti, pequenhita!”

Ride, ride fortissimo, ride così tanto da stordirci. Spaventate da quella ilarità spropositata e fuori luogo scappiamo via e corriamo verso casa, senza risposte.

Senza verità.

Passano i mesi. Le stagioni. Dentro la nostra baracca tutto resta uguale a sempre. Fino a quel pomeriggio di settembre, quando bussano alla porta tre signori bianchi. Sono così puliti, i loro abiti così nuovi e inamidati da sembrare finti. Parlano con la mamma, poi con le nonne. Chiedono di papà. Entrano dentro, anche se nessuno ha detto loro di accomodarsi. Si guardano intorno e nel frattempo scrivono su dei fogli. Poi si accorgono di noi. Uno di loro ci sorride e ci offre due caramelle. Non ringraziamo, perché nessuno ci ha mai insegnato le buone maniere. Le mettiamo in bocca e le lasciamo sciogliere lentamente. Sanno di lampone.

“Quanti altri bambini vivono in questa casa?”

“Ho sette figli in tutto. I più grandi non sono in casa”, risponde prontamente mia madre, la faccia del bambino scaltro che sa di essere stato scoperto ma che continua a fingere innocenza.

“E vanno a scuola, questi bambini?”

Mamma fa spallucce. “Certo. Ogni santissimo giorno”

Che bugiarda! Chi l’ha vista mai, una scuola?

Se ne vanno via. Torneranno una settimana dopo con altre due donne, bianche e perfette anche quelle, prendono me, mia sorella e i due piccoli e ci caricano su una macchina, mentre mia madre urla, bestemmia, sputa, minaccia, aiutata dalle nonne che rincarano la dose tirando pietre contro la nostra auto.

“Dove ci portano?”, mi chiede Cecilia Raissa.

Una delle donne mi precede. Profuma di pulito. Di vaniglia. Noi, invece, puzziamo di fumo, sporco, piscio e sudore.

“Andrete a vivere in una casa più grande, più bella”

“E i nostri fratelli più grandi, avete preso anche loro?”

“Rafael, Cristováo e Luan sono già stati sistemati in un’altra casa, non molto lontano da quella in cui andrete voi”

Nessuna parola su mamma, papà, le nonne. Nessuna spiegazione che chiarisca il perché di quell’allontanamento improvviso. L’automobile impiega più di due ore prima di arrivare. Dal finestrino noto quanto ci siamo allontanati dalla favela. La casa in cui ci sistemano è davvero bella. Ha le pareti dipinte, un pavimento lindo, enormi stanze luminose. L’aria non sa di fogna, ma di sapone. David Duilio e Gustavo Henrique vengono portati subito da un’altra parte. Nel vedersi separare da noi si dimenano, vogliono stare con me e con Cecilia Raissa, ma nessuno li accontenta. Spariscono dietro un corridoio lunghissimo, stretti tra le braccia di due suore dalla pelle nerissima.

“Quando rivedremo i nostri fratellini?”, chiede Cecilia Raissa.

“Presto”, risponde una delle donne che ci ha accompagnate.

Non sappiamo, ancora, che non li rivedremo mai più.

 

La vita nella casa famiglia è monotona. Dormo con mia sorella appiccicata a me in un unico letto, sebbene ciascuna abbia il suo: la paura che ci separino è così forte da pensare che, se stiamo letteralmente attaccate, nessuno oserà farlo. La notte Cecilia Raissa bagna le lenzuola e al mattino sono per lei rimproveri e umiliazioni. Io per farle passare la paura le racconto di quando andremo via da qui, insieme, in una casa tutta nostra. E così ci addormentiamo ogni sera, cullate dal sogno di una vita migliore.

Due anni dopo, un pomeriggio d’autunno non trovo mia sorella nella stanza, dove l’avevo lasciata al mattino.

“Dov’è mia Cecilia Raissa?”, chiedo ad una delle educatrici.

“Tua sorella ha trovato una nuova mamma e un nuovo papà”, risponde quella con un sorriso stampato in faccia che stride con le parole appena pronunciate.

La mia disperazione, il mio lamento, non li ascolta nessuno. Smetto di mangiare. Sono in ospedale con una flebo attaccata al braccino scheletrico e gli occhi ancora pieni dell’immagine di mia sorella, quando mi dicono che anche per me sono arrivati una nuova mamma e un nuovo papà. Li incontro in istituto, una volta rimessa in salute.

“Ciao piccola”, mi dice una donna con un accento così strano da far fatica a capire bene quel che dice. “Io sono Donatella e lui è Maurizio. Siamo i tuoi nuovi genitori”

“Ci sarà anche Cecilia Raissa nella loro casa?”, chiedo guardinga all’assistente sociale che mi sta accanto.

“No. Ma prometto che sarai lo stesso molto felice con loro”

Non chiedo più nulla. Non apro più bocca. Le ore d’aereo con quei due estranei accanto sono infinite. Mi allontano dalla mia terra, dall’unico modo di vivere conosciuto, dal mio stesso sangue per andare non so dove. Senza ancora un vero perché. Quando arriviamo a Ferrara, la villetta perfetta con il giardino e la piscina mi è indifferente. Un grande pastore tedesco mi vede arrivare e mi accoglie leccandomi il volto.

“Lui si chiama Oreo”, dice Donatella in quella lingua simile alla mia per suoni e melodie, ma che ancora non capisco.

Mi mostrano quella che è la mia stanza. Chi le ha mai viste tutte queste cose bellissime che contiene? È tutto mio. Ma a me non importa. Mi butto sul letto. Donatella e Maurizio pensano che io sia stanca. Non sanno che, in realtà, vorrei urlare il nome di mia sorella così forte da farmi da lei sentire, raggiungerla, abbracciarla, per non lasciarla andare mai più.

Ovunque sarà, sono certa che Cecilia Raissa senta il mio dolore. È questa l’unica cosa che mi conforta.

Gli anni volano.

Vado a scuola.

Imparo piano piano l’italiano.

E, ancora piano piano, imparo anche a fidarmi di Donatella e Maurizio. E di Oreo. E di tutto quello che mi danno e che non ho mai avuto.

I miei nuovi amici, i compagni di scuola, sanno che non devono chiedermi nulla del mio passato. Hanno provato a farlo e li ho zittiti subito. Adesso mi chiamo Vittoria.  Sui documenti sono sempre Greice Vitória, ma non è così che voglio che mi chiamino qui. Altri mi hanno imposto una nuova vita, io impongo loro una nuova versione di me. Vittoria.

Il ricordo di mia sorella attraversa il tempo e mi accompagna nei mesi e negli anni che passano, facendosi via via sempre più sfuocato, lontano, silenzioso, rassegnato. Divento una donna cinica, seria, che ha paura di amare. Quello che mi hanno tolto – la possibilità di continuare ad amare mia sorella – si trasforma in un muro che alzo contro tutti. Sfogo il mio dolore controllando il cibo. Mangio come un uccellino: solo così riesco a tenere a bada il dolore. Nel frattempo, studio, studio tantissimo per riempire la testa di nozioni e togliere spazio al ricordo. La laurea in medicina e la specializzazione in pediatria sono motivo di grande orgoglio per mamma Donatella e papà Maurizio. A loro devo tutto, anche questo traguardo. Ma non è a loro che penso, né ai loro sacrifici, quando firmo il mio primo contratto di lavoro in ospedale. È verso il ricordo di mia sorella, la mia gemella, che vola dritto il mio pensiero.

Che ne è stato di lei?  mi chiedo sempre.

Mi sento un’impostora: ho tutto, soldi, affetto, una carriera agli inizi.

E lei?

Cos’ha ricevuto dalla nuova vita?

Questo pensiero non mi dà tregua. Poi, conosco Liam, un collega. Ci sposiamo. E ci separiamo, dopo neanche due anni di matrimonio infelice. Non riesco ad amare.

“Se resti ancora attaccata ai ricordi di quella favela, non riuscirai mai a vivere la tua vita. Sarai eternamente infelice, Vittoria” mi dice prima di sparire dal mio presente.

Lo lascio andare in silenzio e con un sospiro. Cecilia Raissa è la mia ossessione. Desidero ritrovarla. Cerco sui social, sui siti di adozioni, ma niente. E, per punirmi, mangio sempre meno.

Le mie giornate trascorrono lente. Il mio corpo è in corsia, la mia anima alla disperata ricerca di mia sorella.

E poi…

E poi, il destino ha deciso di sorridermi. Ho compiuto quarant’anni da una settimana quando Laura, una collega di reparto, mi propone di unirmi a lei per le ferie in un villaggio turistico a Santorini. Non ci penso su due volte.

L’anoressia mi sta annientando. Sono depressa. Soffro di insonnia. Di attacchi di panico. Ho davvero bisogno di divertirmi. Nella valigia, quindi, metto solo la voglia di stare bene e nient’altro.

Santorini è splendida. Il cielo e il mare hanno lo stesso colore, la stessa nitidezza, tanto da non capire dove inizi l’uno e finisca l’altro. Il villaggio turistico è sul mare, le stanze dell’albergo riprendono nello stile e nei colori l’architettura di tutta l’isola, con quel blu intenso in perfetta armonia con la luminosità del bianco. Con Laura trascorro le mattine in spiaggia, i pomeriggi alla scoperta dell’isola, le sere a godere degli stimoli che il villaggio propone.

Tutto va a gonfie vele fino al quarto giorno, quando vengo svegliata dalla mia amica tormentata dai dolori al ventre. Soffre di endometriosi, le serve qualcosa che possa lenire il dolore.

“Avremmo dovuto portare con noi dei farmaci. Siamo medici, dannazione!”, impreco nel vederla torcersi sul letto.

“Non rompere, Vitto, e corri giù alla reception. C’è una piccola farmacia, sapranno consigliarti qualcosa”

“Sì, ma prima dovrei fare almeno una doccia, mi sono appena svegliata, non posso andare con questa faccia”

“Vitto, piantala, metti gli occhiali da sole e smuoviti”

Quella mattina il caldo è proprio insopportabile, sento i sudori colare lungo la schiena. Sono struccata, in pigiama, e i miei capelli, quella massa disordinata e scura di ricci indomabili, di certo non mi aiutano. Prendo uno dei due turbanti di cotone che ho portato da casa e li avvolgo, almeno così li terrò a bada. Indosso gli occhiali scuri da sole per evitare che si notino troppo le conseguenze della mia insonnia cronica e conciata così vado al bancone della farmacia del villaggio turistico. Una ragazza mi chiede subito di cosa ho bisogno in un inglese perfetto. Spiego velocemente la situazione, quella dà un’occhiata al pc, poi si volta verso il retrobottega.

“Anastasia!”. È la sola cosa che capisco, visto che poi continua a parlare in greco. “La mia collega sarà subito da lei”, mi dice tornando all’inglese e lasciando il bancone.

Quando quella che presumo essere Anastasia compare dal retrobottega con in mano una confezione di pastiglie mi si mozza il fiato. Tutto intorno a me smette di esistere. È scomparsa l’isola con le sue case, i suoi colori, le sue stradine strette, il suo cielo stupendo, il suo mare cristallino. Non esiste più neanche il villaggio turistico, con i suoi rumori, le luci.

Solo io esisto e, con me, il mio riflesso dietro un bancone con addosso un camice bianco. Ci guardiamo. Tolgo gli occhiali da sole e sciolgo il turbante. In un secondo i miei ricci neri cadono sulle mie spalle, spinti dalla gravità.

“Non ci posso credere”

Lo dico in italiano. È la mia lingua, ormai. L’unica che conosco e che capisco, oltre all’inglese. Del portoghese, la lingua che mi ha allattata, ho volutamente rimosso tutto.

Anastasia non parla. I suoi occhi mi riconoscono subito. Dopo più di trent’anni.

“Greice Vitória” dice, con il marcato accento greco del posto. Pronuncia ad alta voce il mio nome, il mio vero nome, e solo in quell’attimo io ritorno a sentirmi nuovamente, pienamente me stessa. Supera il bancone e si lancia tra le mie braccia, lo scatolo delle pillole cade per terra. Ridiamo e piangiamo, strette in un abbraccio che sembra non bastare mai, in un tempo che torna indietro, poi va avanti, poi si dilata, poi si ferma…

Le nostre anime gemelle si sono cercate.

E ora, finalmente, ritrovate.

 

Non ci siamo più lasciate.

Ci sentiamo ogni giorno, al telefono.

In inglese, l’unica lingua che adesso ci accomuna.

Io medico a Ferrara, lei farmacista a Santorini nella farmacia di famiglia, quella famiglia che l’ha accolta, che le ha cambiato nome, che le ha dato la possibilità di studiare e di diventare quello che lei voleva essere. Sapere che neanche lei aveva smesso di pensarmi mi ha aiutato a ritrovare quella stima, quella fiducia in me stessa che avevo perso, separandomi da Cecilia Raissa. Da Anastasia. Da mia sorella.

Adesso alla vita non chiedo più nulla. Ho una casa tutta mia. Un lavoro che adoro. Due genitori anziani che curo con tutto l’affetto che posso. Tre gatti e due cani che riempiono di peli e gioia la mia casa.  Un nuovo amore. Un rapporto sano ed equilibrato con il cibo.

E mia sorella, la mia anima gemella. A ricordarmi che la vita può ferire, fare male e allontanare. Ma l’amore, quello, prima o poi ti viene a trovare. Per non lasciarti più.

 

 

 

 

 

Confidenze