“Appuntamento al buio” di Tiziana Pasetti contiene la forza dell’amore, scrive la nostra lettrice Zoe sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo
Le persiane sono chiuse, il sole sta calando. I suoi lineamenti sfumano, ma a me basta unire le nostre labbra per capire che l’ho ritrovata e non posso più perderla perché quello che ci lega è per sempre
STORIA VERA DI DANIELE T. RACCOLTA DA TIZIANA PASETTI
Sono seduto a terra da 20 minuti, forse qualcosa di più. Fuori il cielo è azzurro ma le persiane sono chiuse e la stanza è buia, salvo un paio di raggi che entrano sottili e mi carezzano la mano destra che tengo ferma, aperta, appoggiata sul mio ginocchio.
Un altro raggio sfiora una parte del viso che ho davanti a me, lasciando nella penombra il resto. La luce sottile restituisce la forma delle labbra, il disegno deciso. Gli unici suoni che arrivano sono quelli degli uccelli nascosti sui rami degli alberi cresciuti nel giardino di questo piccolo palazzo. Il resto è un silenzio che avvolge me, il mio respiro e quello che esce, impercettibile, dalla bocca della donna seduta come me, con me, di fronte, a terra. Sposto leggermente una gamba per rimettere il sangue in circolo e una scossa intensa come un fulmine passa attraverso gli occhi e poi lungo tutto il corpo.
Ci sono voluti quasi 20 giorni, 19 giorni e sette ore per essere precisi, per arrivare qui, dopo aver trovato il coraggio di scrivere quel messaggio che diceva solo: “Posso
vederti?”. Ho premuto il pulsante del citofono con il cuore che mi faceva capriole scomposte nella gola, ho salito l’unica rampa di scale che porta al primo piano non so con quale paio di gambe, mi sono dovuto appoggiare allo stipite esterno della sua porta blindata per non cadere. Mi ha aperto e dalla fessura ho intravisto il buio di un appartamento messo in attesa, messo in uno stato di segretezza. Aveva risposto a quel messaggio con una richiesta: “Solo se vieni da me e quando entri non dici nulla e ti siedi a terra“. Quasi 20 giorni di messaggi timidi per avvicinarci piano a questo appuntamento al buio.
Una scossa, quasi di fulmine, dicevo. Muovendo la mia gamba ho sfiorato la sua. Solo se vieni da me, ha scritto. Solo se entro e non dico nulla. Solo se mi siedo a terra. Non ha scritto che devo restare immobile, però. Non ha scritto che non devo allungare una mano e cercare, nel buio, la sua. Non ha scritto che dopo averla trovata, e dopo aver intrecciato le dita di una mano a quelle della sua, non posso cercare anche l’altra e disegnarle sul palmo l’accenno di una linea nuova e arrivare piano fino alla spalla. Non ha scritto che non posso scendere fino alla scapola e spingere, piano. Non ha scritto che non posso chinarmi in avanti e andare incontro al suo viso che si avvicina al mio. Il raggio adesso le taglia in due l’iride sinistro. Non vedo più la sua bocca. Ma la sento, con le mie labbra sento le sue.
È un bacio che nessuno dei due credeva potesse accadere di nuovo, è un bacio terrorizzato, urgente e disperato. Le nostre bocche sono l’una contro l’altra e premono con forza, i denti si scontrano, le lingue sono paralizzate. Le sue mani sono strette intorno al mio viso, io stringo le sue spalle e lo so, lo sento, che le sto facendo male come lei lo sta facendo a me.
Il mio respiro diventa un singhiozzo, un singhiozzo che diventa un lamento: mi esce dalla gola un lamento rauco, l’annuncio di lacrime che non faccio nulla per fermare. Piango e mi ritrovo in bocca lacrime mie e lacrime sue che lecco e mando giù insieme alle mie, lacrime sacre. L’afferro alla vita e la stringo a me, affondo il mio viso nell’incavo del suo collo. Restiamo così. Al buio. A piangere insieme. A cullarci. Quando io e Daria ci siamo incontrati eravamo già sposati. Non ci siamo conosciuti chissà dove, non eravamo in fuga dai nostri matrimoni. Ci siamo scontrati mentre io uscivo e lei entrava dall’ascensore di questo piccolo palazzo, al piano terra. Io qui ci sono nato, ci sono cresciuto. Lei qui si era trasferita con il marito e le due figlie. Per un lungo periodo ci siamo solo salutati o scambiati convenevoli veloci. Ero sposato anch’io, con due figli piccoli, e in quel palazzo tornavo per fare visita a mio padre e a mia madre. Quando la incontravo, era come cadere vittima di un sortilegio: lei era un chiodo che mi si fissava nel cervello, mi restava attaccata ai pensieri, scivolava dentro ai sogni. Poi un giorno mio padre mi ha chiesto di sostituirlo a una riunione di condominio. L’ho vista appena sono entrato nell’appartamento del quinto piano, quello dove ero entrato tutti i giorni della mia infanzia per giocare con Carlo: era seduta sul divano, le gambe accavallate, i capelli castani raccolti di lato, il viso inclinato, la bocca atteggiata a un sorriso che avrei imparato a indovinare anche da lontano, anche nei precipizi della disperazione. Quella sera stessa senza pensarci troppo, senza farmi fermare dal buon senso che avvelena la vita e la blocca, ho scritto: “Voglio sentire il profumo della tua pelle”. Una follia. Un azzardo. Non conoscevo nulla di lei. Ma immaginavo già tutto. E non avevo dubbi.
Sapevo con assoluta certezza che tra la mia immaginazione e la sua essenza non ci sarebbe stata alcuna differenza. Sono un uomo che ha tradito infinite volte. Sono un uomo che vive di emozioni. Sono un vigliacco, un codardo. Un collezionista di amori. Ma quando ho scostato i capelli dal collo che Daria mi ha offerto, quando ho avvicinato il mio viso,
quando ho respirato il suo profumo, quando piano le ho girato il mento verso il mio e l’ho baciata, io sono caduto, precipitato. Nel suo cuore.
Abbiamo avuto una storia lunga, densa, totale, che ha creato molti squilibri. Non avevo mai messo in dubbio il mio matrimonio, anche quando ero convinto di vivere un amore vero. Le storie finivano, soffrivo un po’, ma arrivava sempre un’occasione nuova sotto forma di un bel paio di gambe, di una risata particolare, di un punto in comune. Daria ha annullato tutto, giorno dopo giorno si è presa quello che avevo. Poi me lo ha restituito quadruplicato. Gli anni passati con lei sono stati quelli nei quali ho imparato a stare in piedi da solo, a non dipendere dai giudizi di mio padre, a fortificare la mia posizione lavorativa. L’ho odiata tanto, mentre follemente l’amavo: è accaduto anche questo. Poi mi sono arreso, mi sono arreso a noi, alla perfezione che eravamo. Ma è accaduto qualcosa all’improvviso e per noi è stata la fine.
Mia moglie aveva capito. Io ero sempre distratto, con la testa altrove. Un giorno era riuscita a prendere il mio telefono, aveva visto come lo sbloccavo in un momento in cui ero distratto, e aveva scoperto tutto.
È una donna molto intelligente, ha saputo gestire le sue mosse senza cedere allo stupore e al dolore. Voleva che io restassi con lei e i nostri figli. Le è bastato chiamare Daria e farle vedere delle vecchie chat con una persona che le avevo giurato di non conoscere. È bastato metterla a conoscenza di una parte di me che a Daria avevo nascosto: a lei avevo detto che ero un uomo di sani principi, che mai prima di lei avevo vacillato.
«Voglio stare con te». Non so dove ho trovato il coraggio, mentre tutto precipitava e mia moglie mi guardava con odio e Daria con strazio, di dirle che io volevo solo lei. Daria però è andata via. E sono passati quattro anni, quattro anni a scoprire ogni giorno cos’è l’amore: una forza potentissima, una promessa per sempre, una nuova ossatura. L’attesa di un appuntamento al buio, indirizzo via Cuore, strada senza uscita. Sono passati quattro anni, dieci secoli. Poi 19 giorni fa, più sette ore, le ho mandato un messaggio, un messaggio pacato, neutro. Lei ha risposto subito, in modo gentile. E siamo andati avanti fino a oggi, tra gentilezza, pacatezza e neutralità.
Riesco ad allontanarla di qualche centimetro, il sole è andato via, la sento attraverso il tatto e l’odorato. La guardo fissa negli occhi che riesco a indovinare nella penombra. Vorrei dire grandi cose, vorrei dirle che la amo, che fare la cosa che pensavo giusta è stato un errore acido e corrosivo. Ma sento le sue labbra morbide contro le mie. E il suo respiro delicato. Sento quelle stesse parole nel silenzio sacro dei suoi baci. Mi ritorna in circolo il sangue, nell’anima. ●
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