In famiglia senza liti e noia è un articolo pubblicato sul numero di Confidenze in edicola adesso, pieno di consigli per chi sta trascorrendo ogni sacrosanta giornata a strettissimo contatto con i teenager. In realtà, l’argomento non mi riguarda. Eppure, in queste settimane ho pensato spesso al fatto che se la pandemia fosse scoppiata anni fa, l’avrei affrontata anch’io con i figli in casa. E come sarebbe andata?
Ebbene. Se avessero avuto quattro e tre anni (sono nati a raffica, uno dietro l’altro), me li sarei ritrovati nel periodo più bello dei bambini. Quello, cioè, in cui finalmente parlano, camminano e iniziano a fare teneri ragionamenti, pur rimanendo innamorati pazzi della loro mamma, dalla cui lingua continuano a pendere come le noci di cocco dalla palma.
Morale, in questa fase della loro vita i miei mostriciattoli sarebbero stati felici di avermi accanto 24 ore su 24. Io sarei sfuggita ai pianti come se per noi non fosse previsto un domani ogni volta che mettevo piede fuori casa. E più che un isolamento, avremmo vissuto un’inaspettata vacanza sull’isola dei due tesori: loro!!!
Certo, magari mi sarei un po’ annoiata guardando La sirenetta venti volte al giorno e Aladdin una decina. Avrei tentato ogni tanto di barattare la doppietta del Re Leone con una partita a carte (rubamazzetto? Peppa tencia?), almeno per movimentare le nostre giornate. Ma tutto sarebbe filato via liscio più o meno come l’olio.
Più complicata, probabilmente, la quarantena con i due strufolini di dieci e nove anni, l’età in cui tutti i ragazzini iniziano a dare i primi segnali di insofferenza nei confronti della madre. Ma anche in questo caso avrebbe prevalso il piacere di potermi dedicare a loro, finalmente abbastanza grandi per un Monopoli giocato fino all’ultimo albergo, o per un Risiko combattuto ad armi (e carrarmati) pari.
Non escludo, però, un mio stupore misto a sgomento davanti a dettagli che la convivenza gomito a gomito mi avrebbe rivelato senza pietà: docce fatte con maggior frequenza, look vagamente più curato, telefonate alle amiche, considerate fino a qualche mese prima “le femmine”, ovvero entità inutili e meno interessanti di un documentario sulle larve. Tutti indizi della voglia di spiccare quel volo che ogni mamma (figuriamoci quelle dei maschi) spera si manifesti il più tardi possibile.
Tanta dolcezza nelle mie parole svanisce all’improvviso se penso alla quarantena trascorsa con i miei figli di diciassette e sedici anni. Cioè, in compagnia di due belve pulsanti di ormoni, ansiose di segnare il loro territorio.
Allora, mi immagino chiusa in casa con loro che si alzano dal letto a orari impossibili, grugniscono un saluto ben poco cordiale, ciondolano dalla sala alla cucina con aria indolente (tutto questo rigorosamente in boxer stazzonati) e poi si rintanano di nuovo nella loro stanza. Ma non in un quieto silenzio, siamo matti?
Con il rumore della porta che sbatte, tallonato da quello di un rap più snervante che allucinante. E con me pronta a urlare «Questa non è musica, è baccano». Ma, visto che nel “ritmico” fracasso non mi avrebbe sentita nessuno, aggrappata al telefono con un’amica nelle mie stesse condizioni, per farci forza a vicenda.
Solo al pensiero di una quarantena del genere rabbrividisco e, per fortuna, almeno questa il coronavirus me l’ha risparmiata. Perciò, nell’attesa di tornare a una vita normale (e di riabbracciare finalmente i miei meravigliosi trentunenne e trentenne), porgo i miei più sentiti auguri alle mamme dei liceali. Che saluto con un accorato «Tutto andrà bene».
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