“Anna aveva le trecce” di Simona Busto, pubblicata sul n. 12 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Eugenia T. raccolta da Simona Busto
Era mia cugina, ma sembravamo venire da due mondi diversi. Lei era alta e snella tanto quanto io ero piccola e tonda. I suoi occhi avevano il colore del cielo, così come i miei erano di un verde cupo, simili a fondi di bottiglia. Non invidiavo nulla ad Anna, tranne, a volte, le sue lunghe trecce bionde, così lucenti e lisce sotto il sole estivo da sembrare della stessa sostanza dell’oro puro. Quando la guardavo con espressione accigliata lei mi si avvicinava sfoggiando un sorriso furbo, poi mi posava la mano sul capo e si abbassava a toccarmi la fronte con la sua.
«Che succede adesso alla mia Giugi?». Io sbuffavo, e soffiavo via la frangia che mi aveva immancabilmente spinto negli occhi. Poi con aria tetra la osservavo ridere. Fingevo: ero del tutto incapace di arrabbiarmi davvero con lei, persino per quell’assurdo nomignolo che mi aveva affibbiato sin da neonata. Se chiunque altro mi avesse chiamata a quel modo l’avrei senza dubbio ucciso, ma se veniva dalle sue labbra, allora il soprannome era grazioso e tenero, come tutto quello che la riguardava. Perché Anna era un temperamento di fuoco mitigato dalla dolcezza più pura. E io semplicemente l’adoravo.
Mia cugina era l’unica ad aver ereditato i capelli della nonna, così lisci e dorati. A volte sua madre scrollava le spalle nell’osservarla, e sussurrava in dialetto: «Non sembra neanche figlia mia».
Davvero lei ci somigliava poco, così bionda e dalla pelle quasi diafana, ma il naso dritto e la fronte alta portavano indubbiamente il marchio della nostra famiglia.
Ricordo ancora quando quella spiga mi s’infilò tra i capelli. Potevo avere cinque anni, lei dodici, ma la scena è impressa nella mia mente come fosse ieri. Piangevo e mi torcevo le mani, perché più cercavo di estrarlo più il malefico oggetto si avvinghiava ai miei riccioli scuri. Alla fine mi lasciai andare sul vialetto, la testa reclinata sulle ginocchia e i singhiozzi che mi scuotevano incessanti.
La mano di Anna sulla mia spalla mi scosse senza delicatezza. Alzai il capo di scatto, e mi trovai davanti i suoi occhi spalancati per lo spavento. Aveva il fiatone e il viso paonazzo. Doveva aver corso come una pazza quando aveva udito il mio pianto disperato, certa che mi fosse capitato qualcosa di terribile.
Io cercai di frenare le lacrime senza successo. Non riuscivo a parlare. Infine presi la ciocca di capelli avvolta intorno alla spiga e gliela mostrai con un mugolio devastato. Anna inspirò a fondo, chiuse gli occhi, e si lasciò cadere accanto a me, coprendosi il volto con le mani.
Vederla così mi fece tanta paura che smisi persino di piangere. Le toccai le ginocchia, nel tentativo di scuoterla da quel torpore che sembrava eterno. Lei tolse di scatto i palmi dal viso, e mi guardò negli occhi con le sopracciglia corrugate che quasi si toccavano.
«Mi hai fatta morire di paura!» esclamò, ma senza traccia di rimprovero nella voce. Anzi potevo avvertirvi addirittura una nota allegra. Mi si avvicinò e infilò la mano tra i riccioli. «Vediamo cos’ha combinato questa sciocchina di Giugi» sussurrò dolcemente al mio orecchio.
Non portava alcun profumo oltre al bagnoschiuma, che pure su di lei assumeva una fragranza delicata capace di consolarmi. Lasciai che frugasse tra i riccioli, tentando inutilmente di liberare la spiga. Infine sospirò, arrendendosi. Poi si alzò in piedi e mi porse la mano. «Dài, andiamo a prendere le forbici».
«No!» gridai con quanto fiato avevo in gola. Detestavo l’idea che mi tagliassero i capelli.
Lei si chinò di nuovo su di me. «Preferisci aspettare che torni la tua mamma? Lo sai che è uscita insieme alla mia».
Lo sapevo. Così come sapevo che gli uomini erano tutti nei campi a quell’ora. Restavano a casa solo la vecchia nonna e mio cugino Leonardo, il fratello di Anna. Senz’altro entrambi con le forbici mi avrebbero tagliato anche un orecchio, una perché le tremavano le mani, l’altro per puro divertimento.
Guardai Anna con occhi disperati: «E se poi mi entra nella testa e s’infila nel cervello?». Nonna ci aveva sempre detto cose terribili di quelle spighe capaci di camminare sui vestiti e tra i capelli.
Mia cugina rise forte, le mani posate sui fianchi: «Con la testa dura che hai?». Poi chinò il capo di lato, nel vedermi così infelice: «Allora andiamo a tagliarla via. Non ti farò male». Docile, la seguii dal cortile fin dentro alla casa. Poi mi sedetti sullo sgabello del bagno, agitando i piedini per la tensione. Anna mi schioccò un bacio gentile sulla guancia, poi si mise all’opera, la forbice stretta tra le dita. Ogni familiare scricchiolio di quell’arnese mi dava i brividi. Serrai gli occhi e non li riaprii finché sentii che le mani di mia cugina si erano staccate dalla mia testa.
Lei però non parlava. Si stringeva qualcosa al petto e rimaneva immobile, rigida.
La voce di mia madre ci fece sobbalzare entrambe. «Cosa state facendo qui, voi due? E perché ci sono le forbici sulla vasca da bagno? Anna? Eugenia?».
Invece di rispondere guardai mia cugina. Lei scostò un po’ le braccia e rivelò quello che teneva stretto tra le dita: una lunghissima e larghissima ciocca di capelli neri sul cui fondo spiccava verde la spiga. Sbattei le palpebre, senza capire. Solo allora notai che Anna aveva il volto rigato di lacrime.
«I tuoi bellissimi riccioli… Oddio, non sai quanto mi dispiace. Mi dispiace tanto». Un singhiozzo le sfuggì dal petto nel pronunciare quelle parole. Ci lasciò tutte senza fiato. Lei amava davvero i miei capelli, almeno quanto io adoravo le sue lunghe ciocche splendenti.
A volte eludeva la sorveglianza di entrambe le nostre famiglie e attraversava tutte le porte della nostra lunga cascina, infilandosi poi nel mio letto. La sentivo arrivare e sorridevo nel buio, mentre le sue dita s’intrecciavano strette ai miei riccioli.
«Ti piacciono davvero così tanto?» chiesi una volta, ironica e un po’ indispettita, mentre le facevo spazio sul materasso. «Sono splendidi!». «Allora è per quello che hai cercato di rubarmeli quella volta della spiga».
Lei ridacchiò. «Sono passati tanti anni. Quanto mi sono sentita male! Sai che ho ancora la ciocca? L’ho nascosta in una scatola di legno, così resterà con me per sempre».
«Sei una matta. Magari ci hai lasciato anche la spiga».
«Sì, certo, se provo a toglierla i capelli si rovinano».
Ridemmo insieme, strette e vicine, come sorelle e più amiche di chiunque altro avrebbe mai potuto esserlo.
«Io comunque le trecce non me le posso fare, sembrerei un cespuglio con tutta questa lana arruffata in testa» sospirai scivolando nel sonno. Le sue labbra mi sfiorarono la guancia un istante prima che mi addormentassi.
Anna mi restò sempre vicina, a lenire le mie ferite ed esaltare i miei successi. Tutto per lei sembrava ruotare intorno a me, alla mia esistenza e al mio personaggio un po’ goffo che le trotterellava accanto come un cagnolino fedele. Questo finché non s’innamorò.
Conobbe Giorgio in un giorno di primavera, quando lui era appena arrivato in paese. Sapevamo che il bar di fronte alla chiesa era stato venduto a qualcuno che veniva da fuori, ma di certo non ci aspettavamo che fosse così giovane e, soprattutto, così bello.
Giorgio all’epoca aveva ventidue anni, e sembrava uscito da un film. Seppi che qualcosa era cambiato appena mettemmo piede nel locale quel sabato pomeriggio.
Lui ci dava le spalle, ma si volse subito quando sentì il tintinnio del campanello. I suoi occhi chiari si agganciarono a quelli di mia cugina in un istante. E io ebbi la sgradevole sensazione di essere diventata inconsistente.
All’inizio lo odiai, devo ammetterlo.
Era così difficile scoprire che Anna, la mia splendida Anna che era sempre stata lì per me, ora rivolgeva i propri pensieri più intensi a qualcun altro.
Li osservavo in silenzio, mentre si parlavano a bassa voce, interrotti solo dall’arrivo di qualche nuovo cliente, e mi sentivo ignorata per ore intere.
Un giorno mi alzai, e senza dire una parola, uscii a girovagare per il paese. Avevo tredici anni, e la sensazione che il mio mondo fosse irrimediabilmente andato in pezzi.
Arrivai fino alla strada che lasciava il paese, e mi fermai a fissarla, incerta se continuare a percorrerla da sola.
Un urlo strozzato mi raggiunse alle spalle, inchiodandomi dov’ero. Volsi piano il capo, e vidi Anna correre nella mia direzione, i capelli scarmigliati e il vestito che le aderiva al corpo sudato. Mi afferrò per le spalle, poi mi scosse con forza. Continuò a fissarmi a lungo, gli occhi spalancati, poi fece scivolare fuori le parole in un sussurro: «Non farlo mai più! Mai più! Mi hai fatta morire di paura».
Lasciai che mi stringesse nel suo solito abbraccio pieno di calore, e per un attimo m’illusi che tutto sarebbe tornato com’era prima. La consapevolezza che nulla sarebbe stato uguale però riprese presto il sopravvento.
Avrei voluto dirle la verità: che ero gelosa di Giorgio, gelosa di quell’amore da cui ero esclusa e che io forse non avrei mai conosciuto nella vita. Non ne ebbi il coraggio. Anna per me era uno splendido fiore da proteggere, e non potevo rischiare di ferirla.
Ricambiai la stretta, sentendo sorgere improvvisa la consapevolezza della mia enorme paura. Nemmeno io avrei saputo dire cosa fosse a spaventarmi così tanto, ma sapevo che da tutto quello che stava accadendo sarebbe derivato un grande dolore.
La lasciai andare. Impiegai un po’ a riuscirci, e la difficile fase dell’adolescenza non mi fu d’aiuto in questo. C’erano momenti in cui avrei voluto uccidere Giorgio, altri in cui avrei dato qualsiasi cosa per essere al posto di Anna. Ero disperatamente gelosa di entrambi.
Lei continuava a sgattaiolare nel mio letto, a confidarmi le sue emozioni e i momenti intimi che viveva con lui. Non aveva la minima idea di quanto le sue parole mi uccidessero l’anima. L’ascoltavo in silenzio, senza risponderle nulla. Possibile che non se ne accorgesse? Ma Anna era troppo presa dai propri sentimenti, da quella forza emotiva nuova e inattesa, per notare qualcosa che non la toccasse in maniera diretta.
Io soffrivo e tacevo, cercando di pensare a come ritagliarmi un piccolo posto nel mondo, lontana dal paese e da quell’amore così grande che riusciva solo a farmi soffrire.
Tre anni dopo l’arrivo di Giorgio accadde quello che nessuno si aspettava. Ci colpì come una tempesta improvvisa, capace di devastare ogni cosa sul suo cammino.
Come sempre mia cugina si confidò prima con me, inchiodandomi in un angolo nascosto della nostra cascina. «Sono incinta» confessò a bruciapelo, mentre un sorriso tirato le congelava i tratti delicati.
Risucchiai l’aria e la buttai fuori, senza riuscire a far uscire la voce. Solo al quarto tentativo un suono secco e spezzato mi scaturì dalle labbra: «Sei pazza? E ora come farai?».
La luce gioiosa nei suoi occhi si spense, lasciandovi solo lo sgomento. «Speravo che almeno tu avresti capito».
Scossi il capo. «Capire cosa? Non c’è niente da capire».
«Sì, invece!». Si toccò il ventre. «Qui dentro crescerà un bambino, e questa è una cosa meravigliosa. Ecco ciò che non capite».
Sbattei le palpebre, mentre la consapevolezza mi crollava addosso: «Giorgio non lo vuole?». Mia cugina chinò il capo. Lacrime silenziose le rigarono le guance: «No, non lo vuole. Dice che i bambini dovranno venire un domani, quando il bar andrà bene e potremo sposarci». Le afferrai le mani. «Cosa vuoi fare?». Alzò il mento, risoluta. «Non farò niente. Il mio bambino non si tocca».
Ho ancora nelle orecchie le urla di sua madre quando entrammo a dirglielo, insieme, le mani saldamente intrecciate ad affrontare quella sentenza furiosa.
Anna non mollò mai. Non crollò di fronte alla madre né di fronte al padre. Mai cedette alle insistenze di Giorgio. Nulla poté impedirle di portare avanti la sua gravidanza, e di dare alla luce il bambino.
La vedevo torcersi le mani sul ventre che diventava sempre più grande. A volte mi sembrava che potesse contenere il mondo intero.
Poi un giorno una luce nuova le apparve negli occhi. Aveva smesso di tormentarsi, e una serenità improvvisa aveva preso il posto dell’ansia. «Sarà bellissimo» mi disse allora. «Lo porteremo al cinema e a vedere i papaveri intorno ai campi. Sarà un bambino meraviglioso».
Il suo sorriso era così radioso e sicuro che anch’io mi convincevo della verità racchiusa in quelle parole.
Federico nacque a metà marzo.
Anna morì tre giorni dopo.
Aveva appena fatto in tempo a stringerselo al petto. Complicazioni dovute al parto: di questo parlarono i medici nel loro linguaggio oscuro. Io comprendevo solo il dolore, il mio e di tutti quelli che mi stavano intorno. Perché la perdita di Anna gettò la nostra famiglia nella disperazione più assoluta.
Ricordo che mentre tutti si agitavano e piangevano intorno al suo corpo immobile, io restavo in disparte, gli occhi sbarrati a rifiutare l’evidenza.
Qualcuno mi mise il bambino in braccio, intimandomi di portarlo via. Non capii subito quello che mi avevano chiesto. Fu solo il pianto improvviso e disperato di Federico a riportarmi alla realtà.
Uscii nel corridoio dell’ospedale. Un’infermiera corse a portarmi un biberon, poi scappò via.
Mentre tentavo di fargli succhiare il latte, un uomo mi passò accanto, entrò nella stanza e subito la lasciò. Si fermò davanti a me. Giorgio si volse, e allungò una mano a sfiorare la guancia del bambino.
Con rabbia incontenibile lo spinsi via.
E in quel momento capii qual era la sola via d’uscita. Anna se n’era andata, ma mi aveva lasciato Federico.
E per quel bambino che era parte di lei io sarei stata una buona madre, anche se non avevo ancora diciassette anni.
Ora che di anni ne ho cinquantasei e che la figlia di Federico mi chiama nonna posso dire di esserci riuscita.
Carlotta ha capelli biondi e lisci. Mi piace tanto acconciarli in lunghe trecce.
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