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Solo con Rosario avevo provato quella profondità di sentimenti che unisce corpo e anima. Era un legame forte il nostro, che andava oltre noi due, era il richiamo della mia terra dimenticata e rinnegata, la Calabria. Lo avrei capito solo anni più tardi
STORIA VERA DI FABIOLA D. RACCOLTA DA ANNA BALTIA DELFINI
A 25 anni avevo fatto una vacanza favolosa in Calabria con alcune amiche. avevamo affittato un delizioso appartamentino sul mare a Tropea e ci eravamo divertite come delle pazze. Ci aveva affittato la sua “Casa Rosa” un certo Marco, un tipo sulla cinquantina un po’ sopra le righe che però ci aveva coccolate con mille attenzioni, consigliandoci ristoranti e spiagge imperdibili, ma soprattutto ci aveva permesso di affittare a un prezzo davvero ridicolo la sua macchina scassata bianca che da subito avevamo ribattezzato ”Blanche”, una di noi. In sella alla nostra Blanche sfrecciavamo divertite nella canicola calabra lungo stradine impervie, costeggiate sempre da una vegetazione a dir poco selvaggia, ma con dei panorami mozzafiato. Ero mezza calabrese anch’io, mio padre era di un piccolo paesino della provincia di Catanzaro, ma fin dall’adolescenza avevo sempre guardato con distacco e forse pure un po’ di disprezzo quel suo paesino di donne velate e sguardi serrati. Avevo odiato per un certo tempo l’essere calabrese, il fatto che tutti mi contestassero quel lato del carattere schivo e testardo, quella voglia ostinata di farcela da sola, di non ascoltare mai nessuno. Mia mamma me lo ripeteva, lei che invece era campana e aveva incontrato mio padre
a Roma dove si erano sposati e costruito la loro vita: «Sei dura come i muli calabresi» mi gridava contro quando proprio non volevo starla a sentire, perché sì, sono una che non sta mai a seguirli i consigli, buoni o cattivi che siano. Quella vacanza mi aveva improvvisamente aperto l’anima, era come se scoprendo piano quella terra a cui mi ero rifiutata di appartenere, scoprissi anche qualcosa di me, qualcosa in cui mi riconoscevo. Era strano. Ma per tutto il tempo di quella vacanza avevo sentito riallacciarsi
silenziose radici, le stesse che s’erano allungate e attorcigliate per chilometri e chilometri in altre città, altre vite, ma che in fondo erano rimaste sempre lì e adesso mi stavano tirando indietro, spinta da quel poderoso vento di Calabria, per ricordarmi chi ero, da dove venivo. Le sentivo dentro i capelli, a volte come una carezza, a volte come una strattonata, proprio come quelle di mia madre che di fronte a certi capricci indomabili mi tirava i ricci, per darmi almeno un motivo serio per piangere. Era mia quella terra, la mia Calabria, ostile e “dura” come il mio cuore, ma forse proprio per questo bellissima. Una sera di quella bella vacanza però, era arrivato puntuale il mio caratteraccio a rovinare tutto. Una banale discussione, una litigata con un’amica del gruppo ed ero saltata come una molla, mi ero ficcata come una saetta a bordo di Blanche e avevo iniziato a guidare senza meta in attesa che mi sbollisse la rabbia, lasciando impietrite e spaventate tutte le ragazze. Era il mio lato più indomito che ogni tanto esplodeva e non c’era niente e nessuno che potesse contenerlo. Dopo aver guidato in salita fra boschi pieni di nottole e perfino qualche cinghialetto, per un tempo che non riuscivo più nemmeno a calcolare, ero finita nei pressi di un paesino, una specie di piccolo castello illuminato vi troneggiava proprio al centro di quella che indovinai presto essere la piazza principale. Un gruppetto di persone vi affollava l’ingresso. Avevo inchiodato e parcheggiato malissimo, lasciando inclinare pericolosamente Blanche dentro una specie di piccolo fossato. Sotto gli occhi esterrefatti del gruppetto ero scesa dalla macchina ancora col vestitino della serata, evidentemente fuori luogo per quel contesto. Senza darmene pensiero mi ero avvicinata e con passo sicuro avevo ignorato tutti gli sguardi maschili sulle gambe e dentro la scollatura. Entrando ero rimasta immediatamente scioccata dalla bellezza di quella strana costruzione. Si trattava davvero di una sorta di piccolo castello in miniatura e nel cortile interno doveva essersi consumata una qualche tipo di cerimonia. C’erano disseminate delle sedie ormai vuote e un piccolo palco, in fondo un lungo tavolo con delle vivande e qui e lì sparuti grappoli di gente a chiacchiera- re. Attratta dal fascino incredibile di quel micro-mondo di pietra che pareva uscito da una favola, mi ero messa a girare intorno, rapita dalla merlatura e dagli archi, quando all’improvviso una voce mi aveva raggiunta alle spalle. «È il Castello Galluppi».
Una voce calda piena di vocali aperte mi aveva raggiunta alle spalle. Il suono era vicino e si era distintamente staccato dal cicaleccio in sottofondo. Mi ero vol- tata piano, quasi presagendo dentro di me una sorta di premonizione. Di fronte a me c’era questo tipo innegabilmente bello. Alto e sorridente, col naso un po’ a patata, i capelli neri leggermente brizzolati e con due occhi così azzurri che potevo vederci dentro tutto il mare della Calabria in tutte le sue sfumature. Avevo sempre avuto un debole per gli uomini con gli occhi chiari, forse perché i miei erano “due gocce d’inchiostro” come mi diceva sempre mio nonno.
Dopo un iniziale imbarazzo, il tipo si era presentato. «Piacere Rosario».
La sua mano abbronzata mi aveva concesso una poderosa stretta da uomo del sud, ma che nascondeva al suo interno anche una sorta di gentilezza, quasi misurasse galantemente il vigore nel saluto a una donna. Non ero riuscita ancora a dire una parola. Rosario non aveva aspettato la mia risposta, forse vedendomi un po’ imbalsamata, con un vestito da discoteca spersa nel cortile di un mini castello in un paesino calabro dimenticato da tutti. Aveva piuttosto iniziato a raccontarmi del castello, si trattava della residenza estiva del filosofo calabrese Pasquale Galluppi che se l’era fatta costruire nel borgo di Carìa in provincia di Vibo Valenzia, il nome appunto del posto in cui ero capitata. In quel cortiletto nel 1923 aveva pranzato il futuro papa Giovanni XXIII, il castelletto era passato per qualche tempo nelle mani di una famiglia locale, per poi essere acquisito dal comune, ristrutturato e riaperto al pubblico. Quella sera stessa si era appena consumata l’inaugurazione.
«È un posto magico» avevo sussurrato a un tratto rapita da quell’atmosfera così sospesa nel tempo e forse anche un po’ dagli occhi di Rosario.
«Vero. Ma non è il solo qui».
«Davvero?».
«Ne conosco diversi, ma uno soprattutto». «Dove?».
«Qui, è il mio uliveto».
«Perché un uliveto dovrebbe essere magico?». Rosario era scoppiato a ridere.
«È una risposta da ragazza di città».
«Che ne sai che sono una ragazza di città?».
«Non saresti venuta a Carìa con quel vestito altrimenti». Mi ero istintivamente passata una mano addosso, calando il capo come colpita da un’invisibile frecciata. «Comunque ti sta benissimo».
«Grazie…».
«Hai bisogno di un passaggio?».
«No, grazie, ho la macchina».
«Se la macchina è quella che hai parcheggiato nel fosso, hai bisogno di un passaggio».
Rosario non mi aveva fatta replicare ancora una volta. Mi aveva piuttosto invitato a seguirlo verso un uomo, suo cugino, assessore comunale. Gli aveva brevemente spiegato della macchina, l’indomani in qualche modo me l’avrebbero tirata fuori di lì. Non riuscivo a rassegnarmi all’idea che non sarei riuscita da sola a farla uscire da quella specie di fossato, ma dopo un paio di tentativi fra gli sguardi divertiti di quell’ultimo gruppetto di astanti all’inaugurazione avevo dovuto arrendermi. «Puoi fidarti di Rosario, è un gentiluomo» mi aveva rassicurata il cugino e alla fine sperando nella provvidenza mi ero lasciata riaccompagnare a Tropea. Lungo il tragitto in uscita dal paese avevamo costeggiato l’uliveto di Rosario. Con un po’ di arroganza gli avevo ribadito che non mi sembrava avesse nulla di diverso da qualunque altro uliveto, Rosario aveva sorriso e si era fermato.
Era sceso dalla macchina e mi aveva invitata a usci- re. Mentre me ne rimanevo immobile nell’abitacolo pregando che non volesse uccidermi, aveva infilato la
testa dal lato del mio finestrino aperto.
«Allora non ti fidi. Peccato, avresti visto perché è così speciale questo uliveto».
Senza aggiungere altro si era di nuovo diretto verso il sedile del guidatore, quando io, di nuovo sulla scorta di quel mio istinto selvatico e un po’ incosciente ero scesa dall’auto. Rosario senza smettere di sorridere mi aveva guidata verso il filare degli alberi verso un punto in cui la luna irradiava a tal punto da bagnare le chiome d’argento riflettendo poco sopra un’aura cobalto. Sembrava quasi l’aurora boreale, non avevo mai visto nulla del genere. Rosario mi aveva detto di guardare in alto e non appena i miei occhi avevano incontrato quel pezzo di cielo di Calabria
sconosciuto, si erano riempiti di una pioggia di stelle tal- mente fitta che quasi mi sembrava fossero accese miliardi di fiammelle bianche. Laggiù a Carìa non c’erano che pochi sparuti lampioni e l’inquinamento luminoso che nelle grandi città spegne le stelle, lì le lasciava invece li- bere di esibirsi in tutto il loro splendore. Quello che accadde dopo è rimasto incastonato dentro il mio cuore come quel drappello luminoso di stelle: avevamo fatto l’amore in un modo che non avevo mai provato prima, era come se tutto il mio corpo e anche l’anima appartenessero a quello sconosciuto con gli occhi pieni di mare. Una sensazione così profonda e intensa che in ultimo aveva finito per spaventarmi. Mi ero lasciata riaccompagnare alla Casa Rosa delle mie amiche, promettendogli che l’avrei chiamato, lui mi aveva scritto il suo numero sul palmo della mano.
«Come ti chiami almeno me lo dici?».
Mi ero voltata di nuovo richiamata da quella bella voce piena di vocali aperte, ma anche stavolta non avevo risposto. L’indomani dopo aver mestamente accettato a colazione i rimproveri delle amiche, era già il giorno della partenza. Avevo lavato via quell’ultima traccia della mia folle notte all’uliveto di Rosario e ripreso il treno per Roma. Erano passati dieci anni da allora. Anni di viaggi, amicizie, relazioni, traslochi. Anni pieni, ma sempre sfuggenti, in cui ogni cosa sembrava destinata a rimanere in superficie, senza riuscire a toccare più il fondo dei sentimenti più segreti come solo in quell’occasione un uomo della mia terra rinnegata era riuscito a fare.
Non ero più voluta tornare in Calabria, neppure in vacanza, mi ero trasferita per qualche tempo a Milano dove lavoravo come impiegata, un lavoro qualunque in un posto qualunque. Non ero felice, ma non riuscivo a capire perché. Un giorno in azienda era capitata una donna, avevo riconosciuto da subito il suo accento, veniva dal vibonese, si occupava di import export di minuterie per gioielli. Mi aveva fatto i complimenti per gli orecchini, chiedendomi dove li avessi com- prati. Li avevo fatti io, realizzare gioielli era stato da sempre il mio hobby. La donna mi aveva risposto che avrei dovuto farlo come lavoro, mi aveva lasciato il suo biglietto da visita e offerto un caffè. Quella sera stessa, ancora una volta guidata dall’istinto indomito, mi ero decisa: avrei realizzato il mio sogno, vendere i miei gioielli. Non era stato poi così difficile, la signora mi aveva dato una mano coi contatti e in pochi mesi mi ero ritrovata a vendere in mercatini e fiere. Avrei dovuto fare quella vita per un po’ prima di riuscire ad aprire il mio negozio, ma ero determinata e sapevo che ce l’avrei fatta. Era iniziato un nuovo viaggio pieno di amicizie, a ogni fiera se ne facevano di nuove e da quei contatti nascevano collaborazioni e scambi che permettevano la crescita reciproca, qualcosa di molto lontano dal freddo contesto del business a cui ero abituata.
Quella vita mi piaceva, mi ci sentivo perfettamente a mio agio, sentivo per la prima volta dopo tanti anni quella profondità sconvolgente che ti porta a riconoscerti in qualcosa, o qualcuno.
«Quest’anno dove si va a Natale?».
Mi aveva domandato Carlotta, una ragazza che avevo conosciuto a Bologna e con cui spesso mi trovavo a con- dividere il banchetto in fiera. Lei realizzava specchi intagliati e insieme mettevamo su sempre delle belle composizioni con i miei gioielli che non mancavano di attirare l’attenzione dei passanti.
«Non saprei, potremmo andare a Merano».
«Ma ci siamo già state a Merano, andiamo in un posto di mare!».
«E che c’entra il mare con il Natale?».
«Vuoi che non lo festeggino il Natale al mare?».
«E dove sentiamo…».
«Tropea! Ho degli amici che vivono là, ci ospiterebbero loro». Non appena Carlotta aveva nominato Tropea avevo sentito un tuffo al cuore. Impietrita e muta non riuscivo a rispondere.
«Tutto bene?».
«Sì certo».
«Dài, allora chiamo i miei amici».
«Aspett…».
Non ero riuscita nemmeno a finire la frase, Carlotta aveva già confuso la mia risposta sullo stare bene con l’accettare la destinazione che aveva scelto per i mercatini di Natale. Più tardi avrei scoperto che aveva fatto richiesta per il banchetto già da ottobre e che praticamente non potevo tirarmi indietro, mi ero fatta coraggio ripetendo a me stessa che magari “lui” non lo avrei neppure incontrato, dopotutto ammesso che vivesse ancora lì era a otto chilometri di distanza. Ma non ci saremmo visti, era solo un ricordo lontano nel tempo destinato a sbiadirsi, prima o poi.
Il destino invece era già pronto a farmi lo sgambetto. Una volta arrivate avevamo montato lo stand in fretta e fatto già qualche vendita, quando nella folla, immersi fra mille altre, avevo visto quegli occhi azzurri. Il minuto più lungo della mia vita. Rosario era lo stesso, solo un po’ più brizzolato, ma il sorriso e la bellezza intatti. Mentre si avvicinava e il cuore mi scoppiava silente in petto, ripetevo a me stessa che non avrebbe mai potuto riconoscermi, che dovevo far finta di niente, ignorare quella strana sensazione di richiamo che mi pulsava dentro. Invece eccolo lì, davanti al banchetto che mi sorrideva come dieci anni prima, rimproverandomi per non averlo mai chiamato, mentre mi confessava con un candore disarmante che mi aveva cercato in tutte le donne che alla fine aveva lasciato. Era così Rosario, semplice e spiazzante, come quella sera nel suo magico uliveto sotto le stelle più brillanti che avessi mai visto.
«Ma scusami, non dovevo dirti queste cose, magari sei qui con tuo marito».
«Sono sola!» avevo risposto quasi gridando, facendo girare di scatto anche Carlotta, intenta a incartare uno specchio per una cliente. Rosa- rio aveva sorriso ancora, di quel suo sorriso così indimenticabile, offrendomi un bicchierino di liquore alla liquirizia prodotto da un suo amico che aveva il chiosco poco distante dal mio. Mi rendevo conto di essere solo scappata, ma ora mi sentivo inequivocabilmente a casa. «Adesso me lo dici come ti chiami?». ●
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