Storia vera di Giacomo . raccolta da Maurizio Riboldi
Guido veloce, brucio un semaforo, accidenti al traffico! Ma non voglio fare tardi, non vedo l’ora di abbracciarla. Eccomi, finalmente, il campanello, lo scatto del portone, mi precipito dentro e sono quattro piani di scale, le salgo di corsa e ho il fiato corto; mi batte forte il cuore, già, non ho più vent’anni, ma non è solo questo: un sorriso mi sta aspettando! Guardo in su, mentre corro, e infatti lei è là, appoggiata alla ringhiera, e segue il mio volo. Con un balzo mi bevo gli ultimi due gradini, eccomi sul ballatoio, la prendo tra le braccia e facciamo una piroetta, la lascio e me la mangio con gli occhi, Dio, quant’è bella. «Gaia, amore…».
Non scorderò mai quel pomeriggio e la telefonata di mia figlia. «Papà, ti devo parlare».
«Che è successo, Elena?».
Lei aveva percepito la mia ansia. «Stai tranquillo, voglio dire una cosa a te e alla mamma». Ero arrivato dopo un’ora, io non vivo con loro. Un’ora piena di domande. Mi era venuta incontro piangendo. «Aspetto un bambino».
«Nonno!». Il sorriso felice di Gaia. Il mio come il suo, mentre alza le mani e la prendo in braccio. Mi guarda e io ci sto tutto dentro i suoi occhi esageratamente grandi. Sono arrivato in jeans chiari, camicia e maglione azzurri, e lei, per un attimo, tace, poi: «Nonno, mi sembri un cielo». Io quel cielo lo tocco mentre mi prende per mano, saluta rapida la mamma che sta andando e mi porta in casa.
«Aspetto un bambino…». A quelle parole mi erano vacillate le gambe: mia figlia, terzo anno di università, da qualche mese insieme a Marco, un compagno di corso. Non c’ero preparato. Ero rimasto in silenzio, senza sapere che dire mentre mi guardava e sembrava impaurita, in attesa della mia reazione. Sempre singhiozzando: «Sono al secondo mese, ancora in tempo per…».
Queste ultime parole mi erano arrivate come uno schiaffo risvegliandomi dallo shock. Stavo per rispondere d’impulso ma… calmati, Giacomo, aspetta un secondo, riprendi fiato; quindi, abbracciandola: «Elena, stai tranquilla, parlatene con calma voi due, e sappi che qualsiasi decisione prenderete, io e tua madre ci saremo e vi appoggeremo». Avrei voluto fermarmi lì per non condizionarla, perché non si sentisse giudicata, ma non c’ero riuscito: «Però pensateci bene prima di decidere per l’interruzione».
Questa mattina tutta per noi come tante altre mattine, con Gaia instancabile e io felice di lasciarmi tiranneggiare. L’inizio quello di sempre: «Nonno, giaggio!». Giaggio sta per formaggio; ora lei è in grado di pronunciarlo correttamente, ma, fino a qualche mese fa, era solo “giaggio”, e ne è golosissima; da allora continua a chiamarlo così, perché poi ridiamo. Prendo dal frigo il box dei formaggi, lei sceglie e io taglio a fettine. «Nonno, una anche a te».
Finito, rimetto tutto a posto perché «Questo è il nostro segreto, vero Gaia?». Batte le manine: «Siiiii». Mia figlia, non approva questi vizi: ma cosa c’è di più bello che viziare una nipotina? Però, improvvisamente, Gaia: «Nonno, ieri l’ho detto alla mamma… mi sgridi?». Quanta tenerezza, mentre assume un’espressione seria e china la testa. Le sorrido. «No, piccolina, hai fatto bene».
Avevo rivisto mia figlia dopo tre giorni trascorsi nell’ansia, combattuto tra la voglia di chiamarla per dirle: «Io e la mamma vi aiuteremo, se decidete di portare avanti la gravidanza» e la consapevolezza che fosse giusto non interferire nelle loro decisioni.
«Papà, vogliamo tenerlo».
L’avevo abbracciata stretta, penso abbia letto nelle mie due lacrime la gioia di quel momento. «Ne sono felice».
Dopo il “giaggio”, Gaia mi prende per mano e mi porta nella sua cameretta. «Nonno, adesso giochiamo con Umbi». Umberto, il bambolotto che piange, ride, fa i ruttini, diventa rosso quando ha la febbre e bisogna dargli le medicine. Quando mia figlia era incinta, io speravo con tutto il cuore nascesse una femmina, e sono stato accontentato; non avevo però previsto che, invece di giocare con armi, costruzioni e al pallone, avrei trascorso ore facendo il papà delle bambole della nipote. Sigh! Ma devo prenderci parecchio, nel ruolo, perché Gaia mi dice sempre che sono un bravissimo papà. Purtroppo, a volte Umbi fa anche la cacca. «Nonno, dobbiamo andare in bagno per fargli il bidet e cambiargli il pannolino… poi lo fai anche a me». Avevo infatti sentito un certo “odorino”. «Gaia, quanta ne hai fatta?».
«Un quintale, nonno». Non scherzava, dannazione! Per fortuna Umbi si è limitato…
Così, mia figlia stava per rendermi nonno. Avevo vissuto l’inizio della gravidanza in modo conflittuale; si alternavano giorni di euforia ad altri, in cui prevalevano, invece, le paure. Quelle di un padre che vedeva stare male sua figlia, durante i primi mesi, e cercava di convincersi che ciò era previsto. Ma che sofferenza, non poterla aiutare. E anche le paure di un futuro nonno alle prese con domande cui non sapeva dare risposta: sarò all’altezza? Riuscirò a farmi voler bene, a creare quel magico rapporto che si dice nasca tra nonni e nipoti, un legame che quasi sembra più forte di quello sperimentato con i propri figli? C’erano anche momenti in cui prevaleva la curiosità e mi perdevo pensando: come sarà? Cosa farà? E io? Gioia, paura, curiosità: emozioni forti ad accompagnarmi nelle prime settimane dopo la “rivelazione”. Fin lì, tuttavia, avevo conservato un minimo di capacità di intendere e volere; riuscivo, a volte, a pensare ad altro, persino a concentrarmi sul lavoro, non troppo, in realtà. Perché, in mancanza di prove concrete, quella del nipote era ancora, come dire, un’idea astratta.
Sbrigate le pratiche bidet e pannolino per Umbi e nipote, mi siedo e Gaia monta subito a cavalcioni. «Nonno, mi racconti la storia di Cappuccetto Rosso?». «Ma certo, amore ». A me la storia del lupo cattivo che divora la nonna e poi viene ucciso e squartato dal cacciatore buono non piace, oggi provo a raccontargliela in modo politically correct. Così, con parole adatte alla sua età, le racconto che il lupo era un bonaccione socio di una onlus e faceva volontariato, e ogni mattina andava a casa della nonna, vecchia e malata, la lavava e la cambiava; poi sedevano con un bottiglione di vino e giocavano a briscola. Infine il lupo la rimetteva a nanna, le rimboccava le coperte e recitavano insieme il rosario. Mentre racconto, la nipote si agita, protesta, prova a correggermi ma io, imperterrito, insisto nel processo di canonizzazione del lupo. Sono alla conclusione: «…così la nonna, un po’ ciucca, ha divorato il lupo». Gaia letteralmente esplode: «Nonno, smettila di dire stupidaggini! Adesso te la racconto io».
Due eventi molto “concreti”, però, si allearono per affondare quel minimo di lucidità che mi era rimasta. Mia figlia, un giorno, mi si mette davanti di profilo: «Papi, guarda». Dalla sua snella silhouette sporge evidente un inizio di “pancione”. Così, mia figlia sarebbe diventata madre. Lei che era ancora la mia piccola, lei che avevo cullato e mi sembrava l’altro ieri, tra poco avrebbe tenuto in grembo un bambino, il suo bambino. Dietro quella rotondità appena accennata, dunque, qualcosa stava davvero accadendo! «Papi, ho un po’ paura». Le avevo sorriso, abbracciandola. «Stai tranquilla, sarai una bravissima mamma».
Ma fu un WhatsApp la sfera di cristallo che mi spalancò gli occhi sul mio futuro di nonno. Un pomeriggio, un bip sul telefonino, il logo di Elena, una foto in bianco e nero e una scritta: “Ti presento la tua nipotina”. Quasi un infarto per la troppa gioia. Avevo allargato la foto con le dita che tremavano: nell’immagine dell’ecografia, una creaturina appena abbozzata: la Vita che si annunciava. E che, tra poco, avrebbe bussato.
Niente da fare, inutili i miei appelli per la salvaguardia dei lupi: alla fine della storia raccontata da Gaia, il lupo è schiattato. A questo punto, scocca sempre l’ora di Fiocco: è un cane di dimensioni variabili, spazia dal volpino all’alano, secondo l’uso che Gaia ne fa. Fiocco sono io. Iniziamo con il volpino: «Nonno vieni che ti metto il guinzaglio e ti porto a fare una passeggiata». Il cane ha quattro zampe, purtroppo, pertanto seguo la padroncina gattonando, con schiena e ginocchia che ringraziano. «Alza la zampina e fai la pipì, su, da bravo». Eseguo. Dopo poco, ecco l’alano.«Nonno, abbassati che ti salgo in groppa». La scarrozzo in lungo e in largo per casa con lei che scalcia: per fortuna le sue calze antiscivolo non hanno gli speroni!
Quel WhatsApp aveva cambiato tutto. Ora osservavo con tenerezza come la maternità, giorno dopo giorno, stesse donando al viso di Elena lineamenti più morbidi, più luce ai suoi occhi e dolcezza al suo sguardo. Emozionato, contavo con impazienza le settimane e i mesi, perché una nipotina mi stava aspettando al varco.
«Cosa facciamo, ora, Gaia?».
«Mangiamo la pappa».
«Brava». Un affare di stato, in realtà, con bocconi trasportati da un cucchiaio-aeroplano e masticati ottocentotrentadue volte. La mela, finalmente: ce l’abbiamo fatta!
La voce accorata di Marco: «Pronto, credo che ci siamo! Sto portando Elena in ospedale». Da due giorni mia figlia aveva dolori, c’era stato anche un falso allarme. Due giorni vissuti con il telefonino sempre in mano. Poi la corsa in ospedale, l’abbraccio alla nonna e agli altri due che vivono lontani, un’ora interminabile in attesa davanti alla sala parto. L’improvviso scoppio di pianto, imperioso, con cui Gaia ci aveva detto: eccomi qua! Era iniziata così la mia avventura di nonno.
Il campanello della porta, ecco Elena. «Papi, com’è andata?». Metto la giacca per uscire, Gaia mi corre incontro, mi chino, mi salta in braccio e mi dà un bacino sulla guancia. «Ciao, nonno». Torno a casa stanco e con le ossa rotte, sento il bisogno di riposare; ma, mentre mi butto sul divano, già non vedo l’ora di sentire di nuovo trillare il telefono e, dall’altra parte, la voce di mia figlia: «Papi, potresti tenermi Gaia per qualche ora?».
Testo pubblicato su Confidenze 23/2017
Foto: 123RF
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