Con la bocca scucita

Cuore
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Questo racconto è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. #unite #rompiamoilsilenzio

di Tea Ranno

Aveva una faccia piccola, occhi grandi. Quando non era triste, era bella. Ma siccome era quasi sempre triste, a me sembrava quasi sempre brutta.Aveva uno strano modo di tenere la bocca chiusa, come se, per riuscirci, avesse appuntato degli spilli tra un labbro e l’altro. Per questo parlava pochissimo, pensavo, per non strapparsi la bocca.
Quando andava alla posta, si vestiva di blu, come quando vai in chiesa.
In chiesa, però, non ci andava, e in paese la sparlavano, perché in chiesa ci devi andare anche solo per ringraziare del fatto che stai in piedi e respiri; poi, se figli non te ne sono venuti, a chi gliela vuoi dare la colpa, a Dio? E che c’entra lui? Non li fai perché non sei buona, non sei fatta bene, la natura non ti dotò del conquibus giusto. “E comunque in chiesa ci vai, e ringrazi!”, così dicevano.
Lei lo sapeva, ma faceva finta di niente. Una volta, però, mentre in crocchio alcune vecchie mormoravano, lei si fermò e le guardò. Si dispersero come le galline quando dici: Sciò!
Alla posta ci andava per spedire il pacco – uno al mese – alla sorella che viveva in America. Dentro ci metteva i fichi secchi, l’origano, i capperi, le mostarde di fichidindia e quelle di carrube, le mandorle spellate, qualche conchiglia, una cartolina in cui scriveva “Carissima sorella, saluti e baci. Gioconda”. Aveva fazzolettini ricamati dentro la manica (le colava spesso il naso), pettini di tartaruga tra i capelli, spighe di lavanda nei cassetti, gelsomini tra le lenzuola. Aveva un marito che certe volte c’era e certe altre no. Quando lui non c’era, diventava bella.Viveva in una casa dalle finestre socchiuse. Non cantava quando faceva le pulizie, non accendeva la televisione. Però stare vicino a lei era bellissimo, perché quello che non diceva la sua bocca, lo dicevano i suoi occhi, le sue mani. Con lei, i pesciolini di zucchero diventavano aerei pronti a planare sulla mia lingua, e anche i bottoni di liquirizia; l’acqua, il sale e lievito, versati nella fontanella di farina si cambiavano in una pasta sempre meno appiccicosa da cui cavare piccoli pani, piccoli cuori, piccole bambole che un po’ mi assomigliavano, perché avevano i capelli lunghi e ricciolini come i miei.

Le piaceva pettinarmi. Le piaceva così tanto che certe volte si scordava di avere gli spilli in bocca e prendeva a mormorare le filastrocche antiche, fatte di parole che non capivo e che ascoltavo con gli occhi chiusi, mentre le sue dita mi sfioravano la testa con carezze così delicate che spesso mi addormentavo.Ogni occasione era buona per correre da lei. Del resto, abitava cinque case più in là, lungo la strada dritta che termina con la piazza.
Spesso mi sedevo sulle sue gambe, dietro i vetri della finestra, e vedevo la gente passare.La gente che passava, ogni tanto si fermava a guardarmi. Io tiravo fuori la lingua, poi mi voltavo verso di lei, che soffriva molto, perché voleva ridere, ma gli spilli non glielo permettevano.
In certi giorni, però, la sua porta restava chiusa anche se bussavo e la chiamavo: «Sono io, apri, per favore, apri».Quando apriva – il giorno dopo o quello dopo ancora – il naso le colava e gli occhi erano pieni di allergia. Era stata lei a dirmelo di essere allergica ai pollini e alla polvere, perciò gli occhi le lacrimavano e il naso le colava.
Certe volte era brusca. Certe volte, quando passava per strada al braccio di suo marito, faceva finta di non vedermi.
«Perché?» le chiesi una mattina.
Rispose che quando stava con suo marito non vedeva nessuno.
Suo marito era uno che parlava tanto, rideva tanto. “Un compagnone” dicevano di lui.
Quando lei era con lui, gli spilli nella sua bocca sembravano moltiplicarsi.
A quel tempo avevo otto anni. Quando ne compii nove, lei già non c’era più.
«È partita» disse mamma, «così, all’improvviso. Nessuno sa perché».

Io lo sapevo, perché ero con lei quando accadde, ma non lo dissi, perché volevo darle il tempo che mi aveva domandato. Accadde questo.
Era il dopopranzo di una giornata caldissima. Entrai a casa sua come una farfalla, leggera nel vestitino d’organza, in mano la scatola delle liquirizie che tanto ci piacevano. La vidi e mi bloccai. Aveva il viso bruttissimo di quando era tristissima, aveva gli occhi pieni di lacrime (altro che allergia). Suo marito, che vedevo di spalle, aveva una voce di furia intanto che diceva: «Muta devi stare, capisti? Muta! Quante volte te lo devo dire? E quante te ne devo dare, per fartelo capire?». E siccome lei stava per replicare: «Muta!» urlò. E a voce più bassa, in un sibilo: «Muta… Ché niente vali, né come femmina, né come moglie. Muta!».
A ogni “Muta” era come se le conficcasse un altro spillo nelle labbra, che adesso erano quasi invisibili nella bocca ridotta a un filo.
Quel marito non era molto alto, ma in quel momento mi sembrò gigantesco. Alzò la mano e gliela lasciò cadere sulla testa. A me parve di sentire il rumore di una noce che si spacca. Ma fu solo l’urto della scatola di liquirizie contro il pavimento.
Lei non fiatò.
Lui alzò di nuovo la mano, di nuovo la lasciò cadere sopra di lei, che se ne stava come imbambolata, ferma ferma, zitta zitta.
Il dolore mi esplose nel cervello: il dolore del pugno e quello della rabbia, e prima che lui la potesse colpire ancora: «No…» urlai con la mia bocca di bambina che nessun “Muta” avrebbe mai cucito.
Lei ebbe come un soprassalto. I suoi occhi, umidi e nebbiosi, intontiti dai colpi, all’improvviso diventarono vivi.
Lui neppure si voltò: mosca ero, cosa che non vale manco lo sforzo di girare la testa.
Lei invece, fu percorsa da un brivido. Mi guardò. Lo guardò. Vide le liquirizie sparse per terra.
Lui alzò la mano.
Lei alzò la mano, a bloccare la sua.
Lui cercò di svincolarsi.
Lei gli chiuse il polso in una stretta che le sbiancò le nocche.
«Finiscila» fece lui.

«No» disse. Un “No” rauco, grezzo, aspro e duro come una pietra.
La guardò sbalordito, poi cominciò a ridere come se quel “No” fosse una barzelletta. Con la bocca aperta rideva, una risata grassa.
Fu allora che lei sputò. In bocca gli sputò.
Là per là, lui sembrò non capire. S’infilò le dita in bocca, le tirò fuori bagnate della saliva di lei: «Ti spacco» ringhiò.
«Provaci.» Un’altra sembrava. Una che era morta e all’improvviso era viva. Viva e forte. Viva e arrabbiata. Pericolosa.
«T’ammazzo» lui disse. E alzò la mano per spaccarle la testa.
«Provaci» lo sfidò lei, guardandolo con quegli occhi tremendi che l’erano venuti.
Lui restò come pietrificato.
Lo scansò. «Vieni» mi disse. Prese la borsa dall’attaccapanni e uscimmo, io col vestitino giallo, lei in ciabatte e vestaglietta.
La strada era vuota. Solo un cane dormiva nella striscia d’ombra davanti alla saracinesca chiusa del bar.
«Vado da mia sorella» disse in un sussurro. «Ti mando i pacchi da lì.» Si fece un segno di croce davanti alla bocca per sigillare il segreto.
Segnai una croce sulla mia bocca per sigillare il segreto.
Sorrise. Con la bocca scucita era bellissima.

Quando lui uscì di casa gridando il suo nome, lei già non c’era più.

 

 

Chi è l’autrice: Tea Ranno

Nata a Melilli (Sr), nel 1963, vive a Roma. È laureata in Giurisprudenza e si occupa di diritto e letteratura. Ha esordito con Cenere (e/o, 2006), finalista ai premi Calvino e Berto e vincitore del premio Chianti. In seguito ha pubblicato molti romanzi, tra cui In una lingua che non so più dire (e/o, 2007), Sentimi (Frassinelli, 2018), L’amurusanza (Mondadori, 2019), Terramarina (Mondadori, 2020), che ha vinto il premio Città di Erice e Gioia mia (Mondadori 2022). È appena uscito Avevo un fuoco dentro (Mondadori), un memoir che racconta la sua esperienza con l’endometriosi.

 

Pubblicato su Confidenze n. 8/2024
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