Da ragazza avevo una grande energia fisica e mentale che l’educazione ferrea di mia madre aveva incanalato sui binari di un modello di perfezione che apparteneva a lei, non certamente a me. Aveva deciso tutto lei della mia vita, le mie amicizie, gli sport che dovevo praticare, il mio corso di studi. Un metodo educativo tanto efficace e subdolo, da farti spesso credere che le scelte erano le tue, anche quando non lo erano affatto. Stefano l’ho conosciuto che avevo appena compiuto 20 anni, mio coetaneo, figlio di amici di famiglia, il fidanzato perfetto. Mai una vacanza insieme da fidanzati, a 26 anni ci siamo sposati, andando ad abitare nella casa che le nostre famiglie avevano acquistato per noi. Sette anni dopo avevo due figli, un marito che mi voleva bene, un buon lavoro. Apparentemente avevo tutto, solo mi mancavo io. La passione per mio marito si era spenta da tempo, forse addirittura prima di sposarci e anche se allora non me ne ero resa conto, era stato il progetto di avere una famiglia e non certo l’amore a guidare i miei passi. Delle voragini che ti stanno crescendo dentro non te ne accorgi subito, quando ne acquisti consapevolezza è già tardi per riparare a quelle falle. Io, per liberarmi di un matrimonio nel quale non credevo più ho dovuto innamorarmi di un perfetto cretino, un uomo massimamente imperfetto, che per cultura ed estrazione sociale non avrei manco dovuto guardare. Ma le rivoluzioni si nutrono di punti di rottura e forse per questo avevo scelto un soggetto tanto improbabile. Fui io a baciarlo la prima volta, nel buio di un corridoio deserto, al diavolo la buona educazione, ci misi dentro tutta la mia voglia in quel bacio, quella che non avevo più per Stefano ma che evidentemente da qualche parte, dentro di me, esisteva ancora. L’inesperienza fa commettere tanti errori e se non sei nata bugiarda e col pelo sullo stomaco è difficile nascondere il turbinio di emozioni che ti fa sentire come alla giostra da bambini. Con Salvatore a letto ci sono andata subito, io che con mio marito avevo sempre il mal di testa, con lui ero tutta un’altra cosa. Il desiderio ritrovato non mi dava pace e la gelosia mi rodeva dentro come un tarlo. Stefano non ci mise molto a scoprire la nostra relazione, mi beccò in flagrante una sera che tardavo a tornare a casa da una riunione a scuola. Venne a cercarmi e mi vide dentro la macchina di Salvatore mentre lo baciavo. Non fece niente, salvo poi aspettarmi a casa fuori di sé, chiedendomi conto di quello che aveva visto. «Non ti amo più, non so se ti ho mai amato. È lui quello che voglio, con lui ho sempre voglia di fare l’amore, con te non sopporto neppure che mi tocchi». Una catastrofe, un castello di carte che dopo essere stato troppo a lungo in bilico, crollava inesorabilmente. Ci separammo un anno dopo, al termine di un periodo in cui temetti di perdere la ragione. Dopo che Stefano andò via di casa, stavo molto male, la relazione con Salvatore si era conclusa da qualche mese, per sua scelta. Sua moglie aveva scoperto tutto e lui era ritornato sui suoi passi. Avevo spesso la sensazione di soffocare, per questo cercavo di passare più tempo possibile fuori casa. Non so come, mi venne l’idea di cominciare a camminare, forse perché un pomeriggio che ero in piscina mi ricordai che da bambina a me piaceva correre, ma mia madre che non riteneva la corsa uno sport femminile, mi aveva iscritta a una scuola di danza. Abitavo vicino a uno dei percorsi naturalistici più battuti e non ne avevo mai neppure percorso un tratto. Il giorno dopo era domenica, mi alzai di buon’ora e andai a passeggiare lungo il Naviglio Martesana. Non c’ero mai stata, a meno di non considerare i pomeriggi ai giardinetti con i miei figli, là dove il parco cominciava. Avevo bisogno di trovarmi un obiettivo da perseguire giornalmente, qualcosa che mi tenesse impegnata nella testa e nel fisico, che mi facesse sentire in movimento, dopo essere stata troppo a lungo ferma.
Partii che erano le otto di mattina, arrivando fino al limite urbano del percorso. In tutto, tra andata e ritorno, 10 chilometri, un record per me che ormai da anni mi spostavo solo con la macchina. Ritornai a casa a mezzogiorno, stanca e accaldata ma decisa a ripetere quell’esperienza. I primi giorni non mi avventurai oltre il percorso urbano, un po’ perché non avevo più la forma fisica degli anni passati, un po’ perché abituata a fare tutto in compagnia, avevo timore a spingermi oltre. Forse per questo camminare da sola, tutte le mattine, circondata dal verde, assunse per me il significato di una lenta riconquista della mia autonomia, non solo di movimento ma anche di pensiero. Avevo infatti scoperto che camminare in silenzio consente di ristabilire il contatto con se stessi e con la propria anima. Dopo una decina di giorni, cominciai progressivamente ad allungare il percorso, ogni mattina mi spingevo un pochino più in là e a ogni chilometro in più, un pezzetto della mia autostima si ricomponeva. Chi fa meditazione conosce bene l’importanza del silenzio, io allora non ne ero al corrente, queste sono cose che ho scoperto dopo, eppure gli effetti positivi cominciavo a sperimentarli già da allora. Camminare mi faceva stare bene, mi rimetteva in contatto con la parte più intima di me stessa, consentendo a ricordi e paure nascoste di ritornare a galla. Non per darmi ancora una volta il tormento, ma per essere affrontate al meglio, con una lucidità che mi era sconosciuta prima. Uno dei primi nodi che mi trovai a sciogliere fu il rapporto con mia madre che tanto aveva influenzato i miei percorsi come donna. La sua visione della vita, scandita da tappe obbligate, l’approvazione degli altri come termometro della correttezza delle scelte. Mia madre era troppo impegnata a scegliere per me quello che era giusto per preoccuparsi di quello che mi rendeva felice. Io, come estrema propaggine della sua supposta perfezione agli occhi del mondo, una figlia da sbandierare, come un trofeo. Non l’aveva preso bene il mio ammutinamento, quando le comunicai la mia decisione di separarmi, la prima cosa che mi disse fu: «Hai pensato a cosa dirà la gente?». La gente: cosa era mai importato alla gente, dell’infelicità che mi portavo dietro da bambina, quando mi costringeva a piroettare con indosso quell’orribile tutù? Ricordo ancora dove mi trovavo la mattina in cui ho formulato quel pensiero. Ricordo le lacrime che mi rigavano le guance mentre, accasciata su una panchina, riposavo le gambe dalla lunga marcia. Mi sciacquai a lungo il viso in una fontanella, guardai la carta e decisi che quella mattina sarei arrivata a Gorgonzola. Non era nei miei piani andare così lontano, ma avevo bisogno di riprendermi la vita che volevo e mi sembrava che quel cammino non fosse che l’inizio. Continuai a camminare per tutto il mese di luglio, dopo Gorgonzola, la tappa successiva fu Bellinzago e alla fine arrivai persino a Cassano d’Adda. Ci misi una giornata intera a fare quei 50 chilometri tra andata e ritorno ma una volta a casa, nonostante le gambe stanche e i piedi doloranti, mi sentii forte come non lo ero da tempo. Capii che era giunto il momento di fare il salto di qualità e il giorno dopo cominciai a cercare su Internet tutte le informazioni sui percorsi dei Pellegrini. Trovai numerose testimonianze sul Cammino di Santiago, il più famoso, ma non certamente l’unico dei cammini. Fra tutti, scelsi di fare un tratto della via Francigena, l’antica strada di San Francesco che dal Gran San Bernardo porta fino a Roma. Partii con il mio zaino in treno, alla volta di Ivrea, la mattina del 2 agosto 2010. Da lì, fino a Pavia, mi aspettavano sette tappe, per una media di 20 chilometri al giorno. Fu un’esperienza fortissima, durante la quale dovetti vedermela con molte delle mie paure, ma dalla quale uscii enormemente fortificata nel corpo e nello spirito. Da allora non ho più smesso di camminare, l’anno successivo completai il tratto mancante della via Francigena e due anni dopo, armata del mio solo zaino, approdai in Spagna, destinazione Santiago di Compostela.
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