Da Confidenze n. 51, una storia di speranze e sogni da realizzare. È la preferita dalle nostre lettrici sulla pagina Facebook
È stato mio marito a dirmelo: «Se non riesci a fare un gesto d’amore, conservalo. Lo libererai appena potrai». Io mi sono sempre vergognata del mio corpo e ho trattenuto le carezze perfino con lui. Oggi però qualcosa è cambiato. E sento nascere la speranza
STORIA VERA DI RITA C. RACCOLTA DA IRENE ZAVAGLIA
Usciamo di casa poco prima dell’alba. Il cielo è un manto lucido di foschia che rincorre i profili addormentati dei palazzi. Ho sempre pensato che il momento più bello della giornata fosse questo, quando la luce invisibile del mattino preme con forza contro il buio della notte per rischiarare i contorni sfocati delle cose. Vivrei unicamente di questo sublime e miracoloso istante che ogni giorno partecipa al risveglio della vita. Poi più nulla, poi mi nasconderei per il resto delle ore che mi separano dalla notte seguente, in modo da sfuggire agli sguardi indiscreti degli altri. Detesto essere guardata. Detesto anche Peppe che si gira a fissarmi amletico mentre ingrana la marcia e consente alla macchina di sgusciare via nella città deserta. Alle sei del mattino, Parma è un’elegante donna d’altri tempi che ti mormora da una dimensione di pace di non abbandonarla mai. In realtà, non so dove stiamo andando. Ha organizzato tutto mio marito. Ha preparato due piccoli bagagli, mi ha assicurato che mancheremo un paio di giorni al massimo, ha fatto venire sua madre affinché si occupasse del bambino.
Prima di uscire ho osservato mio figlio dormire sereno nel suo letto. Gli ho sussurrato che tornerò presto. «Stai tranquillo, Matteo, la mamma torna presto. Tu, amore, promettimi che farai il bravo». Avrei voluto baciarlo, premere le mie labbra sulla guancia paffuta, consegnargli in pegno un bacio in cambio della promessa che mi ha regalato nel sonno con un minuscolo e ignaro sorriso. Non ho potuto. Baciarlo, intendo. Non posso baciare nessuno, io. Non ne sono capace. Ho smesso di baciare chi amo da tempo immemore, da quando la mia bocca si è per metà accartocciata trasformandosi in un callo duro. L’idea ossessiva che le persone possano provare ribrezzo avvertendo sulla pelle il grumo di carne che, sul lato destro del viso, deforma ogni mia espressione mi impedisce puntualmente di farlo. Il fuoco mi ha anche lasciato l’eredità di uno zigomo puntinato di macchioline rosa, a tratti tendenti al bianco, e una mano da fare spavento. Le macchie riesco a camuffarle con un buon fondotinta, risultano quasi invisibili. Ma la mano, la mia mano sinistra, è cresciuta insieme a me con la memoria dell’ustione. È la stessa mano che nascondo sotto al cuscino o dentro la manica del maglione quando vado in giro. Preferisco sembrare monca che mostrare il mio arto rattrappito. Una volta Peppe mi ha detto che la mia mano è come una stella marina tristemente dimenticata ad asciugare al sole, con le punte incurvate e la superficie un po’ ruvida, ma pur sempre bella, pur sempre una creatura del mare, pur sempre una mano funzionante se solo riuscissi a tendere per bene le dita. Ma Peppe ha una visione differente della sofferenza. Quando ci siamo sposati era già nell’esercito e aveva già preso parte alla missione di pace in Bosnia. «Rita, sapessi quante ne ho viste di persone che, a distanza di tanti anni, continuano a portare impresso il marchio della guerra. Uomini e donne che si confondono nella normalità ormai assestata dei centri urbani ma che si trascinano come insetti rotti, senza un arto, con le facce sfigurate dalle bombe, con le schegge irrimediabilmente incastrate nelle ossa. Cosa può mai importarmi se tu tieni le labbra un po’ strette o se la tua mano mi fa pensare a un prezioso scrigno dove poggiare il cuore?». Subito dopo ha tentato di baciarmi. Mi sono allontanata bruscamente. In quella stessa occasione mi ha chiesto di sposarlo. Lo sbircio adesso dal posto del passeggero. Guida convinto, i lineamenti distesi, la mano che ogni tanto trascura la leva del cambio e corre ad accarezzarmi il ginocchio. «Dove stiamo andando?» chiedo in ansia. «È una sorpresa». «Non mi piacciono le sorprese». «Questa ti piacerà, fidati». Sorride malizioso. Possiede l’entusiasmo di un ragazzino nel corpo di un adulto. Non è mai cambiato. La verità è che lo amo di un amore profondo, costruito sulla fiducia e sul rispetto ai quali mai è venuto meno. «Ti bacerei, giuro» gli confesso mentre mi accorgo che stiamo per imboccare il casello dell’autostrada. «E tu prendi questo bacio che vorresti darmi e infilalo in tasca. Quando vorrai, me lo darai…». È ancora lui che mi ha insegnato a tenere al sicuro tutti i baci che non ho dato, quelli che non sarò capace di dare. Un giorno mi ha trovata a piangere in un angolo perché mi ero resa conto di non riuscire a baciare neppure nostro figlio, di non essere in grado di stringerlo, di prenderlo in braccio, per paura di toccarlo con la bocca storta o con la mano malandata. Ha asciugato le mie lacrime e mi ha detto: «Non buttare via i baci che non puoi dare, non calpestarli, non perderli lungo il cammino. Infilali in tasca, conservali, abbine cura, così che, quando ti sentirai pronta, potrai tirarli fuori e offrirli ai legittimi proprietari». Ho passato gli ultimi anni a immaginare di nascondere i miei baci nelle tasche, senza sciuparne nemmeno uno. E mi sono sentita meglio. Ora ho le tasche pesanti, piene di baci che rintuzzano l’uno contro l’altro come i sassolini che Hansel si teneva stretto per disseminarli all’occorrenza e ritrovare la strada di casa: i baci per Matteo, i baci per Peppe, i baci per mia madre quando l’ho rivista a Natale, i baci per la bambina del piano di sotto che mi ha disegnata con la bocca perfetta…
Non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui abitavo in un piccolo paese del Sud Italia ed ero una bambina serena. Un tempo in cui mi attaccavo al collo dei miei genitori e li baciavo a lungo. Erano mattine come questa, con il sole al limite del cielo, il furgoncino attrezzato per il lavoro nei campi e la speranza che con tutti quei baci loro si accorgessero del mio bene e non mi affidassero alle cure della zia.
Se chiudo gli occhi, la zia riesco a ricordarmela distintamente. Ho appena sette anni, frequento la seconda elementare, eppure di lei conserverò un ricordo che ha del prodigioso. È giovane, la zia, pure bella. È la sorella minore di mio padre, ha da poco partorito un bambino dolcissimo. Non mi sorride mai. Viene a prendermi all’uscita da scuola e mi strattona per il braccio. «Certo che i tuoi proprio a me dovevano affidarti, come se già non avessi abbastanza da fare con il marmocchio che appena nato non smette di frignare» sibila. Non mi vuole, forse non vuole neanche il suo bambino, meno che mai il marito che si è scelta e contro cui inveisce a ogni occasione. Aspetto fiduciosa che lo dica ai miei, che esterni il suo malcontento e che io non sia più costretta a sopportare la sua cattiva influenza. Invece, quando la sera papà viene a recuperarmi di ritorno da lavoro, lei si profonde in gesti affettuosi, in lodi per i momenti piacevoli che abbiamo trascorso insieme. Tento di dire a mio padre che la zia è una bugiarda. «La zia mi tratta male, non vuole che stia a casa sua, le dò fastidio».
Siamo io e lui, in macchina. Si gira a osservarmi scocciato. È arrabbiato per la mia sfacciataggine. Sono troppo piccola per comprendere i teatrini che gli adulti inscenano con il solo fine di non vedere le brutture di cui sono in parte responsabili.
Il peggio deve ancora arrivare.
In inverno c’è l’abitudine di accendere dei bracieri e di tenerli nelle stanze distanti dalle stufe o dai caminetti che sono le principali fonti di calore. Non siamo in un’epoca così lontana dalla modernità dei riscaldamenti, ma la comunità in cui cresco è intrappolata in una mentalità montanara dedita al risparmio e al sacrificio. Lo fa anche la zia, di pomeriggio accende un braciere e lo posiziona nella camera in cui dorme il mio cuginetto. È lì che devo stare, immobile, a vegliare sul fuoco e sulle fasce del neonato che lei ha steso ad asciugare.
«Non muoverti da qui, non darmi altri grattacapi. E se noti del fumo, allontana le fasce dal fuoco, altrimenti si anneriscono». È un copione
che si ripete: la penombra della stanza, l’odore fugace di talco che sparisce divorato dal sentore acre di fumo, le braci che si esauriscono nella colla inconsistente delle ore fino a spegnersi nel breve lampo di un ultimo guizzo di fiamma che stranamente mi ricorda la lingua tagliente della zia.
Un pomeriggio, tuttavia, qualcosa cambia. È l’ultimo pomeriggio che consumerò in questa casa. Il fuoco arde con più impeto e produce a intermittenza un fumo denso. La zia avrà usato troppo carbone, o magari di una qualità più scadente rispetto al solito. Il bambino a un certo punto si sveglia, piange, viene preso e portato in cucina per la poppata. Io non ho il permesso di spostarmi. Il fumo non accenna a diminuire. Mi brucia la gola, un forte senso di nausea mi stringe allo stomaco, sprofondo nel buio.
Quando riprendo i sensi sono distesa sul letto della zia e le finestre della sua camera, dove ho il divieto assoluto di entrare, sono interamente spalancate. Il freddo che proviene da fuori mi gela i piedi. Intorno a me, un numero spropositato di persone: parenti, vicini, conoscenti, i miei genitori pallidi. Tutti fissano con orrore gli artigli infuocati di un mostro che continua ad arpionarmi la faccia e la mano. Qualcuno dice che ho respirato il monossido di carbonio, che sono svenuta sulle braci accese… È la prima volta che vedo la zia piangere. Piange, si torce le mani, se le porta disperata al petto, racconta tra le lacrime, con una vocina stridula, una verità che non mi appartiene: «È irrequieta, questa bambina, agitata, non avete idea di tutte le volte che sono stata costretta a riprenderla, di tutte le volte che le ho dovuto dire di non saltellare vicino al fuoco… Tocca capire pure me, ho un bambino piccolo, un istante di distrazione ed ecco che la discola l’ha combinata grossa».
I parenti, i vicini, e finanche mio padre annuiscono, la consolano per quella sventura. Solo mia mamma rimane in silenzio e scruta torva suo marito e la cognata come se volesse azzannarli entrambi al collo. Mia madre ha capito. Mia madre non si perdonerà mai.
Il periodo che segue ha i contorni feroci della sofferenza che mi causano le dolorose medicazioni a cui vengo sottoposta nel reparto dell’ospedale dove sono ricoverata. Ho paura di ogni camice bianco che incontro, ho il terrore che qualcuno mi tocchi, che il dolore non cessi. Persino mia madre rinuncia ad abbracciarmi, china la testa davanti al mio ostinato rifiuto di subire qualsiasi genere di contatto. Sono diventata una bambina silenziosa. Nella sequenza successiva, una ragazza solitaria, schiva, tormentata dalle cicatrici che non passano inosservate.
Cammino per strada a capo chino, inseguita alle spalle dal nomignolo bizzarro che mi hanno affibbiato. ”Mezzabocca”, mi chiamano. Vorrei urlare tutta la mia indignazione, respirare una scia interminabile di monossido di carbonio per addormentarmi e impedire alla cattiveria della gente di raggiungermi. Ho circa 15 anni a quel tempo, e i miei genitori litigano, discutono incessantemente. Mi tappo le orecchie, allo stesso modo, non ho voglia di ingurgitare le loro recriminazioni, i sensi di colpa inespressi, la preoccupazione che i soldi non bastino per coprire le spese del dottore dove mia madre si è intestardita a portarmi. Si è fatta consigliare da una cugina emigrata al Nord; nei primi anni ‘90 c’è ancora tanta confusione sull’efficacia della chirurgia plastica, ma al telefono la cugina le ha assicurato che nella clinica di questo luminare gli sfregi da ustione vengono curati grazie alla trasposizione di lembi di pelle. «È troppo caro, non possiamo permettercelo! Non è poi conciata tanto male» urla mio padre.
Alla fine lo trova lui un medico, uno a buon mercato, uno che si vanta di poter compiere miracoli ricorrendo esclusivamente a delle specifiche tecniche di sfregamento e a delle pomate che trasformano definitivamente la mia mano in un uncino sghembo e la mia bocca in un perenne ghigno. Mio padre impreca, io giuro che la medicina estetica è un affare che non mi riguarderà più.
Solo quando nella mia vita compaiono gli occhi indulgenti di Peppe, io mi sorprendo a respirare. A 30 anni suonati, la morsa del tormento interiore finalmente si allenta, il supplizio di guardarmi allo specchio cede alla felicità di sentirmi accettata, amata per quello che sono, senza nulla togliere ai miei inestetismi. È Peppe che mi riporta a galla, che mi fa sopravvivere, che mi conduce lontano, dove quel mezzabocca non arriva, dove imparo a sopportare l’ansia e a custodire i miei baci per gli altri infilandoli in tasca.
Quanto ho desiderato baciare veramente mio marito. Non so figurarmi come sia scandagliare la sua bocca, perdermi nel sapore dolce dei suoi baci. Anche quando facciamo l’amore lo imploro di non guardarmi, di toccarmi il meno possibile, di non soffermarsi sulle mie cicatrici.
«Non c’è nulla di eroico a essere feriti, a ostentare i propri difetti come fossero medaglie al valore. Bisogna prima guarire la propria anima, superare il conflitto che ostacola il perdono per se stessi e per l’intreccio infausto degli accadimenti» mi spiega lo psicoterapeuta che mi tiene in cura. Io ci provo a guarire la mia anima, ma non so fino a che punto ci riesca. C’è sempre questo alone rosso fuoco che mi confonde i pensieri e che improvvisamente mi restituisce al viaggio.
Dove mi sta accompagnando Peppe, dove stiamo andando? Mi accorgo di riemergere dal torpore benefico del sonno che è sopraggiunto a spezzare l’agitazione per l’ignoto. Il panorama che proietta il finestrino è completamente mutato. Il sole è già alto, i raggi rimbalzano sull’ingorgo del traffico in cui procediamo a singhiozzi. Un automobilista ci sorpassa strombazzando nervoso. Trasalisco.
«Hai dormito!». Peppe ridacchia sornione. Se deve essere una vacanza, ha sbagliato meta. Non mi piacciono i posti affollati.
«Pretendo di sapere dove siamo diretti» scandisco. Mio marito sospira. Non è mai stato bravo a mantenere a lungo un segreto. Svolta in un viale meno trafficato, cerco di ripescare nella memoria ma non trovo appigli che mi suggeriscano quale sia la città che stiamo percorrendo. Alla fine, Peppe si ferma, parcheggia davanti a un mastodontico complesso di palazzine organizzate in padiglioni. Trattengo il respiro. Proprio davanti al cancello d’entrata c’è un grosso cartello che recita a caratteri tridimensionali: “Centro medico per la chirurgia estetica”.
«No…» balbetto. «Come hai potuto ingannarmi?». Ho un dolore sordo che parte dalla pancia e che si irradia a ogni organo. Risento il bruciore alla mano, la bocca mi tira, la faccia sembra destinata a consumarsi nel fuoco che nuovamente divampa. Morirò bruciata, ne ho la certezza assoluta, il cuore che va a mille non mente. «Respira, amore mio, ci sono io con te». La voce di Peppe mi arriva da lontano. «Guardami» dice ancora. «Lo sai quanto ti amo?».
Lo guardo, è qui davanti a me, con l’animo trasparente di chi sa donarsi senza aspettarsi nulla in cambio. «Ascolta, Rita, si tratta solo di una serie di colloqui e di alcuni controlli di routine, per iniziare. Nessuno ti costringerà a sottoporti a nulla se tu non vorrai. Ma concediti la possibilità di tentare una nuova strada, di essere felice, di ritrovare te stessa. Concedi a me e a nostro figlio di poterti un giorno abbracciare, stringere, baciare all’infinito… Sapessi quanti baci ho da darti, quanti ne ho conservati per te e per te soltanto.Voglio baciare tutto di te, la punta dei tuoi piedi, le tue gambe, le tue mani preziose, il tuo collo di cigno, il tuo volto di regina, le tue labbra uniche». Trema mentre parla. Il suo tremore commuove la mia agitazione, la placa. Scendiamo dalla macchina. Gli porgo la mano da stringere, quella buona. Camminiamo lenti, verso la clinica. Abbiamo entrambi le tasche colme, pesanti, piene di baci, di nuove speranze e di sogni da realizzare. ●
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