Dieci anni di matrimonio in cui solo io ho creduto in noi, Giorgio era troppo preso a tradirmi. Il pensiero che i miei figli potessero diventare come lui mi ha dato la forza di lasciarlo. E oggi…
Storia vera di Lauretta P. raccolta da Mariano Sabatini
Sono sempre stata praticante, i miei genitori mi hanno cresciuta nella fede e grazie alla fede ho sempre trovato conforto. Nei momenti bui, e ne ho avuti molti, ho trovato sollievo dalla lettura delle Sacre scritture. Tra tutti un passo biblico mi ha sempre ridato fiducia: “L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa”, si legge nelle lettere ai Corinzi. Forse però erroneamente mi sono fatta guidare tutta la vita da queste parole. La mia vita con Giorgio, mio marito.
Ci siamo sposati dopo qualche anno di fidanzamento, anche se non si trattava di questo. Lui era quello che le madri di una volta definivano un mascalzone, viveva per divertirsi e giocare a calcio. Non bellissimo, ma di certo affascinante: alto, magro, con uno sguardo sfrontato. Mi è stato subito chiaro che le donne gli piacevano, e molto. «Tu sei carina, ti voglio bene ma devi sapere che io non sono mai sazio. E non parlo di pasta e fagioli» rideva. Lui rideva e io mi consumavo di gelosia.
«Che ci troverai» mi ripeteva mia mamma, che cercava di nascondermi la sua preoccupazione, ma non poteva far a meno di raccomandarsi «Fai attenzione, Lauretta!» mi carezzava i capelli.
Avevo 20 anni, davvero troppo giovane. Mia mamma cercava di farmi vincere le mie angosce e i sensi di inferiorità, preda com’ero delle furbe manipolazioni di Giorgio. Con tre figli a cui pensare e il lavoro, mio padre era troppo distratto per capire che mi sarei cacciata nei guai con quel ragazzo.
Facendo leva sulla mia smania di possesso, parlandomi delle altre, Giorgio mi aveva convinta a darmi a lui totalmente. Mi sentivo sporca, in colpa, peccatrice. Avevo provato anche a confessarmi, ma la reazione del mio parroco, don Giustino, era stata forte. Mi sentii aggredita. Questo mi portò a chiudermi. Avevo 17 anni e Giorgio 24, era molto più navigato di me. Studente fuori sede, a Bologna studiava Economia, e viveva in un piccolo appartamento a pochi passi dalla nostra casa. Ci eravamo conosciuti alla latteria all’angolo della via. Ci sapeva fare, era simpatico, sempre sorridente.
Riuscì a conquistarmi con le battute. Andavo a casa sua la mattina, gli portavo le brioches e me stessa, e lui ne era molto lieto. Durante il giorno e la sera spariva. Del resto, io non è che potessi uscire, dovendo anche aiutare mio padre con i miei fratelli più piccoli. Questa routine andò avanti due anni. Non so neppure come feci a non cacciarmi nei guai prima, considerando che né io né lui prendevamo nessun tipo di precauzioni.
Presto scoprii che mi tradiva: da cose che mi venivano riferite, da suoi atteggiamenti e dalle parole poco sorvegliate, dalle ragazze che vedevo ronzargli attorno. Lui però riusciva sempre a farmi digerire l’amarezza: «Cosa vuoi che sia? Conta solo il tempo che trascorriamo insieme io e te. Io e te siamo speciali». Me lo ripeteva come per incantarmi, tenendomi il viso tra le mani e baciandomi sulle labbra, con studiata tenerezza. E io ci cadevo sempre. Mi sentivo un’idiota ma non potevo fare a meno di credergli, perché mi faceva comodo. Era più facile che rinunciare a lui, perderlo per sempre.
Mi accontentavo delle briciole, frammenti di bellezza. O di quella che a me appariva tale. Ero, sono, poco istruita, le mie sole letture sono state quelle sacre. Dovevo lavorare, occuparmi della casa, dei miei fratelli. Il poco tempo libero lo trascorrevo in chiesa o persa dietro a Giorgio. La gelosia mi consumava e quando non ne potevo più, sebbene mi fossi allontanata dalla chiesa, tornavo a rileggere quel passo. “L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia…”. Parole che un esperto avrebbe dovuto interpretarmi.
A 21 anni, e mi chiedo perché non sia accaduto prima, rimasi incinta. A quell’epoca c’erano due soli rimedi a un simile inconveniente: gli aborti clandestini o il matrimonio riparatore. Sentendomi già una peccatrice per aver concepito fuori dal Sacramento, non potevo certo ipotizzare un’interruzione di gravidanza. Non mi rendevo neppure conto che non accoglievo l’arrivo di una nuova vita con la gioia che sarebbe stata naturale. Ero spaventata, sopraffatta, preoccupata di tutto. Ma soprattutto mi sentivo orgogliosa di avere in me un frammento di Giorgio che cresceva e diventava nostro.
Quando glielo rivelai, reagì male e scomparve per un mese. Inutili furono i miei tentativi di incontrarlo e parlargli. Cambiò perfino casa e non lo rividi finché non fu lui a cercarmi. Dopo tre settimane di silenzio. «Ci dobbiamo sposare» mi informò. Non gli chiesi niente, mi sembrò la risposta alle mie preghiere, arrivata nel momento in cui stavo per raccontare tutto ai miei. Non mi chiesero nulla, avranno immaginato. Avevo avuto ciò che volevo: la mia vita con Giorgio.
Solo dopo parecchi anni seppi com’erano andate le cose. Mia suocera, molto ricca e anche lei molto religiosa, avendo saputo cosa aveva combinato il figlio gli aveva intimato di porre rimedio, con la minaccia di tagliargli i viveri. Non perché tenesse a me, non abbiamo mai avuto infatti un buon rapporto, ma per semplice senso del dovere.
Dopo il rito religioso, a cui arrivai con gli aspri rimproveri di don Giustino per la condizione in cui mi trovavo, iniziai la mia vita matrimoniale. Sbrigavo le faccende e poi andavo ad accudire i miei fratelli, perché mia mare era mancata e, da solo, mio padre non avrebbe potuto farcela. I tradimenti di Giorgio continuavano e ormai non si faceva neppure scrupolo di nasconderli.«Siamo marito e moglie, cosa vuoi di più?». Il brutto è che soffrivo, ma mi sembrava anche comprensibile che un uomo come lui cercasse le altre donne. Alla fine ero sua complice.
Don Giustino oltretutto mi invitava alla pazienza, citandomi padre Pio: “Chi comincia ad amare deve essere pronto a soffrire”. E io avevo cominciato presto a fare entrambe le cose. Dopo Carla, bellissima e sana, avemmo due gemelli, davvero splendidi. Marco e Sandro, occhi verdi, capelli colore del grano. A quel punto fui totalmente presa dalla loro cura.
Giorgio nel frattempo si allontanava sempre più da me, dieci anni di matrimonio in cui soltanto io avevo creduto in noi due. Addirittura cominciò una relazione con mia cugina, che abitava al primo piano del nostro stabile. «È successo, che posso farci?» fu la spiegazione di mio marito. Non aggiunse altro.
Isabella, una donna bella e vacua, non mi parlò per mesi: quando ci incontravamo cambiava strada oppure, per le scale, abbassava lo sguardo e si addossava alle pareti. Io mi vergognavo di quello che la gente potesse dire. Perciò evitai le piazzate. Avevo i miei figli da accudire e ho continuato a farlo finché Carla non è andata via di casa, mentre Marco e Sandro erano con ancora con me.
Furono proprio loro un giorno a darmi la forza, avevano 17 anni: «Ma sei sicura di stare bene con papà?». Non stavo bene per niente, infatti. Sandro rincarò la dose: «Non gli devi niente, mamma, tu sei speciale». E anche per loro trovai la forza. Non dovevano diventare come il padre, non avrebbero mai dovuto trattare le donne in quel modo.
Feci trovare le valigie pronte a Giorgio e lo invitai ad andarsene. «Sei sicura? Guarda che te ne pentirai».
Non me ne sono mai pentita, invece. Anche Isabella si era stancata di Giorgio, incapace di essere fedele. Non lo accolse in casa. Dovette prendersi un monolocale in periferia. Oltre al fatto che non mi ha mai amata, credo che non potesse sopportare il peso della paternità. Non si è occupato granché dei nostri figli, non ha mai dimostrato loro un po’ di affetto sincero. Al massimo una carezza distratta. Troppo preso da sé e dalle sue storielle.
Carla mi fu di grande sostegno: «Devi stare tranquilla, mamma, non puoi rimproverarti nulla».Tutto il mio amore era da tempo soltanto per loro, i miei figli. Quando Giorgio è morto d’infarto nel letto di una donna, dopo due anni che non vivevamo più assieme, mi sono sentita liberata. So che posso sembrare insensibile ma è così. Non avevo più il giogo di quel legame tossico.
Non avrei mai immaginato che la vita potesse riservarmi la sorpresa gioiosa di un amore nuovo, tenerissimo, alla soglia dei 60 anni. Ho conosciuto Filippo al mercato. Vedovo, senza figli. È iniziato tutto con qualche battuta elegante, leggera, poi un caffè. La sua voce calda, profonda, rassicurante mi ha conquistata. Ho fatto resistenza ma dentro di me una forza mi spingeva tra le sue braccia.
Un giorno, nel prendermi le buste pesanti della spesa, me lo ha chiesto: «Vorresti che fosse sempre così? Vorresti che ti fossi accanto per sostenerti ogni giorni della vita che ci rimane?». In quel momento il sole mi ha come accecata. Ho detto sì senza neppure pensarci un mezzo secondo.
Dopo la cerimonia, semplice, veloce, non ci siamo più lasciati. Cucinare e mangiare insieme, leggere, guardare film, andare per musei, lui ama molto l’arte, e fare qualche viaggio sono i nostri momenti, arricchiti dagli scambi con i miei figli, che vogliono ormai molto bene anche a Filippo. Credo sempre in Dio, prego tanto, ma non penso più che l’amore debba sopportare ogni cosa.
Avevo mal compreso, ne ho poi parlato con un sacerdote illuminato. L’amore che non è reciproco non è amore. Ci sono crudeltà inaccettabili che vanno respinte, con tutte le nostre forze. Se l’ho imparato lo devo a me stessa, e ora mi guida un’altra frase evangelica: “Ama il prossimo tuo, come te stesso”. Se l’ho vissuto, l’amore ricambiato, lo devo all’incontro felice con Filippo. Per questo sorrido al suo sorriso ogni giorno che mi viene regalato. ●© RIPRODUZIONE RISERVATA
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