“Cammina da sola” di Giovanna Sica è una delle storie vere più apprezzate del n. 28 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog
Per me è tempo di RICORDI. I miei 60 anni li ho vissuti come ho voluto, da donna LIBERA. Ma non sono disposta a stendere BILANCI. Ho ancora davanti tanta strada per fare PROGETTI. E mi sono scelta la colonna sonora
Storia vera di Tilde M. Raccolta da Giovanna Sica
Il mio nome, nel posto dove vivo, di solito non è accompagnato da parole carinissime. Al mio paese sono sempre stata al centro di discorsi sconci da parte degli uomini e di frasi al vetriolo che uscivano dalla bocca di signore arrabbiate e un tantino acide.
Io ne ho sempre riso e ringrazio Dio per avermi fatta con questo bel carattere che le chiacchiere degli altri mi sono sempre entrate da un orecchio e uscite dall’altro. La mia mamma no, poverina. Lei non era come me, e ci soffriva, delle occhiate e dei bisbigli che la inseguivano sotto i portici, quando andava a fare compere per la via del centro. Mi chiamo Tilde, ho 62 anni e la mia vita l’ho vissuta per me. Non mi sono mai voluta sposare, non ho desiderato avere figli. Ho lavorato. Ho viaggiato. Ho fatto l’amore con diversi uomini.
“Ah, e che c’è di tanto eclatante in questa confessione?” penseranno le ragazze di oggi. C’è che io mi sono presa il lusso di vivere come mi piaceva in un tempo e in un posto in cui le donne a 20 anni si sposavano e a 27 avevano due figli per mano e uno in braccio. Molte volte si maritavano per sfuggire alle angherie di un padre-padrone, per poi finire nel letto di un marito-padrone. Io le vedevo le mie coetanee. Prima da lontano, immerse in una fila disordinata. E poi da vicino, quando arrivavano sotto il mio sportello. Non sorridevano e avevano la faccia stanca. E se avevano qualche figlio al seguito, non erano d’amore le parole che gli rivolgevano in attesa di pagare una bolletta. Tutta questa felicità, tutto questo mito della famiglia, ma per favore, non ci ho mai creduto. La verità è che ai miei tempi andava così e basta: le ragazze si sposavano e facevano figli. Spesso andavano a lavorare per necessità, poche avevano la fortuna di fare il mestiere che gli piaceva. Io sono stata fra quelle fortunate. Il mio lavoro mi è sempre piaciuto. In un piccolo paese l’impiegata delle Poste è importante quanto il prete.
E poco me ne importava se quegli stessi individui che davanti allo sportello mi davano del voi e mi parlavano con timore reverenziale, poi, una volta girate le spalle al vetro ne dicevano di tutti i colori su di me.
Quarant’anni alle Poste, ho visto il mondo cambiare sulle facce e nei passi delle persone che facevano la fila con i vaglia in mano. In passato gli utenti erano meno insofferenti. Sapevano che in Posta c’era da aspettare. Chiacchieravano, si raccontavano fatti. Si informavano sulla salute dei vicini di casa. Oggi nessuno rivolge più la parola a nessuno. Tutti stanno con la testa dentro i telefoni. E se la tirano su è solo per portarsi lo smartphone all’altezza del mento e registrare qualche messaggio vocale. O, ancora più su, quando devono scattarsi un selfie per poi pubblicarlo su qualche social con la didascalia: “In fila alle Poste. Giornata di merda”. Gli unici che ancora si guardano attorno per vedere se conoscono qualcuno nei paraggi sono i vecchi.
La prima volta che mi fidanzai, lui si chiamava Mario. Aveva 17 anni, e io 14. Faceva l’elettrauto. È ancora il suo mestiere, ha fatto quello per tutta la vita. Ha cresciuto due figli maschi elettrauti come lui e ha tirato su una grande casa a tre piani dove vivono tutti insieme. Ancora oggi, quando passo davanti alla sua officina, penso che sia stata una gran fortuna scansare il matrimonio con Mario. E lo penso ancor più quando incontro sua moglie. Rachele, una donna più giovane di me ma che appare già vecchia. Sulla cui faccia riconosco i segni inequivocabili di chi non ha fatto una buona vita, di una vita che io non ho voluto per me. Io e Mario restammo insieme per quattro anni. Fidanzati in casa con tanto di festa, confetti verde speranza sul tavolo, scambio di promessa di reciproco rispetto fra le famiglie e un anello al dito mio che pesava quanto un catenaccio. All’età in cui avrei dovuto correre in bicicletta, leggere libri e decidere cosa avrei fatto da grande, passavo il tempo a preparare i piatti preferiti di Mario, che, quando staccava dal lavoro, veniva a mangiare a casa mia. Per gran parte della cena, il mio fidanzato chiacchierava con mio padre e mio fratello Nunzio. Politica, lavoro, calcio, i loro argomenti preferiti. «Roba da uomini» asseriva con naturalezza mia madre. Ma io non trovavo affatto normale spendere i miei pomeriggi a cucinare per poi limitarmi a servire i maschi. E, sinceramente, me ne infischiavo che anche per le mie coetanee andasse così. Come se non bastasse la monotonia dei nostri incontri settimanali, i miei genitori, strenui difensori della mia verginità, non mi lasciavano uscire da sola col mio filarino neanche la domenica dopo pranzo. C’era sempre qualche cugina o qualche figlia di vicini che prendevano in prestito e che mi imponevano di portare a spasso. Poveri ingenui. «Quando una femmina vuole sbagliare ti fa fesso appena giri gli occhi» diceva mia madre a mio padre per convincerlo a concedermi più libertà: avevo compiuto 16 anni e reclamavo a gran voce di essere trattata con più rispetto.
E infatti, alla faccia della loro rigida organizzazione, io mi ero messa d’accordo con la mia amica Carmela per farli fessi. Anche a Carmela il padre piazzava sempre qualche bambino in braccio quando andava a fare la passeggiata col moroso. E allora noi unimmo le nostre forze per far fronte alla spiacevole situazione in cui ci avevano incastrate le nostre famiglie: una volta li teneva lei, una volta li tenevo io, questi teneri mostriciattoli. Così per due domeniche al mese eravamo libere. Di andare a fare l’amore coi nostri fidanzati da qualche parte. Ma comunque non ero felice. E fare sesso con Mario non era poi tanto bello. Lui si preoccupava solo di sé. Io aspettavo per quindici giorni carezze e baci appassionati e quello mi spogliava e mi prendeva in fretta e furia. Senza mai chiedermi se piaceva anche a me, se stavo bene così. No, io non stavo affatto bene, e più passava il tempo più mi rendevo conto che sposare quel ragazzo rozzo e maschilista sarebbe stato un grandissimo errore. Così lasciai il buon Mario con grande stupore di tutti. «Ti credi migliore di lui? Ti credi migliore di tutti noi? Sei solo una zoccola» mi disse mio fratello, e chi se lo scorda. Mio padre invece non mi parlò più per mesi, fino a che non si ammalò e si rese conto che sarebbe morto di lì a poco. Allora si decise a mettere da parte l’orgoglio e a rivolgermi qualche parola. Passò mio padre, passarono gli anni e pure altri fidanzati, che però non portai più a casa perché non ci stavo proprio a sciropparmi le critiche di mia madre e di Nunzio ogni volta che mettevo la parola fine a una storia. Stetti a casa di donna Assunta, la mia genitrice, fino a che mio fratello si sposò, anzi anche tutto l’anno dopo la celebrazione del suo matrimonio, e poi mi trovai una piccola graziosa casetta. La stessa in cui vivo ancora oggi e che nel tempo ho acquistato. Anche questa storia dell’appartamento per l’epoca fu una cosa sconvolgente: una donna di 30 anni non sposata non andava a vivere da sola. Non succedeva mai nei paesini di montagna come il mio. Le zitelle restavano in famiglia.
Di casa si usciva dopo lo sposalizio, per seguire il marito e fare figli.
«Che dirà la gente?» mi chiedeva preoccupata donna Assunta. «Mamma, ma che vuoi che me ne importi di cosa dirà la gente! È la mia vita, non posso sprecarla per tenere chiusa la bocca alla gente! Non posso comportami in modo che le comari non spettegolino su di me. Non è la loro approvazione a rendermi felice». «E allora dimmelo! Cosa ti rende felice, Tilde? Avevi trovato un bravo ragazzo, lavoratore e possidente che ti voleva sposare e l’hai lasciato. Va bene, magari non sei fatta per il matrimonio, ma potevi ameno restare a casa con me, come fanno tutte le donne che non si maritano. Conosci qualche altra figliola in paese che non si è sposata e se ne è andata a vivere da sola?». «Mamma, a me non interessa cosa fanno le altre figliole su questo grumo di case e terra che è il nostro borgo. Nel mondo sono in atto grandi cambiamenti, le femministe stanno facendo la rivoluzione, ma qui, sui monti dove viviamo noi, non arriva neanche l’eco delle loro battaglie. Mamma, mi spiace, so di non essere la figlia che volevi». E quando poi le dicevo così, donna Assunta faceva spallucce e mi appariva ancora più curva e più scura avvolta nei panni neri che non si era più tolta di dosso da quando era morto suo marito.
Una volta sola mi sono innamorata, ma veramente. Un amore folle, di quelli che senza non sei niente, non hai più appetito, non ti piace più nulla e ti svegli la mattina col cuscino inzuppato di lacrime per quanto ti manca quell’uomo che desideri ma che non puoi avere. Già, perché Giovanni, quell’uomo lì, quello che mi faceva sospirare e strepitare, non era libero di amarmi e di stare con me. Era sposato, Giovanni. E aveva pure quattro figlie. E per quanto a letto mi stringeva con quelle sue mani forti e mi urlava: «Tu sei mia», di lasciare la moglie per me non se ne parlò proprio mai. Siamo stati insieme per sette anni, bellissimi e tormentati, gli unici in cui mi sono sentita di appartenere a qualcuno; per assurdo proprio quando stavo con un uomo che, oltre che a me, apparteneva alle sue donne. Eppure, non so come spiegarlo, fra di noi scorreva un’energia potentissima che faceva diventare insignificante tutto il resto.
Lui aveva la sua famiglia, io la mia libertà. E me la facevo bastare, perché tanto sapevo di essere innamorata di uno smargiasso che non si sarebbe mai allontanato dalle gonne della moglie. E dalla ditta del suocero con cui lavorava. Forse saremmo andati avanti così per sempre, se non fosse stato che arrivò un Giorno. Il più brutto della mia vita. Che se lo portò via, il mio amore grande. Un incidente stradale mentre andava a comprare delle tegole col camioncino dell’azienda. Io lo seppi dalle grida che si sparsero in paese. «È morto Giovanni, è morto Giovanni!». Capii subito che stavano parlando del mio Giovanni. Non potei neanche vederlo per l’estremo saluto. La moglie mi mandò a dire che se mi fossi presentata a casa sua o in chiesa mi avrebbe preso a sassate, come si faceva una volta con le prostitute. Io sorrisi fra me e me e pensai: “Teresa, ma sì, sotterralo tu, Giovanni. Prenditi la parte di protagonista al funerale e piazzati in prima fila dietro al feretro. E poi corri al cimitero ogni giorno coi fiori freschi e la pezza in mano per tenergli pulita la tomba. Io mi sono presa la parte più bella di tuo marito. Perché sono sicura che non ti ha mai stretta come faceva con me. E non ti ha mai urlato sei mia nel delirio dell’amore”. Questo pensai e ripresi piano piano la mia vita.
Mia madre non uscì di casa per mesi dalla vergogna. E per me il dopo Giovanni fu duro, la mia vita sembrava un sacco vuoto che non sapevo più come tenere in piedi senza i suoi abbracci. Poi, il primo viaggio, un anno dopo, mi sanò da quella malattia. Con una mia collega di Roma partimmo per un tour negli Stati Uniti. Da lontano il paese e tutti gli umori che conteneva mi sembrarono ancora più piccoli. E anche il mio dolore divenne roba di poco conto in confronto alla grandezza della vita che non si può controllare. Così mi ritrovai fra le braccia possenti di un texano coi baffi che mi fece ricordare a furia di baci sul collo che bisogna prendersi il buono che la vita ci offre, perché il cattivo è sempre in agguato. Che fino a che siamo vivi bisogna sorridere e fare l’amore, perché tanto poi la morte arriva per tutti.
L’altro giorno ero a leggere al parco quando un signore ha attaccato bottone. A un certo punto mi ha detto: «È una bella donna, per la sua età». L’ho trovato stupido, cafone. A che serviva sottolineare che non sono più giovane? Quell’inciso maschilista mi ha fatto sorridere; trovo così infantile quel gruppetto di uomini che pensa che le donne sono belle fino a venticinque, trent’anni al massimo. Che non riconosce il fascino dell’esperienza, della quiete dopo la tempesta. E invece le donne sono belle sempre, soprattutto quando invecchiano. Ho vissuto la vita che volevo, non ho rimpianti. Non ho mai avuto il desiderio di sentire la mia pancia pregna di nuova carne, quindi è stato giusto non mettere al mondo figli. Ammiro le donne che si sentono madri, anche senza prole; quelle che per vocazione si prendono cura degli altri, io non sono una di loro. Ho sempre cercato una canzone che mi rappresentasse, l’ho trovata solo qualche giorno fa. Parole che, guarda caso, mi arrivano dalla voce suadente di una signora che ha i miei stessi anni, Fiorella Mannoia: “I pensieri di Zo / colori passati / che appaiono appena è mattina / sono luci che ha acceso / ma senza volerlo / soltanto perché era bambina /quella voglia di dire/quello che gli altri / non riescono a dire / sono un senso contrario / che a volte non riesce a capire/ cammina cammina cammina / cammina da sola”.
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